Sorrentino e Camus – È stata la mano di Sisifo

Antonio Lamorte

Febbraio 15, 2022

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Se Paolo Sorrentino potesse avere la possibilità di discutere con un grande pensatore del passato, probabilmente sceglierebbe Albert Camus. O forse no, perché i due andrebbero probabilmente d’accordo, e Sorrentino, come gli insegnò il suo mentore Antonio Capuano, ama molto di più il conflitto.

C’è un terreno comune sul quale Sorrentino e Camus si trovano a vagare. L’imponderabile assurdità dell’esistenza. Albert Camus definirebbe l’assurdo come il peccato senza un Dio a cui rispondere. Sorrentino, riprendendo le parole del suo personaggio Tony Pisapia (L’uomo in più), direbbe più concisamente che «’A vita è ‘na strunzata», magari mentre osserva l’alba sorgere e baciare il mare di Napoli.

Ancora più perentorio è invece il parere di Tony Pagoda, reinterpretazione estesa del protagonista appena citato de L’uomo in più, presente nel romanzo Hanno tutti ragione, che sulla vita si esprime così:

«Ma chi l’ha inventata la vita? Un sadico. Fatto di coca tagliata malissimo».

(Paolo Sorrentino, Hanno tutti ragione)

Camus forse riderebbe bonariamente di una definizione così precisa, e soprattutto così vera. D’altronde, è stato proprio lui a salire in cattedra per la prima volta a spiegare l’assurda prospettiva attraverso cui filtrare il mondo. Meursault, il protagonista de Lo straniero, impara questa lezione nel corso della sua tormentata vicenda, e lo fa con la stessa ammirevole dedizione di uno studente attento a non lasciarsi sfuggire niente di ciò che l’insegnate afferma. E come lui, anche Sisifo, la cui profonda comprensione del concetto dell’assurdo si esprime attraverso un sorriso sornione di incontrastabile felicità.

Albert Camus

I personaggi di Paolo Sorrentino, invece, hanno già tutto chiaro. Sono disillusi dalla vita prima ancora che lei si presenti vestita del suo manto di assurdità. Ma forse non sono sempre stati così. Anche loro avranno creduto alle follie declamate da coloro che si erano arrogati il diritto di vendere il conforto di un’esistenza prestabilita. Poi qualcosa è cambiato, e Sorrentino e Camus si sono incontrati.

La morte dei genitori per Fabietto Schisa (È stata la mano di Dio), per esempio. O la fine di un amore, come per il Tony descritto nel romanzo, così perso nella divagazione tra una massima filosofica a effetto e il ricordo della sua Beatrice. O ancora più semplicemente la graduale perdita d’interesse nei confronti del mondo circostante, come per Jep Gambardella (La grande bellezza) e l’insonne Titta Di Girolamo (Le conseguenze dell’amore).
In altre parole, costoro sono il Sisifo durante, e soprattutto dopo, l’acquisizione della consapevolezza dell’assurdo.

Camus, che è in qualche modo ottimista nel tratteggiare le conseguenze di tale conoscenza sulle nostre vite, non esita a proiettare un solco lungo il viso del suo personaggio, come una specie di sorriso, lungo i teli insondabili dell’eternità. Ma è davvero così?

Sorrentino e Camus – Il problema filosofico del suicidio

«Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non vaga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto, […], viene dopo. Questi sono giouchi: prima bisogna rispondere».

(Albert Camus, Il mito di Sisifo)

Un film di Paolo Sorrentino, più di tutti gli altri, si concentra su questa indagine proposta dal filosofo premio Nobel: L’uomo in più (e il suo corollario letterario Hanno tutti ragione).

Paolo Sorrentino
Sorrentino e Camus – Tony Pisapia durante uno dei suoi concerti

Due personaggi contrapposti. Tony e Antonio Pisapia. Il primo, un cantante attempato con gli occhi che brillano di malinconia gravitante intorno a tempi passati che mai più ritorneranno. Il secondo, un promettente giocatore di calcio che ha dovuto abbandonare l’agonismo per colpa di un brutto infortunio.

Tony, più anziano e vissuto, sa come ci si comporta in questi casi. Bisogna alzarsi in piedi e morderla la vita. Perché non c’è alcuna alternativa. Il senso delle cose lo si lascia a quelli che sono vecchi dentro, a coloro che, dopo una vita intera, sono troppo spaventati dal pensiero che tutto il loro esistere si sia poggiato su un traballante ideale errato. Tony non è così. Ha imparato la lezione, come Meursault, e da bravo studente cerca di farla capire anche ai suoi compagni di classe.

«Le esistenze, sono solo tentativi. Per lo più fatti a cazzo».

(P. Sorrentino, Hanno tutti ragione)

La stessa cosa non si può dire per Antonio. Lui è la controparte di Tony, e non accetta che la vita giri in un modo piuttosto che in un altro. Lui vuole fare l’allenatore. Vuole giocare seguendo delle regole che gli hanno professato come insindacabili, ma che, alla fine dei conti, lui è forse l’unico che rispetta. Nel film confessa spesso la sua condizione con “Il Molosso”, il suo ex allenatore e mentore, che cerca di farlo desistere inutilmente dalle sue posizioni ingenue.

Il Molosso: «Antò, nella stronza vita può succedere di tutto».


Antonio Pisapia: «Sarà… ma a me non succede mai niente».

Antonio si suicida. Anche lui ha imparato la lezione. Ma il peso era troppo grande per far sì che il macigno venisse trasportato in cima alla montagna. Non come Tony. Lui sorride. Si sforza di farlo, ma almeno ci prova. E racconta tutto questo nel suo monologo a telecamere accese, dove come un profeta dell’assurdo sciorina il suo bagaglio devastato di consapevolezze, davanti alle quali non si può far altro che ridere.

Tony: «Poi mi ricordo un amico, si chiamava Antonio Pisapia. Era un grande calciatore. Voleva fare l’allenatore e non gliel’hanno fatto fare. E si è suicidato. Ma io non mi suiciderò mai, perché un’altra cosa mi ricordo io: io ho sempre amato la libertà. E voi non sapete manco che cazzo significa. Io ho sempre amato la libertà. Io sono un uomo libero».

Siamo condannati a essere liberi, ci ricorda Sartre. Lo siamo tutti, ma non tutti possono reggere al peso di tale consapevolezza. La vita è solo un trucco e noi ne facciamo tutti parte, nostro malgrado. Un trucco che sovrasta il chiacchiericcio e il rumore di chi si prodiga per sfuggire a questa verità in fin dei conti nota a tutti.

La ricerca di un’assurda grande bellezza in Sorrentino e Camus

«La verità, come la luce, acceca. La menzogna, invece, è un bel crepuscolo, che mette in valore tutti gli oggetti».

(A. Camus, La caduta)

La verità dell’assurdo è un po’ come l’amore, ha conseguenze inaspettate da non sottovalutare. Titta Di Girolamo è rimasto accecato da entrambi. Per la prima volta in vita sua è stato abbagliato da una luce che risveglia dal torpore, un’esperienza nuova per lui che è sempre stato un animale notturno. Anche lui muore per colpa di questo misterioso fenomeno di presa di coscienza. Ma a differenza di Antonio Pisapia, Titta non muore schiacciato dal masso. Muore nella serena accettazione di una condizione immutabile.

E per di più, forse lui stesso era arrivato ad anelare la morte, una volta compresa l’assenza di ogni significato della vita, perché ha sempre sofferto di insonnia, e chi soffre di insonnia ha un’unica ossessione: addormentarsi.

Tuttavia, Titta Di Girolamo non è che un esempio. Non è detto che la verità, dopo quel momento di accecante rivelazione, non possa assumere connotati piacevoli. Perché se è vero che la menzogna è un crepuscolo, magari la verità è un’alba. Un’alba dai colori rilassati, osservata dalla terrazza della propria casa mentre si sorseggia una bevanda calda, e si ammira silenziosamente la presenza di uno stormo di fenicotteri che migrano a Ovest.

Il dramma delle nostre vite è che siamo sempre alla ricerca di una grande bellezza che non troviamo mai. Ci hanno detto che ne esiste una, ma non hanno mai specificato quale forma avesse. Jep Gambardella, uno scrittore che non ha più voglia di scrivere, è prigioniero di questa dimensione e si abbandona a riflessioni sulla natura dell’esistenza che puntualmente contraddice.

Dà un significato nullo all’atto di vivere, eppure si rende conto che non può più permettersi il lusso di fare cose che non gli va di fare. Illustra con fare professorale il giusto galateo da seguire durante un funerale, ma lui è l’unico a non seguirlo. In fondo, non è forse patetico questo mediocre inseguimento di definizioni e teoremi stabiliti da chissà chi?

«Ma è sempre così con l’interpretazione dell’essere umano: si è sicuri del prossimo, mica di se stessi. Perché col prossimo puoi permetterti il lusso di schematizzare, di sceneggiare, di romanzare. E di proiettare fantasie perfette che non ti sono mai appartenute».

(P. Sorrentino, Hanno tutti ragione)

La scoperta dell’assurdo non arriva di colpo, come una folgorazione che ferma le lancette dei secondi. È un processo graduale, fatto di piccoli momenti veri che si accatastano nell’anticamera della psiche e che, come una vecchia conoscenza, si ripresentano dopo tanto tempo.

Jep ricorda tutti i momenti veri che ha vissuto, che sono più di quanti lui ne voglia ammettere. Il più importante tra tutti: Elisa. Il suo sorriso proveniente da un “luogo altro”, le labbra sfiorate e le parole che lei ha pronunciato in seguito. Parole che nessuno, a parte Jep, avrà mai il privilegio di sentire.

«Non essere amati è una semplice sfortuna: la vera disgrazia è non amare».

(A. Camus, L’estate)

Questa vita, dall’alto delle sue inesauribili imperfezioni, vale in fondo la pena di essere vissuta. Soprattutto per momenti come questi. Jep lo capisce, e sorride. Come Sisifo. Perché, sempre per citare Camus, «se c’è un peccato contro la vita, non è tanto disperarne, quanto sperare in un’altra vita, e sottrarsi all’implacabile grandezza di questa».

Eccola, forse, la vera grande bellezza. E per questo motivo, dopo che il film termina e lo schermo si fa nero, bisogna immaginare Jep felice.

Sorrentino
Sorrentino e Camus – Jep Gambardella, finalmente felice

Jep: «Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c’è stata la vita, […]. Il silenzio e il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. […]. Dunque, che questo romanzo abbia inizio».

Sorrentino e Camus: Sisifo non si è mai disunito

«Poi io, all’improvviso, senza motivo, domando quando accadrà che loro [i miei genitori] moriranno.
E loro, senza scomporsi, con grande sicurezza, mi dicono che non moriranno mai.
Io ci credo.
E sorrido mentre guardo di sotto un mare ancora pulito.
Invece mi stavano mentendo».

(P. Sorrentino, Hanno tutti ragione)

Lo smarrimento esistenziale, nella teoria, può assumere dei connotati affascinanti, persino romantici. Ma che succede quando tutte le divagazioni sull’impotenza dell’essere umano si incarnano in una forma concreta? Nel dolore, per esempio.

Ci sono tanti tipi di dolore, ma senza girare troppo attorno, il più logorante è sicuramente quello che ruota attorno alla perdita di persone care. Un oggetto rotto si può ricomprare, così come è possibile rievocare una sensazione, un contesto di cui si sentiva la mancanza. Ma la morte, invece, non funziona così. Non è reversibile la morte.

Fabietto Schisa, perso nelle prospettive d’infinito proprie dell’età dell’innocenza, si trova improvvisamente immerso in un mare di tristezza e sconforto, un mare che non ha niente a che vedere con quello di Napoli, popolato dai motoscafi che fanno “tuf tuf”. Ed ecco che comincia l’errare meditabondo di un’anima in pena. Il suo viaggio esistenziale è molto diverso rispetto a quello di Jep. Lo scrittore aveva i rimpianti di una vita passata a tormentarlo, Fabietto invece non vede più nulla davanti a sé. Preferisce il cinema a questa realtà scadente.

Fabietto: «La vita, ora che la mia famiglia si è disintegrata, non mi piace più. Non mi piace più. Ne voglio un’altra, immaginaria, uguale a quella che tenevo prima. La realtà non mi piace più. La realtà è scadente. Ecco perché voglio fare il cinema».

Una fuga, insomma. Che è inutile, come tutte le fughe. Alla fine si ritorna sempre e soltanto a se stessi, ricorda a Fabietto un impetuoso Capuano nel pieno della sua diluviale saggezza campana. Fabietto lo sa bene, ma vuole provarci lo stesso. Ha bisogno di superare il lutto, la terribile sensazione di essere rimasto solo, il fatto di non aver pianto al funerale dei suoi genitori. Neanche Meursault pianse quando morì la madre, dopotutto.

E quindi l’arte. La via di fuga, lo scudo protettivo forgiato dall’illusione. Fabietto non è l’unico a essersi rifugiato nell’arte, a pensarci bene. Tony è un cantante, Jep uno scrittore. È solo un caso? E, inoltre, siamo sicuri che inseguire l’arte equivalga necessariamente a una fuga?

«L’arte contesta il reale, ma ad esso non si sottrae».

(A. Camus, L’uomo in rivolta)

Ne L’uomo in rivolta, Camus si lancia in un’appassionante difesa del ruolo dell’arte. Ci sono più tipi di rivolte nei confronti dell’assurdo che domina le nostre vite. Tutte queste rivolte sono, alla fine dei giochi, inutili e senza alcuna possibilità di successo.

Ma l’arte, a differenza delle altre rivolte, è quella preferita da Camus, che nei suoi Taccuini si riferiva a se stesso come “artista” e non come “filosofo”. È intrisa di passione e di romanticismo, l’arte. Quel romanticismo così struggente che è proprio solo degli sconfitti che sorridono. Sisifo, il più grande di tutti gli sconfitti, non si è mai disunito, in fondo. Perché sul ‘e strunz si disuniscono.

Sorrentino
Sorrentino e Camus – Fabietto Schisa, con il suo mentore Antonio Capuano che nuota nel mare di Napoli

Sorrentino e Camus ci mostrano allora che l’arte è lo strumento principale della rivolta. Si perderà in ogni caso, ma almeno non ci disuniremo mai. Il trucco è trovare delle cose per cui vale la pena vivere. Quelle cose senza le quali si è immobili, appassiti, tristi, come la Concordia distesa sulla fiancata davanti all’isola del Giglio.

Eccole le cose per cui vale la pena vivere: i trenini delle feste, i più belli di tutta Roma, perché non vanno da nessuna parte. Le radici, che sono importanti. Pino Daniele, che ci accompagna fino all’ultima fermata di un viaggio in treno, uno di Napoli questa volta, dalla meta incerta. L’atto della seduzione, che in fondo non è nient’altro che come scrivere una bella canzone. Il riso riscaldato, che è sempre più buono di quello che hai appena cucinato.

Il cinema. Fellini, e il fatto che i film non servono a niente se non a distrarsi. Il potere di far fallire le feste. I motoscafi offshore che fanno “tuf tuf”. Un ometto di un metro e sessantacinque chiamato Maradona, che magari gioca in una squadra che applica uno schema a quattro punte, perché, si sa, nella vita non esiste il pareggio. L’odore delle case dei vecchi. La sfumatura.

Queste sono le cose per cui vale la pena vivere. Almeno secondo alcuni personaggi nati dalla penna di Paolo Sorrentino. O forse secondo il regista stesso. E chissà quali erano quei famosi incostanti sprazzi di bellezza per Albert Camus. Possiamo solo speculare su questo, anche se non è garantito che indoviniamo. Ma, alla fine, non è importante saperlo con certezza.

Che cos’è una certezza, dopotutto? Anche se si ha torto su qualche cosa, che male c’è? In fondo, quando prende piede l’assurdo nelle nostre coscienze travagliate, si erge incontrastato, sopra gli altri, un unico insegnamento. Che, in un modo o nell’altro, nella vita hanno tutti ragione.  

«Ho fatto quello che ho potuto, non credo di essere andato così male».

(Diego Armando Maradona, Io sono El Diego)

Leggi anche: Sorrentino e Bauman – Le conseguenze dell’amore (liquido)

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