La persona peggiore del mondo e il coming of age
«Io credo che uno di questi giorni ti toccherà scoprire dove vuoi andare. Allora ti devi mettere subito in marcia. Ma immediatamente. Non puoi permetterti di perdere un minuto».
(J.D. Salinger, Il giovane Holden)
Era il 1951 quando il giovane Holden attraversava quello che sarebbe poi diventato uno dei romanzi coming of age più iconici della storia. La penna di Salinger, in qualche modo, è diventata atemporale, slegata anche da ogni costrizione di spazio. Pertanto la voce di Holden Caulfield nel suo divenire si è fatta universale. Con la sua sfrontatezza e naturalezza parla a tutti, soprattutto a chi la sua strada deve ancora trovarla.
È il caso di Julie, che ne La persona peggiore del mondo sembra suggerirci a ogni frame la problematicità delle scelte e il discreto fascino della crescita. Tuttavia, tra le diverse sfumature della sua ricerca, dichiara che il percorso del coming of age è realizzabile anche a trent’anni.
Julie e il coming of age in dodici capitoli
Si torna a parlare del film che ha conquistato l’ultima edizione di Cannes, ora in lizza per l’Oscar al Miglior film internazionale. Il regista Joachim Trier, con sguardo intimista e introspettivo, racconta in prima persona un determinante periodo nella vita di una giovane ragazza norvegese.
Ciò avviene attraverso un impianto prettamente letterario, la suddivisione in capitoli, a cui si aggiunge anche un narratore onnisciente ed extradiegetico, che colora la narrazione di dettagli e desnuda il personaggio.
Il ritmo così scandito riflette in qualche modo le diverse fasi che Julie attraversa, aiutando lo spettatore ad accompagnarla e a seguirla nel corso del tempo. Si va così ad attuare una condivisione, lo stato ultimo dell’immedesimazione. Trier ci prende per mano e ci proietta dentro i tortuosi pensieri di Julie.
Alla soglia dei trent’anni, Julie ancora non sa chi è. Il circostante la affascina e la spaventa insieme, divorata dalle sue stesse aspettative, prova a cercarsi, ma inciampa reiteratamente. Medicina, psicologia, fotografia… E poi, all’improvviso, un affabile fumettista quarantenne dallo sguardo tenero, Aksel.
Julie allora si adagia, senza troppa consapevolezza, alla comoda (ma insidiosa) convivenza di coppia. Un lavoro, un nuovo appartamento, nuove conoscenze. Questa nuova vita si appropria di lei e la travolge, lasciandola navigare nelle sue incertezze, nonostante si ripeta che non c’è niente che non va. C’è sempre qualcosa che manca, qualcosa che ancora le sfugge.
Julie vuole trovare una sua identità, ma non ci prova abbastanza; puntualmente perde la sua frequenza e quella di ciò che le ruota attorno. Aksel, al contrario, è determinato a imprimere sul mondo la propria impronta priva di sfumature, appagato dal suo vivere.
L’inquietudine che governa il microcosmo di Julie ha sempre la meglio. Trier lo urla a gran voce. Nelle sequenze in compagnia della famiglia di Aksel, la protagonista risente del peso della sua inconsistenza; è silenziosa, taciturna. La macchina da presa, infatti, rimane fissa sul suo sguardo preoccupato, suggerendone la sopraffazione. Julie è slegata dal divenire, che le si presenta scivoloso, inarrivabile.
Aksel: «Se mi ami, faremo in modo che tutto vada bene».
Julie: «Sì ti amo, e non ti amo».
Narratore: «Julie sentiva che questa frase, il modo in cui lo diceva, la sua insistenza su certe parole, riassumeva l’impossibilità di tutto questo».
Julie: «Mi sento uno spettatore della mia stessa vita, come se stessi recitando un ruolo secondario nella mia stessa vita».
Vorrei star ferma mentre il mondo va
È Eivind, un barista nonché suo coetaneo incontrato a una festa, a risvegliare qualcosa nella sua piatta malinconia. Qui, è come se Julie forasse la bolla dentro la quale si è rifugiata e partecipasse davvero in prima persona alla sua vita. La scoperta di nuovi sentimenti scatena in lei dei moti contrari a quelli verso cui si dirigeva finora, il circostante si disvela e si arricchisce di nuove gradazioni.
Tutto si ferma, e Julie finalmente si riconnette con il Sé perduto in una delle sequenze più emblematiche de La persona peggiore del mondo. La sua corsa verso quello che si configura come l’oggetto dei suoi desideri riecheggia quella del piccolo Antoine Doinel verso il mare ne I 400 colpi.
Proprio come per Jean-Pierre Léaud, la corsa qui assume le sembianze di un atto di ribellione e insieme un gesto di autodeterminazione. Nell’astrazione temporale e spaziale, in cui tutto assurge a utopia, soltanto Julie e Eivind continuano a vivere e si miscelano in un istante che non ha nulla a che vedere con la contingenza. Entrambi lo desiderano e fanno in modo che accada, in un momento eterno e fluttuante.
È quindi come se Julie riuscisse a esperirsi soltanto quando si astrae dal mondo, solo nell’immobilità dell’attimo. In questo senso, appare simbolica anche la sequenza del suo trip successivo all’assunzione di funghetti allucinogeni. È qui che finalmente prende forma il confronto con le sue paure più recondite: l’invecchiamento, il rapporto con il padre, con Aksel e l’incombenza sociale di dare alla luce un figlio.
In fondo, La persona peggiore del mondo è afflitta da tutto ciò.
Il terrore di affrontare ciò che ci si prospetta davanti, l’angoscia di non adempiere a un preciso ruolo sociale o la preoccupazione di non raggiungerlo. L’agghiacciante sentimento di mancare di lungimiranza, la trepidante attesa con cui si aspetta il divenire. La fobia di non trovarsi mai nonostante la costanza con cui ci si continua a cercare. Una sensazione di persistente smarrimento innanzi il dovere morale di compiere delle scelte e l’insicurezza con la quale ci si spinge a farle.
Allo stesso modo con cui Franciszek – protagonista di Illumination – si lascia cullare, seppur esitante, dalle sue irrisolute decisioni, Julie naviga titubante nelle infinite possibilità, aggrappandosi sempre all’ancora sbagliata.
E quando, finalmente si conosce, dopo aver conquistato la sua indipendenza, dopo averla tenuta per mano fin lì, lo spettatore ha la sensazione che la sua svolta sia troppo risoluta, improvvisa.
Ma, tutto sommato, non è questo un coming of age in età adulta?
Un affascinante ma problematico viaggio con un finale dolceamaro?