Il porto di Gioia Tauro si stende tra terra e mare, una lingua di sabbia rubata ai marosi e alle onde; un blocco di cemento che galleggia sul nulla, come un’illusione, al sapore di sale, salsedine e speranze mal riposte. A Chiara quelle navi portano la voce lontana di terre sconosciute, sensazioni che solleticano la sua adolescenza, mettendo in discussione limiti e divieti per cercare la propria identità. Mentre il profilo delle gru che si stagliano contro il cielo infiammato dal tramonto, sembrano i draghi di un romanzo fantastico, di un mondo irreale da cui basta svegliarsi. E invece no. Per quanto brutta e incredibile, quella è la realtà.
A Chiara, due destini che si uniscono
Per Chiara tutto andava avanti con naturalezza; la sua è una famiglia normale, lei e le sue sorelle vivono circondate dall’affetto di due genitori pazienti e amorevoli; la famiglia numerosa, composta da un gran numero di zii e zie, non manca di far sentire la propria presenza e vicinanza nei momenti importanti. La festa di diciotto anni di sua sorella Giulia ne è la testimonianza perfetta, di quell’equilibrio che lei sente di avere dentro, nonostante il ribellismo adolescenziale cominci a fare capolino tra una sigaretta e una parolaccia di troppo. Ma la realtà deflagra nella sua vita, come uno schiaffo in faccia, quando la macchina di suo padre esplode davanti a casa sua, illuminando la notte buia e facendo luce negli angoli oscuri di quel cosmo familiare.
«Sei troppo piccola per capire». Questa la risposta di sua madre, a tutte le domande che vengono a galla numerose, dopo aver scoperto che suo padre è latitante, è un trafficante di droga, appartiene alle ‘ndrine di Gioia Tauro. Ma a Chiara quelle parole innescano solo una reazione rabbiosa; è stanca di essere trattata come una ragazzina e non basteranno certamente quelle poche parole a sedare la sua curiosità. E poi è troppo piccola per capire cosa? Cosa nasconde il mondo dei grandi che lei non possa capire? Droga, spari, autobomba? Forse la sua incapacità è una fortuna, perché le impedisce di essere ipocritamente convinta di fare la cosa giusta.
Il tapis roulant su cui si sfoga tutte le sere rappresenta al meglio la sua condizione attuale; la sua e quella di tutte le persone che la circondano.
Corre Chiara, a perdifiato, ma senza spostarsi di un centimetro, ben piantata sullo stesso punto; si agita, sbraita, urla, ma non riesce ad andare avanti, non riesce ad andare da nessuna parte. Desta solo l’attenzione delle autorità, che decidono di esiliarla, di darla in affido lontano da casa sua; condannandola a una sorta di confino “a fin di bene”. Ma neanche la lontananza può dare risposte o far tacere i dubbi che le avvelenano l’anima. E allora inizia a correre davvero.
Corre verso casa, ma non per correre tra le braccia di sua madre o per salutare le sue amiche; Chiara vuole risposte, vuole vedere suo padre e sapere tutto, per mettere finalmente un punto. Chiudere il sipario e andare avanti. Solo così, ricostruendo i tasselli del suo dramma familiare, potrà trovare la forza di dare una svolta alla sua vita; a nulla valgono i diktat degli assistenti sociali o le minacce dello Stato. Chiara ha bisogno di crescere, di conoscere, di emanciparsi, prima di potersi lasciare tutto alle spalle.
Estetica e marginalità
La Gioia Tauro che viene fuori da A Chiara (2021), ultimo lungometraggio di Jonas Carpignano, è una cittadina spigolosa, ostile, grigia, ben lontana dall’ideale di sud gioioso e solare che si vede nei rotocalchi. Il mare sembra fatto di cemento, che si agita in una betoniera gigante, mentre il cielo è sempre costellato di nuvoloni che promettono tempesta; promessa spesso mantenuta. Il sole fa raramente capolino tra le nubi, solo in sporadici tramonti che infiammano l’orizzonte, raccontando di una speranza che esiste, ma solo lontano da quei luoghi maledetti, lì dove il buio domina sulla luce. I personaggi sembrano vampiri che si spostano da una notte all’altra, attraversano cunicoli e bunker, per non affrontare mai il giorno, la verità.
Questa ambientazione prettamente notturna, oscura, della pellicola dà tutt’altro spessore anche alla dimensione onirica che, in alcuni passaggi di A Chiara, diventa rivelatrice.
Innanzitutto, il sonno rende in maniera efficace la sensazione di spaesamento che Chiara si trova ad affrontare, di fronte a tutte quelle rivelazioni; ma al tempo stesso, quando inizia a dubitare di tutto, saranno proprio i sogni a rivelarle qualcosa, più delle parole vuote e fuorvianti dei suoi familiari. Fino all’incontro col padre, che viene fuori dalla terra come uno zombie, nel mezzo di una campagna immersa nella nebbia lattiginosa; quell’uomo, cieco di fronte alla sofferenza di sua figlia, ricorda Tiresia che nell’Ade rivela a Ulisse la strada per Itaca.
La telecamera fa da amplificatore al complesso spettro emozionale del film; segue le vicende da un punto di vista estremamente vicino, una sorta di punto di vista aggiunto. L’inquadratura che balla, fianco a fianco con i protagonisti, è profondamente intima e restituisce uno spaccato sincero di quello che accade; sembra quasi come se il regista avesse dato a Chiara l’opportunità di uscire dal proprio corpo, per osservarsi dal di fuori e vedere tutto con occhi esterni, ma presenti. Come in un sogno a occhi aperti.
L’autenticità, in A Chiara, fa da padrone anche nella scelta degli interpreti, tutti appartenenti alle famiglie Rotolo e Fumo, legate, nella realtà tanto quanto nella finzione, da legami veri di affetto e di sangue. Una eco pasoliniana che da Ostia è arrivata fino in Calabria, per provare a marchiare a fuoco la pellicola con la marginalità delle periferie: meglio essere autentici e viscerali, piuttosto che attori provetti. Anche se, in questo caso, nulla c’è da recriminare agli interpreti, personaggi in cerca di un autore che li aiuti a impersonare sul palcoscenico il dramma di una vita vera.
A Chiara, dopo Mediterranea e A Ciambra, ha il merito di ridare dignità a storie che sono troppo complesse per essere raccontate.
Come si può capire il punto di vista della figlia di un latitante? Come si può empatizzare o, ancora peggio, simpatizzare per chi vende droga e, facendolo, si crea una famiglia che, per quanto complice, resta innocente se non coinvolta? Nella mente del perbenismo, la condanna è collettiva, cumulativa, quasi razziale, in un senso lombrosiano del termine. Ma dove si può mai fuggire quando crollano le certezze della propria vita? Quando tutto il mondo si rivela di cartapesta, come scoprire un mondo altro, un altro destino?
Alla violenza delle proprie origini, lo Stato risponde con altra violenza: con la repressione, i servizi sociali, l’allontanamento, che non possono certamente ridare la dimensione di un dramma così complesso. Anzi, nella maggior parte dei casi, portano solo alla maturazione di un senso di ingiustizia e frustrazione talmente profondo da scavare una trincea invalicabile tra le vittime, e chi quei corpi vorrebbe strapparli a un destino segnato a prescindere. Ma non è sradicandola che si combatte la gramigna. L’erba cattiva si combatte piantando nuovi semi, portando la vita nei terreni aridi; è attraverso la ricerca di risposte, dando linfa ad alberi di consapevolezza, che si può costruire un futuro diverso per tutti.