Lo chiamavano Jeeg Robot – Il viaggio dell’eroe di Enzo

Silvia Ballini

Novembre 9, 2021

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Da dove vengono le storie? Come funzionano? Che significano? Cosa ci raccontano di noi stessi? Sono le domande che sovente ci poniamo di fronte a narrazioni di ogni tipo, compresa quella cinematografica.
Ricorrono infatti dei personaggi, dei luoghi e delle situazioni che si ripetono febbrilmente nelle storie che ci troviamo davanti, che trovano origine nei miti più antichi. Comprendere tale questione risulta ancora più congeniale, in parallelo a una narrazione perfettamente strutturata come Lo chiamavano Jeeg Robot, film d’esordio di Gabriele Mainetti su soggetto dello sceneggiatore napoletano Nicola Guaglianone, che ha curato anche lo script in collaborazione con il fumettista Menotti.


Per essere più chiari, ed entrare maggiormente nello specifico, Lo chiamavano Jeeg Robot segue perfettamente lo schema strutturale proposto dallo sceneggiatore statunitense Christopher Vogler nel libro Il viaggio dell’eroe (1992), influenzato a sua volta dagli studi di Joseph Campbell ne L’eroe dai mille volti (1949), in cui l’autore analizza l’ossatura delle narrazioni, formulando gli archetipi che si ripetono di continuo nei miti, nelle fiabe, nei sogni, come nei film.

Ilenia Pastorelli è il mentore

Ogni racconto ha quindi degli elementi universalmente rintracciabili nel viaggio di un eroe, ed è così possibile tracciare una mappa del suo viaggio di trasformazione, a cominciare da un preciso inizio, poi da un progresso e infine una conclusione, che si dilata nei famosi tre atti teorizzati da Syd Field.

L’eroe del nostro film è Enzo Ceccotti – Claudio Santamaria -, ladruncolo di Tor Bella Monaca, che come ultimo obiettivo nella vita avrebbe quello di salvare l’umanità, ma qualcosa lo cambierà per sempre.

All’inizio del primo atto il protagonista è ancora immobile nel mondo ordinario, fino a che non entra nella cosiddetta pancia della balena, quando, immerso nelle acque del fiume Tevere, per scappare a un inseguimento, ingerirà del veleno ottenendo dei superpoteri, come quello di una forza sovrumana.

Chiaramente Enzo non è consapevole del cambiamento radicale che ha subito la sua vita, e proprio per questo sarà necessario l’incontro con il mentore Alessia – Ilenia Pastorelli -, che ne illuminerà il cammino. Alessia, altro personaggio che ha ricevuto poco dalla vita, è l’unica a riconoscere Jeeg Robot in Enzo, ed è cosciente della sua missione.

L’incontro tra i due avviene nella tana della mentore: Enzo si reca a casa di Alessia per organizzare un colpo con Sergio, padre di Alessia, al quale tale colpo costerà la vita.
Appena varcata la soglia di casa, saranno i disegni di Jeeg Robot ad accoglierlo ed Alessia, intenta alla visione del dvd della serie, è pronta a chiedergli se l’eroe è in possesso della spada alata, non ricevendo però alcun segno di comprensione da parte di Enzo.

Si tratta della chiamata all’avventura per il nostro eroe, eseguita dalla mentore, a cui segue il categorico e obbligatorio rifiuto: per esigenze narrative infatti, non è ancora pronto a comprendere la portata dei suoi poteri.

Enzo continua a rifiutare diverse chiamate, più volte rischia la vita gravemente, ma grazie ai suoi poteri si salva e ne esce intonso. Acquisirà consapevolezza di ciò quando Alessia è in pericolo, assediata dalla banda dello zingaro Luca Marinelli, che è in cerca del padre defunto.

Enzo, oramai Jeeg con indosso una maschera nera, sfonda la finestra dell’abitazione per salvare la sua mentore, che oramai si trova sola al mondo, accompagnata unicamente dalle fantasie e speranze riposte nella missione dell’eroe.

Ecco il superamento della prima soglia e l’accesso al mondo straordinario per il nostro protagonista, che chiude così il primo atto di Lo chiamavano Jeeg Robot.

Lo chiamavano Jeeg Robot
Luca Marinelli nel ruolo dello Zingaro

Nel secondo atto si procede verso l’avvicinamento alla caverna, i protagonisti convivono e guardano assieme la serie anime, e lentamente il disilluso Enzo comincia ad accettare il miracolo che è avvenuto sul suo corpo, e che pian piano avverrà anche nella sua testa.

Si stabiliscono alleati e nemici, lungo la strada delle prove. Lo zingaro, Fabio, da subito si conforma come villain della storia. Intento a conquistare la scena criminale romana, con l’appoggio della camorra, è soprattutto attratto dalla forza di Jeeg e mosso dall’ossessione di trovare un modo per ottenere anch’egli i poteri. Ciò tuttavia non lo salverà dalla sua smisurata sete di successo che lo porterà inevitabilmente a soccombere.

Jeeg, Hirò soprannominato da Alessia, diviene allora sempre più consapevole; non a caso la mentore gli chiederà di recarsi alla grotta del drago: l’evocazione di questo luogo ci sottolinea la fase di avvicinamento alla caverna. Jeeg la porterà in un luna park: Alessia sopra la ruota panoramica, evoca la struttura circolare del viaggio dell’eroe.

La struttura circolare delle narrazioni in “Lo chiamavano Jeeg Robot”

Sopraggiunti al centro commerciale, per comprare il desiderato vestito da principessa per Alessia, avverrà l’incontro sessuale tra i due, in termini vogleriani si tratta dell’incontro con la dea. Enzo non è ancora completamente capace di provare amore, ed Alessia, abituata a un mondo violento, sarà delusa dal suo Jeeg, in preda all’istinto sessuale che lo prevarica.

Sarà proprio dalla discrepanza tra i due che scaturirà l’arrivo della prova centrale, lui è infatti pronto a mostrarsi al pubblico senza maschera come un eroe, aprendo un punto di non ritorno. Alzerà il tram e non la lascerà andar via, ora è pronto ad agire per qualcuno diverso da sé stesso
A questo punto il nostro eroe merita la ricompensa, riceve la spada alata, l’amuleto, che metaforicamente possiede Sergio tatuato sul petto: Enzo lo capirà quando farà visita al corpo del defunto insieme ad Alessia

È ora che Jeeg diventi eroe per l’intera umanità, e ciò trova compimento nel terzo atto del viaggio.

Dolorosamente muore la mentore, proprio mentre trionfava l’amore fra di loro, e salvando una bambina dalle fiamme di un incidente, Enzo comprende allora la sua missione.
Il salvataggio funziona come elisir, come rivelazione, e non è l’unico della narrazione: un altro oggetto magico è infatti la custodia rossa degli occhiali che Sergio lascia a Enzo prima di morire, contenente una mappa particolarmente utile ai fini narrativi.

L’eroe ora sa che deve sconfiggere il nemico, il signore del fuoco: anche lo zingaro sulla soglia speculare del Tevere ha assimilato i poteri.
Jeeg corre verso lo stadio per compiere il suo lavoro, salvare lo stadio Olimpico da un ordigno esplosivo congegnato dallo zingaro, la sua ombra che verrà sconfitta.

Lo chiamavano Jeeg Robot
Le due ombre del Tevere

Il viaggio è completo. Jeeg indossa la maschera che la mentore gli cuce durante l’intero film, e che appare fin da subito quell’oggetto elisir, anche se non ne conosceremo il vero significato fino a quando non si rivelerà nella scena finale. Il correlativo oggettivo che reca in sé l’oggetto-maschera sta a simboleggiare la consapevolezza raggiunta da Enzo, soprattutto la lungimiranza che ha mostrato sin da subito la sua mentore.

Abbiamo dunque compreso che le storie vengono dal passato, si ripetono e si rinnovano con il passare del tempo. «Everything is a copy of a copy», per dirlo alla Nora Ephron, altra grande sceneggiatrice. Questo non significa però che venga a mancare il fattore originalità, ogni storia viene calata in epoche diverse sotto un determinato inconscio collettivo. Sta qui la maestria dei nostri autori, che riescono a scrivere la storia di un eroe, calato in una fatiscente periferia romana, immergendolo tra fantastico e noir.

L’elisir donato dal mentore

Usando lo schema vogleriano, che accade di rado in campo italiano, si riesce così a ritrarre temi estremamente connessi alla nostra capitale dove, immersi in terribili controversie, siamo tutti un po’ eroi in viaggio.

Leggi anche: Luca Marinelli e il Cinema come Alice e il Bianconiglio

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