Terry Gilliam e la distopia – Il potere evasivo della mente

Antonio Lamorte

Giugno 20, 2021

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Terry Gilliam. Il regista della fantasia. Profeta del sentimento, quella forza innata che si ribella alle imposizioni di un sistema malvagio. Romantico difensore del potere della mente, quella mente che impara a espandere i propri limiti, spostando sempre un po’ più avanti i restringenti confini del pensiero. Terry Gilliam è tutto questo. Anche all’infuori del contesto cinematografico. Ecco perché viene amato da tutti coloro che all’arte dedicano la propria vita.

L’arte svolge molte funzioni. Allevia il dolore, consola gli affranti, aliena nella sua perfezione chi la percepisce. Ma può anche fungere da monito. L’essere umano tramanda insegnamenti fin dall’alba della sua storia. E lo fa attraverso l’arte. Attraverso le immagini, le parole, il racconto verbale. L’uomo si comporta così perché è naturalmente portato a esprimersi, a comunicare, non solo con il prossimo, ma anche con le generazioni successive. E tra queste innumerevoli forme di comunicazione, è presente anche il monito. Il mettere in guardia chi verrà dopo dalle conseguenze che seguiranno a determinate azioni.

Proprio a proposito di ciò, nel corso della storia si è sviluppato un filone narrativo, partito dalla letteratura, ma poi espansosi praticamente in ogni altra forma d’arte, che è quello della distopia. La distopia è, per definizione originale, il contrario dell’utopia, che rappresenta un mondo ideale, in cui tutti vivrebbero felicemente, un luogo dove non esistono criminalità e corruzione, e dove regna l’amore. La distopia è quindi l’esatto contrario di tutto ciò. Può essere un’allegoria di una dittatura già esistente, ma anche appunto un monito, affinché ciò che viene descritto non diventi la triste realtà di tutti i giorni.

A questo genere narrativo si sono interessati, negli anni, tanti scrittori. George Orwell, H.G. Welles, Aldous Huxley, Philip K. Dick, Anthony Burgess, solo per citarne alcuni. Successivamente questo filone ha trovato spazio anche nel cinema. E tra chi ha contribuito a rendere così interessante il genere anche sul grande schermo c’è proprio Terry Gilliam.

Se si osservano i temi cardine della filmografia di Terry Gilliam, viene da pensare che le sue incursioni nel genere distopico siano state più che naturali. La distopia è una società in cui vige il controllo più ferreo. Ogni accenno di azione che sembra mettere in pericolo il sistema viene represso. Ogni pensiero che si allontana da quello imposto viene mutilato. Nella distopia vengono negati perfino i più basilari diritti umani. Il cinema di Gilliam è l’esatto opposto di tutto questo. È un cinema fuori controllo, estremamente dinamico, e che cerca di scavare sempre più in profondità per guidare lo spettatore in una riflessione. Ecco quindi spiegato il motivo per cui il connubio tra Gilliam e la distopia ha generato così tanto entusiasmo e ammirazione.

Brazil: Terry Gilliam e il manifesto poetico del sogno

Se si discute di distopia, è impossibile non citare 1984 di George Orwell. L’idea di produrre un film ispirato al celebre romanzo era nell’aria da parecchi anni. Ma, ben presto, tutti si diedero per vinti, considerando il progetto troppo difficile da portare a termine. Però ecco che, verso la metà degli anni ’80, il giovane e all’epoca semi-sconosciuto Terry Gilliam si mette al lavoro su una sceneggiatura avente al suo interno dei rimandi al capolavoro di Orwell, e non solo. Il risultato fu Brazil (1985).

Brazil riprende i concetti di base di 1984 e li rielabora secondo la lisergica visione di Gilliam. Grazie a una regia esagerata e dirompente, ogni singolo aspetto del mondo distopico orwelliano viene amplificato. L’onnipresenza della macchina dello Stato, l’annullamento di una qualsiasi argomentazione o visione delle cose che possa nuocere al sistema, la sconfitta dei sentimenti. E, naturalmente, come in tutte le distopie che si rispettino, è presente un’eccezione a tutto ciò. Un’eccezione che, invece di confermare la regola, si scaglia contro di essa, con tutte le sue forze. Questa eccezione è il personaggio di Sam Lowry (Jonathan Price).

Lui non rappresenta l’archetipo dell’eroe, anzi, è un uomo piuttosto comune e che non nutre particolari slanci rivoluzionari. Insomma, una persona come tante altre, tanto efficiente nel suo burocratico lavoro quanto inoffensivo. Ma la sua visione del mondo cambia quando accade un qualcosa di inaspettato e tuttavia inevitabile. Si innamora. Esattamente come accade al personaggio di Winston Smith, il protagonista di 1984.

L’ultima scena di “Brazil”

Però il film di Gilliam compie, in un certo senso, un ulteriore passo avanti. Sam infatti sviluppa il suo sentimento nel sogno. Lui sogna spesso, e tra le immagini più ricorrenti che lo raggiungono nel sonno c’è sempre questa misteriosa ragazza da salvare. Attraverso il concetto del sogno, Gilliam definisce un vero e proprio manifesto poetico.

La mente come ultimo baluardo completamente libero dell’essere umano, come uno strumento dotato di un potere evasivo smisurato. E poi il sogno, inteso come esclusione di un qualsiasi tipo di logica limitante, come luogo di felicità eterna. Proprio in questo senso, il finale di Brazil è più che emblematico. Sam entra in uno stato catatonico che lo costringerà per sempre a vagare nella purezza dei suoi sogni, che diventano, in questo caso, l’utopia. Il perfetto contrario della triste e grigia realtà in cui tutti i personaggi di Brazil vivono.

Non è un caso che il sogno abbia un ruolo così importante all’interno della narrazione. Tra i registi preferiti di Gilliam vi è infatti Federico Fellini. Così come non è un caso che il titolo originale di Brazil sarebbe dovuto essere 1984 ½, per citare appunto  del maestro riminese.

L’esercito delle 12 scimmie: il ricordo e l’ineluttabilità

La mente è, dunque, al centro di tutto per Terry Gilliam. E, in particolare, il rapporto tra la mente di un singolo individuo e il contesto in cui si trova condannato a vivere è evidentemente un tema che interessa molto all’ex Monty Python. Perché viene ripreso anche nel suo secondo film fantascientifico, ovvero L’esercito delle 12 scimmie (1995). E, anche in questo caso, la mente viene meno al suo ruolo di entità razionale e diventa invece il veicolo di un’irrazionalità salvifica.

James Cole (Bruce Willis) viene mandato indietro nel tempo per scoprire l’origine di un misterioso virus che ha portato il 99% dell’umanità a estinguersi. Tuttavia, una volta giunto nel passato, James viene catturato e imprigionato in una clinica psichiatrica. Qui incontra il lunatico Jeffrey Goines (Brad Pitt), a cui James rivela la sua assurda storia. Da qui in poi, un susseguirsi di eventi, che portano i vari personaggi a vagare nel tempo, ad analizzare il ciclo degli eventi, a ipotizzare chi e cosa possa aver scatenato il virus.

James (Bruce Willis) e Jeffrey (Brad Pitt) in una scena de “L’esercito delle 12 scimmie”

Nonostante anche in questo caso il sogno sia un elemento abbastanza presente, questa volta al centro di ogni cosa è il ricordo. Che cos’è il ricordo? Un’ingegnosa e inconscia operazione di manipolazione della realtà. James ha questo sogno, che è un ricordo della sua infanzia, e ogni volta assume connotati diversi. L’immagine riguarda un uomo che corre in un luogo abbastanza affollato e che viene sparato da dietro. Quest’uomo, alla fine, si scoprirà essere proprio James. Il James del futuro che è tornato indietro nel tempo per fermare il propagarsi del virus, e che è stato ucciso davanti al James bambino.

A conti fatti, L’esercito delle 12 scimmie altro non è che un meraviglioso saggio sulla percezione della realtà. Una percezione alienata dal sistema corrotto in cui si vive. Un luogo in cui la mente si ritrova a essere frastornata continuamente e senza nessuna possibilità di salvezza.

È infatti uno dei film più pessimisti del regista, di quel pessimismo che sta alla base della narrativa distopica. Una narrativa che non contempla la possibilità di un cambiamento. Il virus è nato proprio perché James torna nel passato. Tutto è stato già scritto. E, ancora una volta, l’umanità è la grande perdente del gioco evolutivo.

The Zero Theorem: la dolce resa secondo Terry Gilliam

L’esercito delle 12 scimmie lascia intendere che l’universo in cui l’umanità si trova a vivere sia un luogo in cui viga un principio predeterministico. Ovvero, ogni azione, che sia dettata dalla ragione o dal sentimento, è in realtà meno libera di quanto si creda. È presente, insomma, un certo “controllo”, adoperato da un qualcosa, o da un qualcuno, che si trova al di sopra. Andando a ritroso, è possibile rintracciare questo principio vincolante anche in Brazil, dove i sogni di Sam non sono altro che delle anticipazioni di ciò che avverrà in seguito.

Resta da definire chi, o cosa, regola questo universo già prestabilito. E a fornire una risposta ci prova The Zero Theorem (2013). L’intento del protagonista Qohen Leth (Christoph Waltz) è infatti esattamente questo. Trovare il principio fondatore, il senso che ci si aspetta dall’atto dell’esistenza, l’aristotelico primo motore immobile. Qohen, dal canto suo, crede fermamente che la vita abbia un senso, che ci sia uno scopo per ogni creatura e oggetto. Rigetta veementemente la possibilità secondo cui ogni cosa sia semplicemente il frutto del caso. E la risposta alla sua spasmodica ricerca è da rintracciare nel misterioso Teorema Zero, un nome, una formula che ricorre continuamente e che potrebbe rivoluzionare per sempre la concezione che l’essere umano ha della realtà.

Ancora una volta, per Terry Gilliam, la chiave di volta non risiede in nessun altro luogo che nella mente.

La psiche, che in questo film ha il duplice significato di funzione cerebrale e anima (in greco ψυχή significa “soffio”, “respiro”), compie una sorta di viaggio “regressivo”, che si concluderà alle porte dei quesiti più antichi che da sempre hanno tormentato l’essere razionale. E anche l’alienazione gioca ancora un ruolo fondamentale. Qohen è una persona talmente alienata, nei confronti del suo lavoro, delle relazioni sociali, che è costantemente assalito dal panico generato da una furiosa lotta contro se stesso.

Primo piano di Qohen (Christoph Waltz) in “The Zero Theorem”

Infine, naturalmente, c’è il sogno. L’ultima forma di alienazione. Quella definitiva. La più dolce di tutte. L’utopia irrealizzabile. Qohen ha trovato la risposta che cercava. Il Teorema Zero è l’assunzione che l’esistenza dell’universo altro non sia che un insieme fortuito di coincidenze. Che la vita non abbia alcun senso. Terrorizzato e affranto da questa rivelazione, lui che ha sempre creduto nel concetto di uno scopo, Qohen si rifugia nel sogno. Il suo sogno più bello. Una spiaggia baciata dal sole in uno stato di eterno tramonto. E qui, finalmente, i lineamenti di Qohen, un tempo costantemente tesi e malinconici a causa della distopica frenesia di quel mondo senza senso, ora sorridono. Per l’eternità.

Con The Zero Theorem Terry Gilliam sembra chiudere un cerchio. Un disegno cominciato proprio con Brazil diversi decenni prima.

Un’indagine scrupolosa che, servendosi dei concetti quali distopia, alienazione e sogno, ha definito nella sua essenza più pura l’essere umano. Una creatura incatenata suo malgrado in un mondo che limita sempre più ogni sua espressione, e che può trovare l’unica sua libertà nel sogno. Sognare, per Gilliam, corrisponde a una resa. Una dolcissima resa. Ed è, forse, l’unico modo per raggiungere quella felicità promessa, ma mai concessa, dal sistema. Perché è solamente tra le mura della propria mente che si è completamente al sicuro e liberi di vagare per paesaggi sterminati, senza alcuna meta, di abbandonarsi al flusso di ricordi, manipolati e non, o di scrutare l’orizzonte in cerca di un sole che non tramonterà mai.

Leggi anche: The Zero Theorem – L’esistenza è un sistema binario

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