Perfetti sconosciuti – I vascelli bruciati
«Ya no hay vuelta atras», non si può più tornare indietro. Il crocevia esistenziale nel quale ci si imbatte talvolta nella propria vita, materializzato in un aut-aut privo di certezze e via di fuga, in cui ci si gioca ogni cosa, come in un testa o croce di Anton Chigurh, assume queste fattezze nella storia di Hernan Cortés; quando, sbarcato nello Yucatan il 22 aprile 1518, decise di bruciare le navi con cui era partito.
Non aveva senso tornare indietro per quell’hidalgo barbuto e piacente, diverso dall’uomo severo e corpulento che apparirà nei quadri della sua vecchiaia; o forse non era possibile. Troppe le discordie col governatore di Cuba, Diego Velazquez – solo un omonimo del celebre pittore -, misere le prospettive al di là dell’oceano. Tutto ciò che restava ormai, come molti prima di lui avevano pensato, finendo sterminati o perduti, in quelle terre a loro sconosciute come per noi lo sarebbe una galassia remota, era andare avanti. Perdersi nell’ignoto. Non guardarsi più indietro.
Ma non era di questo che si doveva parlare, si potrebbe giustamente obiettare. Si dovrebbe parlare di Perfetti sconosciuti, film di Paolo Genovese a ben ragione molto lodato e premiato.
Un film in cui entra in gioco una realtà molto più infinitesima, e forse proprio per questo a primo impatto più familiare. Eppure, come in un indissolubile rapporto tra macrocosmo e microcosmo, tra le due storie non mancano le analogie; in particolare quella che affiora più di tutte è il problema dell’altro, del rapporto tra noi e gli altri. Non è un caso che Cvetan Todorov scrisse un libro a tal proposito, «La conquista dell’America. Il problema dell’altro», ponendo forse la questione su un tenore più filosofico e antropologico che propriamente storico, ma non senza suscitare nel lettore riflessioni interessanti.
Nel secondo capitolo dal titolo Conquistare, quello che in questa sede interessa, racconta e analizza proprio gli eventi da cui si era partiti in premessa.
Cortés e il suo ya no hay vuelta atras, la sua decisione di andare senza possibilità di fuga incontro al suo destino. Sbarcato nella baia di Campeche, fonda quella che ancora oggi è conosciuta come Veracruz, entrando in contatto coi Totonachi, ancora oggi presenti nella zona. L’impero azteco non era infatti una realtà politica paragonabile a Roma, che governava e assimilava popoli più o meno pacificati; e il suo imperatore Moctezuma non era certo il prototipo del buon selvaggio tanto amato da Rousseau.
Il dominio azteco si fondava su una confederazione frammentaria nella quale le etnie rimanevano piuttosto isolate e disorganiche, legate solo da feroci vincoli di potenza. Dopo aver stretto vincoli coi Totonachi, pur trovando il modo di entrare in contatto con Moctezuma inviandogli ambascerie diplomatiche, Cortés riesce a disporre le sue fische su più fronti; non vi è una ricerca di vie di fuga, ma il desiderio di crearsi alternative, frutto dell’agire di un uomo innegabilmente determinato.
Qualcosa che gli sarà molto utile, e che ai nostri occhi ha ancora più importanza, tornando al problema “dell’altro”.
Perché questo, come espone anche Todorov, rappresenta il confronto emblematico tra un uomo che sa bene cosa vuole – pur non sapendo altrettanto bene come lo otterrà e soprattutto se lo otterrà -, e un uomo come Moctezuma piuttosto singolare, enigmatico, perennemente indeciso; forse perché a differenza dell’hidalgo è abituato a vivere in un modo più stabile e cristallizzato. Un uomo che si mostrerà sempre incerto e impreparato circa la natura e le intenzioni di coloro che lo circondano; un dettaglio che in qualsiasi confronto rappresenta sempre uno svantaggio non da poco.
Arrivando alla capitale dell’impero Tenochtitlan, Cortés e Moctezuma vivranno infatti per diversi mesi un curioso idillio. Moctezuma inviterà Cortés a vivere con lui nel palazzo, ricambiato da Cortés con doni e omaggi. In una condizione né di prigioniero l’uno né di oppressore l’altro. Una situazione sospesa, che si protrae fino alle fatidiche ore della noche triste, resa possibile principalmente per due fattori intimamente collegati.
Il primo è il noto mito del dio serpente Queatzalcoalt; lo «spirito del vento» ritiratosi a oriente, ma il cui ritorno a occidente i sacerdoti aztechi avevano profetizzato accompagnato da uomini bianchi e barbuti. È altrettanto noto il fatto che Moctezuma e i suoi sacerdoti avessero non troppo ingenuamente individuato in Cortés il ritorno del dio serpente, e che Cortés avesse fatto di tutto per assecondare questa credenza, avendo egli fin da subito cercato di capire la cultura di chi gli stava di fronte – capire, come è ovvio, per poter controllare.
Si è usato il termine ritorno e non reincarnazione perché il secondo fattore determinante è il rapporto che le due civiltà, e i due interlocutori, avevano con il tempo.
La ragione più importante per cui Moctezuma è propenso a identificare Queatzalcolat in Cortés che per gli aztechi il tempo possiede uno sviluppo ciclico.
Mentre l’occidente, di Cortés come il nostro, vive un tempo lineare, in cui ogni giorno lascia dei vascelli bruciati dietro di sé, giorni e stagioni che pur influenzando la nostra vita non torneranno più; per gli aztechi i 260 giorni del calendario, suddivisi in 18 mesi da 20 giorni (lasciando esclusi 5 giorni considerati proprio per questo infausti), e che solo ogni 52 anni tornano a comporre il medesimo corso temporale, rappresentano una visione del tempo che si avviluppa intorno a se stesso.
Come un Uroboro che ogni volta torna sempre al punto di partenza, non da un punto di vista metaforico ma strettamente letterale. È così che la venuta di Queatzalcoalt assume connotati ben diversi dai presagi dell’Oracolo di Delfi o dell’Apocalisse di Giovanni; è il ripetersi di un evento prevedibile, come qualsiasi altro evento è prevedibile in un tempo ciclico, in cui ogni giorno, come scorrendo lungo un cerchio, ritorna periodicamente non identico a se stesso, ma propriamente se stesso.
Chi ha questa visione del tempo, si trova molto disarmato.
Nega a se stesso ogni possibilità di interpretare il tempo, come in fondo accade ad alcuni dei personaggi di Perfetti sconosciuti. In particolare, Giallini e Rohrwacher, e non solo loro – senza dare, come si sarà capito, in alcun modo giudizi morali in entrambe le storie, semmai questi possano davvero essere formulati –, si trovano proprio come Moctezuma intrappolati nella ricerca dei segni di un apparente presente, eterno e sempre uguale, come se da questi si potesse ricavare l’incasellamento dei tasselli non della propria agenda di domani, ma dell’agenda di sempre. Un’agenda nella quale alcune cose erano state registrate a dispetto di altre; non perché non esistessero o fossero state tralasciate, ma perché non si era riusciti a darle una collocazione come tessere di quello stesso mosaico immutabile. Di quello stesso, eterno presente.
Quando una concezione del tempo simile si scontra con quella di chi ha bruciato i vascelli dietro di sé, il confronto non può che essere impari.
Da questa discrepanza nascerà poi tutto ciò che segue, in entrambe le storie. Si sviluppa la noche triste, a Tenochtitlan come in quell’appartamento romano, tra le luci di un’eclissi non meno sinistre degli altari sacrificali degli aztechi. Una svolta drammatica nel caso di Cortés più dovuta alla sua assenza nella capitale rispetto alla decisa volontà di Kasia Smutniak, forse l’unica tra i personaggi con la ferma decisione che ya no hay vuelta atras, non si tornava più indietro.
Mentre Cortés era tornato a Veracruz per sedare delle schermaglie tra i nativi e gli spagnoli; i primi probabilmente esasperati dalla costante presenza di questi stranieri, i secondi sempre più desiderosi di menare le mani e di catapultarsi in pieno alla ricerca di oro e ricchezze); a Tenochtitlan si presenta subito una situazione simile. Gli scontri si propagano nella città, e vi è da pensare per i medesimi motivi, e quando Cortes vi fa ritorno trova il fragile – e indubbiamente teso – idillio che lui e Moctezuma erano riusciti a creare completamente stravolto.
Era partito il, forse, inevitabile conflitto tra questi due mondi completamente – si potrebbe azzardare anche “fin troppo” – diversi tra loro.
Moctezuma, come si può immaginare, finisce massacrato e sgozzato. Come massacrati rimangono quasi tutti i personaggi di Perfetti sconosciuti: questi personaggi che quasi non sembrano più vivi, ma sono «coscienze morte, morti viventi, i loro rapporti perennemente viziati, distorti, incrostati dalle abitudini». Quasi ognuno di loro – almeno coloro i quali, come Moctezuma, vivevano quello stesso cristallizzato ed eterno presente – finirà distrutto e massacrato, in proporzione, allo stesso modo.
Quella noche triste però, come sappiamo, è un’illusione. O almeno dobbiamo considerarla insincera, parziale.
L’immagine riporta Città del Messico agli albori del ‘600, meno di cento anni dopo la conquista di Cortés; in particolare quella che oggi è conosciuta come Plaza de la Costitution. Sorge sulle rovine del palazzo di Moctezuma, e rappresenta l’altro punto di vista – anch’esso parziale, insincero – di quell’incontro, degenerato come talvolta accade in scontro, con l’altro; è una delle piazze più belle del mondo, con la sua apollinea urbanistica rinascimentale in cui insistono all’unisono la Cattedrale, il Palazzo Nazionale, l’Antico Palazzo del Ayuntamiento, cui si aggiungono i, pochi, resti delle rovine azteche sullo sfondo, e non lontano l’Ospedale del Jesus, una dei primi edifici fatti costruire da Cortes, il quale verrà utilizzato non solo dagli spagnoli, ma anche dai nativi che, come è infaustamente risaputo, cadranno vittima delle numerose malattie portate dai conquistatori.
Terminare il tutto con Moctezuma sgozzato, con quel gruppo di amici sfaldato, avrebbe avuto una catarsi più impeccabile, ma non avrebbe detto la verità. Dal cuore di tenebra di Conrad, traspare una vena d’oro il cui riverbero conduce su sentieri luminosi e affascinanti; senza che questo cancelli le idiosincrasie o le cicatrici delle violenze accadute.
Fossero presenti solo queste ultime, la nostra indignazione – sotto le sembianze di un moderno politically correct – di fronte ai risvolti tragici in cui talvolta sfocia il confronto con l’altro risulterebbe appagata.
Ma quella piazza esiste. Così come esiste la Santeria, o la meravigliosa Chiesa della compagnia di Gesù a Quito – che, come la Santeria, mescola in un trionfo di rosso e oro gli elementi della tradizione cristiana con le caratteristiche dell’ambiente e delle culture ancestrali del Perù – le quali inizialmente saranno appartenute solo ai conquistatori, ma presto sono divenute anche quelle dei conquistati, indistinguibili gli uni dagli altri.
La loro esistenza è come se testimoniasse quanto il confronto con l’altro, anche quello più feroce, porti spesso al riedificare, al rimettere in piedi città, situazioni. Ci porta magari a rivalutare il rapporto talvolta frivolo e ipocrita tra i personaggi di Perfetti sconosciuti il quale, pur con questa insincerità più o meno celata, porta a quanto di bello e costruttivo può nascere dal confronto; un rapporto che, pur con le sue contraddizioni, non dobbiamo necessariamente immaginare infelice.
Qualora si possa trarre una verità sintetica da queste due vicende e dalle loro analogie, forse è possibile trovarla andando ancor più indietro nel tempo. A Ugo di San Vittore, teologo e filosofo del XII secolo, il quale in una delle sue amplissime opere teologiche, il Didascalicon, a un certo punto si esprime in questi termini.
«L’uomo che trova dolce la sua patria, non è che un tenero principiante. Colui per il quale ogni terra è come la propria, è già un uomo forte. Ma solo e perfetto è colui per il quale tutto il mondo non è che un paese straniero.»
(Ugo di San Vittore, Didascalicon, XII)
Una definizione un po’ diversa del rapporto con l’altro come si è soliti sentire e anche immaginare nella nostra epoca. Come se Ugo di San Vittore indicasse il rapporto col diverso da noi, dunque con gli altri, un procedere in avanti ancora di più cercando di liberarsi dei bagagli eccessivamente pesanti del passato; o al più sfruttandone le ceneri al meglio, come l’uomo che solo e perfetto si sente straniero dovunque egli si trovi.
Un continuo andare avanti, uno scontro inevitabile, più o meno drammatico, un gettarsi nell’ignoto, senza voltarsi indietro, partendo da quei vascelli bruciati alle nostre spalle. Uno scontro che qualche volta può creare cose meravigliose, come Plaza de la Costitution o la Chiesa della Compagnia di Quito, più spesso porta a dissidi e tensioni costanti; talvolta sfocia in conflitti aperti e allegri massacri, in qualche caso crea le ciminiere di Dachau.
E restando a quest’Europa a noi più vicina, anch’essa decisa a bruciarsi tutti i vascelli alle spalle, guidata da personalità con un cipiglio anche peggiore del giovane Cortés, che aveva maturato il sogno di costruire una civiltà che sarebbe durata mille anni, guardando sempre avanti sotto un coro di Excelsior; per poi terminare in un incendio totale, come scaturito dai suoi vascelli in fiamme, esauritosi in un olocausto non meno raccapricciante di quello che, volente o nolente, ha prodotto la conquista di Cortés.
Restando a quest’Europa, si potrebbe fornire maggior luce sul senso di queste storie attraverso un’opera con la quale chi scrive non ha potuto che trarre alcuni sottili parallelismi con Perfetti sconosciuti.
Sartre adesso sembra quasi passato di moda, come fosse divenuto unicamente un pensatore della misantropia nichilista, anche a causa della fraintesa pièce A porte chiuse; quando invece è palese in lui come il rapporto con l’altro, per quanto complicato, sia fondamentale per l’uomo. Sia in Perfetti sconosciuti che in A porte chiuse è messa in scena quasi una rudimentale psicoanalisi come modus vivendi che, lungi dall’impedirla – come si vedrà nel finale – rende possibile una convivenza che non è detto, come si è già accennato, debba essere totalmente infelice.
Solo degli incontri sotto forma di rituali propiziatori che tengono desti gli spettri di una realtà che, come si vede, può anche sembrare puramente immaginata. Neanche una celebrazione sinistra tra le luci di un’eclissi, ma una festa ordalica in cui i demoni hanno libera uscita, facendosi invitare a cena per prendere simbolicamente anche loro un posto a tavola. Ma lasciandoli lì, immobili, non impedendoci di andare avanti, eppure ricordandoci, nel bene e nel male, come monito alla complessità che in quel momento ha luogo, le loro sfaccettature più nascoste.
«È questo dunque l’inferno? Non l’avrei mai creduto. Vi ricordate? Lo zolfo, il rogo, la graticola… fandonie! Nessuna graticola: l’inferno, sono gli Altri.»
(Jean-Paul Sartre, A porte chiuse, scena V)
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