Mulholland Drive – Betty Elms, Freud e la metafora del doppio

Gianluca Colella

Aprile 2, 2021

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Nel cult di David Lynch Mulholland Drive (2001), la metanarrazione della vita di Hollywood degli anni d’oro del cinema americano si concretizza nella figura di Betty Helms, ovvero Diane Selwyn.

Il personaggio che Naomi Watts interpreta è quello di un’attrice di bassa categoria, che condensa in una figura immaginaria tutte le sue ambizioni di successo e prestigio: Betty Elms non esiste, è solo una proiezione di comodo, la conseguenza di un massiccio meccanismo difensivo attraverso cui Diane nega la propria mediocre realtà.

Per uscire dalla triste quotidianità che non la soddisfa, Diane crea Betty perché è la proiezione del suo ideale.

In una macabra sintesi di tutti i giovani attori che sperano di sfondare attraverso Hollywood, Diane condensa su di sé sogni, incubi, frustrazioni e gioie delle persone che sognano di sfondare con la settima arte.

Mulholland Drive, tra le opere di Lynch, sembra essere una di quelle più realistiche, nonostante i fortissimi riferimenti al mondo inconscio e alla vita onirica in generale.

Realtà e surrealtà si intrecciano in questo thriller psicologico, e la vita di Diane assume valore perché orbita intorno alla carriera della splendida Camilla Rhodes, così vicina eppure così inarrivabile.

Mulholland Drive: Diane Selwyn e le sue frustrazioni

L'ambizione può essere un'arma a doppio taglio; in Mulholland Drive, Diane lo scopre attraverso la figura di Betty Helms.

Mulholland Drive – Diane Selwyn

Fantasie complesse, eroticità e ambizioni animano la vita psichica di Diane Selwyn; il nucleo della sua motivazione è l’ambizione. Dopo gli eventi delle prime scene di Mulholland Drive, molto tempo occorre prima di scoprire che gran parte di ciò che succede è frutto del suo confuso mondo interno.

Nonostante bellezza, talento e nobili compagnie non le manchino, Diane è una figura femminile avvelenata, perché vuole sempre di più, quello che ha non è mai abbastanza.

Attraverso il linguaggio del cinema, Lynch presenta due donne, simili e al tempo stesso diverse tra loro: Camilla è angelica e indifesa, ma il suo cipiglio è quello di una persona responsabile; Betty è l’ingenua che sogna a occhi aperti la sfumatura che permette alla realtà d’intrecciarsi con la fantasia.

Qualcosa di indeterminato avvolge la figura di Betty Elms. In quanto parte dello scontro tra mondi e generi tipico del cinema di Lynch, la co-protagonista di Mulholland Drive prova a orientarsi in una trama che confonde lo spettatore, lasciandolo in uno stato d’animo infastidito.

Il secondo film della trilogia del sogno è un capolavoro governato dal timore più intimo e inquietante che esista, la paura del doppio, il rispecchiamento in un Sé mortifero inaccettabile.

Questo, in ultima istanza, è il terrore rimosso di Diane Selwyn, riattualizzato nella figura di Betty, illusione necessaria per contrastare la sua realtà interna ed esterna, instabile e catastrofica.

Il riferimento che viene in mente è quello del Perturbante (Freud, 1919), inteso come quello stato d’animo suscitato da alcune percezioni estetiche del mondo, che instaurano il sospetto nella coscienza del soggetto.

L’intuitiva sintonia che Lynch cerca di realizzare nelle immagini del film è la proiezione di una meditazione che Diane prova a fare su se stessa, la sua vita e le relazioni col mondo.

Ovviamente è lo scacco di questo tentativo a dare vita a Betty, ma ciò che conta è che le sensazioni mostrate suscitino nello spettatore l’inquietudine che il regista desidera.

Mulholland Drive: Betty, il felice inganno di Diane

L'ambizione può essere un'arma a doppio taglio; in Mulholland Drive, Diane Selwyn lo scopre attraverso la figura di Betty Elms, il doppio.

Mulholland Drive – Diane Selwyn

Portare avanti questo articolo significa continuare a vagare senza meta nelle nebbie oniriche che permeano i film di Lynch, e il tentativo (più o meno aporetico) può avere due connotazioni, a seconda del disagio o del piacere che il fan del regista sperimenta quando si addentra in un film come Mulholland Drive.

Finora si è parlato di persone, maschere e soggettività sdoppiate; il potenziale simbolico delle immagini evocate da Lynch è tanto più grande quanto più forte è il riferimento alla sua contorta biografia.

Poiché quello che egli ha sempre cercato di realizzare è l‘espressione della mente attraverso immagini; evitando parole superflue, sembra quasi ridicolo e patetico cimentarsi in una fatica di scrittura che ha la pretesa di tradurre in un linguaggio comune e comprensibile le sue irreali istantanee.

Diane – Betty è una di queste istantanee, una figura che ama e odia se stessa (conoscendosi senza conoscersi): in quanto produzione del suo Io, Betty è bersaglio di disprezzo da parte di Diane; al tempo stesso, poiché è qualcosa di diverso da sé, è una maschera da stimare, un ideale al quale tendere.

Al di là delle contaminazioni freudiane più o meno ovvie sull’idealizzazione, l’isteria e la melanconia, ciò che Lynch trasferisce dalla psicoanalisi al cinema sono soprattutto intuizioni, e in quanto intuizioni, spiegarle sarebbe quasi un insulto.

Dalla celebre scatola di Mulholland Drive, Diane trae un materiale oscuro e inconoscibile, frutto dei luoghi più remoti della propria psiche, perché quella scatola è proprio una finestra su quei luoghi.

Betty è perturbante per tale ragione: un inganno familiare e al tempo stesso ignoto, un-heimlich per dirla sempre con Freud.

Mulholland Drive – Diane e Camilla

Diventare l’amante di Camilla potrebbe quasi essere considerato un modo intimo per superarla, governarla dal punto di vista delle ambizioni, dello stile e della personalità.

Il colpo letale per Diane arriva durante la fatidica cena, il momento in cui Camilla annuncia pubblicamente il suo matrimonio con il regista Adam; l’umiliazione che vive il personaggio interpretato da Naomi Watts in quel momento dà vita a una frustrazione immensa, che diventa il motore dell’intera trama del film.

In quel momento l’illusione si disgrega, e lo spettatore riesce finalmente a capire che Betty era un pretesto, una macchinazione infima e meschina attraverso la quale Diane intendeva diventare qualcosa che non è.

L’insegnamento che il film di Lynch dona allo spettatore è al tempo stesso un monito quasi mortifero: quello di accettarsi non è tanto una scelta, quanto un obbligo, perché le conseguenze della negazione possono produrre un intollerabile risentimento.

Ancora una volta, e non me ne vogliate, involontariamente o meno, Lynch strizza l’occhio a quel concetto freudiano del 1932, il famigerato lavoro di civiltà (Kulturarbeit) che anima l’intero corpus del medico viennese, inteso come capacità di elaborazione e conoscenza intima costante e necessaria, fondamentale freno degli impulsi inconsci denegativi, e quindi potenzialmente letali.

«Il sogno è l’appagamento allucinatorio di un desiderio iconscio»

(Freud)

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