Il grande escluso di questa (ormai passata) edizione degli Academy Awards è proprio Flee. Con le sue premesse, Flee sanciva un patto di speranza con gli spettatori, un prodotto qualitativamente degno di conquistare la tripletta alla quale si era candidato (Miglior Film d’Animazione, Miglior Documentario e Miglior Film Internazionale). Invece è rimasto a bocca asciutta. Tuttavia ciò non mina i meriti dell’opera silenziosamente consegnata dal regista danese Jonas Poher Rasmussen, respirando il caos calmo di questa storia di formazione.
Intimo, latente e vivo, Flee racconta due storie; una presente e una di un passato recondito.
Amin Nawabi è un bambino dagli occhi dolci. Ama fare tutte le cose che piacciono normalmente ai bambini, gioca all’aperto, litiga con il fratello. Ecco, quello che cerca il piccolo Amin è una sana normalità che gli permetta una meritata serenità. Anche da adulto Amin cerca quella serenità, raccontando la propria storia con una naturalezza disarmante. Si stende su un tappeto colorato, chiude gli occhi e respira dolorosamente il suo passato.

Un tempo fatto di fughe, angoscia e pesantezza d’animo. È questo che vive Amin con la sua famiglia, la madre, le due sorelle e i due fratelli. Insieme, la famiglia Nawabi deve nascondersi dalla leva obbligatoria e scappare senza essere notata. Inizia così una corsa senza tempo in ogni dove, ovunque, lontano dalla miseria in Afghanistan. La famiglia però si spezza, così come i loro destini, alcuni in Svezia e altri in Russia. Un flagello per Amin che stringe tra le sue tenere braccia il corpo della madre intimorito dalle onde del mare mentre si vede crescere, in mezzo all’impossibilità di una fuga.
Indicativo allora il titolo che a grandi lettere intona la melodia dell’intero film; Flee come scappare, dileguarsi, fuggire.
È in questo tempestoso clima di incertezza e di indigente inopia che Amin si scopre, inizia a sentire e a percepire ciò che lo attornia. Osserva i suoi occhi posarsi per la prima volta sul sesso maschile, senza comprendere ancora quel turbamento d’animo che è l’eccitazione. Parallelamente, l’Amin adulto raccontando se stesso si apre a quella parte di sé rimasta ancora remota, occulta, quello che è stato, il passato.
I suoi ricordi comunicano con le parole del presente, in un incontro che aleggia divino sulle note di un dolore impenetrabile, intriso di istanze liberatorie. Il più giovane Amin chiede all’Amin adulto di uscire allo scoperto, gridando a gran voce la sua sofferenza, la sua impotenza, il terrore di non potere più vestire i panni di chi era abituato a essere.
Flee e Persepolis
Quando si pensa a Flee è facile il paragone con un’altra storia di formazione animata: Persepolis (Marjane Satrapi, 2007).
Ambedue le storie sono autobiografiche, entrambe trasudano quell’alone di storie e civiltà lontane, così tremendamente toccanti e vicine. L’una ambientata in Iran, l’altra in Afghanistan. Una ragazza e un ragazzo che implodono di fronte alle costrizioni e agli impedimenti insensati nelle loro terre. Due persone che pullulano di speranze infantili, imbevute però di quella malinconia che li accomuna.
Le tipiche impurità adulte non hanno ancora sporcato quell’innocente velo che è la giovinezza. Eppure Amin e Marjane sono schiacciati dagli eventi, impossibilitati nel decidere il loro destino, forzati a una crescita prematura.

Amin: «È così noioso stare a casa.
Sono un adolescente e voglio provare qualcosa di diverso, quindi, vado fuori».

Il potere formativo del contesto sul soggetto
Una particolare importanza assume dunque il contesto che li contorna, un quadro d’indigenze a cui segue inevitabilmente un senso di profonda desolazione. La stessa desuetudine che si attacca alla famiglia Nawabi quando, insieme ad altri profughi afghani, intraprendono il viaggio della speranza in cerca di una terra accogliente. In mare però la barca si perde per giorni che sembrano infiniti.
Convivono in Amin sentimenti contrastanti tra l’ardente desiderio di crescita e quindi di salvezza; e la fatica, una sensazione di avvilimento e depauperamento, il terrore di non farcela più. Emblematico è l’arrivo di un’enorme nave in cui tutti i profughi ripongono le loro speranze. Questa si ferma, c’è un momento di astrazione temporale in cui niente si muove, gli occhi dei naufraghi, saturi di lacrime, fissano quelli sulla nave. Dall’alto arrivano soltanto flash di scatti fotografici e video, poi, la nave riparte dicendo di avere avvisato la polizia. Nell’epoca della riproducibilità tecnica è questo che conta: il possedere il momento piuttosto che viverlo.
Ma l’innocenza così incontaminata di Amin gli impedisce di vedere l’inconsistenza dell’Altro, lui vorrebbe solo vivere, di nuovo.
Amin: «La barca non ha una radio, quindi non possiamo chiedere aiuto. E nessuno sapeva nuotare. Sarebbe stato più facile se fossi stato da solo, mia madre era terrorizzata. Ogni volta che parlava della morte, c’entrava sempre l’acqua. Morire in acqua, annegare, era il suo peggior incubo».
Intervistatore: «A cosa pensavi?».
Amin: «Chi devo salvare per primo, se la barca affonda?».
Intervistatore: «Perché, sapevi nuotare?».
Amin: «No. Non ci ho proprio pensato. Forse pensavo di poterlo fare, non ne ho idea. Ero più preoccupato… di chi avrei scelto».
La purezza di Amin viene piano piano schiacciata. In Russia, solo con madre e fratello, riesce a vivere a stento, in contrasto con l’opulenza di tutti quelli che lo circondano. Le ancora sconosciute pulsazioni adolescenziali iniziano a popolare il corpo di Amin, che desidera soltanto appartenere all’età che ha.

L’epopea di Amin come viaggio di formazione forzata
L’epopea propria di Amin assurge a catalizzatore per il suo percorso di crescita, che si ritrova capovolto. Da bambino, Amin deve essere adulto. La sua è una condizione accomunabile a una di quelle displaced persons di cui parlava il regista sperimentale Jonas Mekas in uno dei suoi diari e nel film Lost, Lost, Lost (1976).
Persone deterritorializzate, espropriate della loro terra natia, in balìa di possibilità incerte. Un costante equilibrio precario, la curiosità di configurarsi con il nuovo mondo che le circonda.
Così come Mekas, che osserva la sua vita anni dopo, anche l’Amin adulto rincorre se stesso nei suoi ricordi. Si guarda e si studia, raccontandosi in un’operazione di resurrezione delle immagini che lo hanno caratterizzato. Al pastiche di emozioni corrisponde anche una giustapposizione di materiali diversi nella rappresentazione visiva. Il flusso narrativo infatti mescola l’animazione al found footage, il ripescamento di momenti, come lo direbbe Marco Bertozzi, con un fine ben preciso: un riposizionamento semantico capace di suscitare nuove emozioni.
Ecco allora che, nell’apertura del primo McDonald’s, il gesto invade la materia, e quell’attimo non è solo documentazione, ma si personalizza. Per Amin significa testimoniare a qualcosa di grande, di diverso, circondarsi di nuovo di gente, ossigenarsi l’anima respirando aria pulita.
«Quando lasceremo la Russia, dobbiamo andare anche noi da McDonald’s. “Vorrei un Big Mac e una Coca Cola per favore!” Sarà fantastico!» dice il fratello, sotto lo sguardo assorto e incantato di Amin.