Mancano pochi giorni all’attesa cerimonia degli Academy Awards, ma la risonanza di Drive My Car già si è fatta sentire. Quello di Rysuke Hamaguchi è uno sguardo che trasuda umanità. Siamo rimasti intrappolati in questo film affascinante che a tratti è un road movie, e a tratti trascende ogni tipo di definizione per la sua bellezza senza tempo.
Dalla durata imponente, Drive My Car racconta la vita di Yusuke Kafuku prima e dopo la morte della moglie Oto, con una dolce risolutezza che ci culla armoniosamente.

Dopo averci caricato emotivamente, il regista arriva al terzo atto di Drive My Car. È un momento cruciale che dolcemente bussa alla porta dello spettatore ed entra piano.
Yusuke ha appena ricevuto la notizia che lo spettacolo è a rischio di cancellazione a seguito di un incidente con l’attore protagonista. I produttori gli offrono la parte, lui inizialmente rifiuta perentorio, irremovibile, poi ci pensa e chiede a Misaki, la sua autista, di portarlo nel posto di cui le ha parlato poche sequenze prima: il luogo della sua infanzia.
Ecco allora che si prefigura il viaggio ultimo della depurazione, del ritorno al genuino, stendardo di un momento d’integrità. L’infanzia e il suo lascito che non ci abbandona mai.
L’ormai iconica Saab rossa diventa teatro di confessioni sullo sfondo di lunghe inquadrature dei panorami giapponesi; lo sguardo della macchina da presa si configura con quello dei protagonisti e insieme con quello dello spettatore, che non può fare altro che abbandonarsi all’infinita pace trasmessa dalla sequenza e dal rumore dell’auto.

L’intimità che condividono Yusuke e Misaki assurge a istante emblematico per la narrazione: i due si spogliano della silenziosa timidezza che avevano condiviso fino ad allora e si aprono alle possibilità dell’attimo. Il viaggio stesso diventa in qualche modo istanza rivelatrice e slancio per una redenzione.
E non è un caso che Hamaguchi scelga deliberatamente di mostrarlo nella sua interezza, lentamente. Questo lascia allo spettatore il tempo di calarsi nel racconto insieme visivo e orale, e di assaporare con Yusuke e Misaki l’enorme lunghezza che scivola tra le mani senza lasciare il proprio peso. Anzi, essa sprigiona invece leggerezza. Leggerezza nelle parole e nella composizione dell’inquadratura, evanescenza e tranquillità nello sguardo dei personaggi.
Yusuke: «Porterò la ruota da qualche parte, dovremmo fare a turno per arrivarci in un giorno».
Misaki: «Niente turni».
Yusuke: «Perché no?».
Misaki: «Perché guidare è il mio lavoro. Posso continuare a guidare senza dormire per un giorno».
La memoria e il ricordo doloroso partecipano alla creazione di un momento di condivisione profonda, che aiuta nel tentativo di completarsi. Da un lato, lui si responsabilizza per non essere tornato in tempo per chiamare un’ambulanza alla moglie, ormai deceduta al suo ritorno; dall’altro, la colpevolezza di lei nel non aver tirato fuori la madre dalle macerie della casa in distruzione. Un’autoflagellazione allora, la loro. Biasimo di non aver fatto abbastanza per l’Altro, avendo poi conseguentemente perso un pezzo di Sé.
Yusuke: «Se fossi stato tuo padre, ti avrei stretta attorno alle spalle e avrei detto “non è colpa tua, non hai fatto niente di male”. Ma non posso dirlo. Hai ucciso tua madre e io ho ucciso mia moglie».

Il racconto di Drive My Car assume il significato contrario di quello che si può pensare; Yusuke e Misaki non cercano consolazione, o una via di redenzione di per sé, sono consapevoli di quanto successo e non vogliono cambiare idea. Ciò a cui il momento aspira è una semplice, e allo stesso tempo complessa, condivisione di una colpa innocente.
Una volta giunti a destinazione, nella terra natia di Misaki, il sonoro si spegne, ma le immagini continuano a risuonare negli occhi e nella testa di chi assiste all’inaudita potenza visiva, così straordinaria e così ineffabile. Tutto si annulla verso l’apice delle emozioni che sembrano comunque continuare a contenersi nello sguardo dei protagonisti. Nella candida neve spicca il rosso acceso della Saab, diventata ormai anch’essa un personaggio della narrazione.
Innanzi a quella che un tempo era la dimora di Misaki, lei getta dei fiori sul terreno ricoperto di bianco. Dalle sue parole si figurativizza il personaggio della madre che, nonostante resti sospeso nel suo racconto, riesce a concretizzarsi. Noi non sappiamo troppo sulla loro vita, ma ci sembra di conoscerle entrambe da sempre. Tra le macerie della casa rinascono entrambe, nella dimensione fluttuante del ricordo, sotto lo sguardo presente di Yusuke e la serietà di Misaki.

Misaki: «L’unica cosa bella di mia madre fu condensata in Sachi, la sua seconda personalità. Sachi era la mia unica amica. Non so se mia madre fosse davvero malata mentalmente, oppure recitasse per farmi restare vicino a lei. Ma anche se stesse recitando, proveniva dal profondo del suo cuore. Diventare Sachi per mia madre era un modo per sopravvivere a una realtà infernale, credo».
Il fertile territorio del ritorno a qualcosa di appartenuto in un tempo passato, l’infanzia, si eleva a momento determinante e rivelatore. L’uno in ascolto dell’altro. Yusuke tiene per mano i ricordi di Misaki così come Misaki culla la realtà di Yusuke che lui fatica a vedere limpidamente, trasformandola in un’essenza misteriosa.
La ricerca di closure – l’estremo saluto – si compie e si conclude con un lungo abbraccio in cui sembra che le due anime quasi si possano toccare. L’esplorazione del Sé termina con il ritrovamento dell’Io attraverso la condivisione di un terreno in comune con l’Altro, quello del lutto. E insieme si mescolano per la creazione di un Tutto, il cui fine ultimo è la sopravvivenza.
