Scandito da un valzer (ta-dà-da, ta-dà-da), Nick Cave e il seme cattivo nella triade di angeli terrestri.
Nick Cave: «Un’altra canzone ed è finita, ma non parlerò della ragazza, non voglio dirvi niente della ragazza.
Voglio parlarvi di una ragazza».
E quando il bambino non è più bambino è ascoltato dall’alto di un giradischi, spiato dalla Ragazza che lo canta e gli guarda nell’anima (compito di Dio che, in questo caso, è Donna e si chiama Marion) e da quella si lascia trascinare, nel racconto di se stessa e della voce di Nick Cave.
Marion, in bianco e nero, si stende su un letto. Ascolta. E pensa. Pensa a sé, al futuro. All’amore. Pensa al fatto di essere lasciata, ancora una volta (e forse l’ultima) da sola, lasciata indietro dai suoi compagni del circo, quasi fallito, in cui lei fa la trapezista vestita da angelo. Ali finte fatte di piume.
La voce di Nick Cave resta in sottofondo. Essere umano presente, ma non fisico. Non visibile. Una voce, divina o diabolica, una voce che tiene il filo delle paure altrui, dei protagonisti della storia che la canzone narra, della Marion-Ragazza che si chiede cosa succederà, dopo.
L’Angelo stanco di essere Angelo, Damiel, senza ali e senza io, ascolta i pensieri di Marion come se la cassa toracica di lei fosse un amplificatore naturale di musica, che è voce, e di ritmo, che è paura.
Ci sono, dunque, in questo momento intimo e personale, tre dimensioni (le dimensioni che vanno oltre la vita terrena) che creano un ponte tra Cielo e Terra.
Nick Cave: l’intelletto del mondo
Frances Yates, in un saggio su Giordano Bruno e la traduzione ermetica dice che «l’Intelletto, o mens divina, contiene le idee».
«E l’imbonitore aveva un cavallo, tutto pelle e ossa / Un ronzino con la gobba che chiamava Dolore / Ora è sepolto in una tomba poco profonda / Nel prato ai tempi bruciato dal sole».
(Nick Cave, The Carny, 1986)
Nick Cave, la voce che canta — inconsapevole di essere ascoltata —, canta di storie universalmente accadute, ma non per questo reali, storie cicliche, storie di amanti perduti o mai trovati, storie di circhi finiti e di cavalli morti e di trapeziste lasciate indietro. Storie racchiuse sotto un unico titolo dagli orizzonti totalizzanti, il nome dell’album che cautamente Marion lascia sulla sedia, YOUR FUNERAL (il tuo funerale)… MY TRIAL (il mio giudizio, il mio processo, la mia prova, MIO MIO MIO, all’infuori di TE).
Marion: il corpo del mondo
«Le specie nella materia, cioè nel corpo del mondo».
(Frances Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica)
Le dita che prendono il braccio meccanico del giradischi e fanno in modo che la puntina strusci sul vinile, proprio in quel punto, proprio in The Carny [«I say it’s funny how things go» — È divertente pensare che le cose finite nel presente sono morte, non è importante la resurrezione futura, è importante il dolore che si prova, è importante il qui (una roulotte, un parcheggio) e ora (un pomeriggio, l’ultimo giorno)].
La Ragazza che si chiede cosa ne sarà di lei, nel momento in cui ascolta le parole profetiche sulla sepoltura distratta di un cavallo pelle e ossa, abbandonato (come lei) in una fossa (o su un letto) mentre tutti se ne vanno (Parigi, prossima meta) senza voltarsi indietro. La Ragazza che si piange già il futuro, nel chiedersi se sarà mai amata (da qualcuno o da se stessa).
«In mezzo ad essi si trova l’Anima del mondo [Damiel], in cui ci sono “ragioni seminali”, in numero equivalente alle idee della mens».
(F. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica)
Invisibile, incorporeo nella materialità, ma con un suo aspetto, con un suo volto, un suo cappotto, i suoi capelli legati, il suo amore viscerale per la Ragazza che non sa di essere osservata, che non sa di essere sola; l’Angelo Damiel che segue la tristezza di Marion, a distanza ravvicinata, incapace di toccarla, di consolarla, di dirle “io ti amo”, l’Angelo Damiel che deve farsi Intelletto Corpo Uomo, abbandonando la sua dimensione divina di passato e futuro per vivere qui e ora.
Tre persone legate tra loro che non sanno di conoscersi
Tre piani incongiungibili nel mondo fatto di scale di grigi, di bianco e nero (di anime, di pensieri, di spiriti), ma che si incontrano all’infuori di se stessi quando finalmente c’è colore (i capelli di Marion sono ramati; Damiel è un uomo stanco, appena nato e già vecchio, con la pelle vagamente olivastra; Nick Cave è sul palco con la camicia rossa), quando finalmente c’è vita e movimento.
Marion: «Non c’è storia più grande della nostra, quella mia e tua, dell’uomo e della donna. […] Guarda i miei occhi, sono l’immagine della necessità, del futuro di tutti sulla piazza. La notte scorsa ho sognato qualcuno, uno sconosciuto, il mio uomo. […] Io lo so, sei tu quello».
Nick Cave fuma e stringe un microfono in mano, ed è seduto su uno sgabello e ha una band dietro (in carne e ossa, e non come fantasmi le cui note si intuiscono nelle scanalature di un disco fatto di petrolio), e anche lui ha un volto — il naso all’insù, i capelli tirati indietro che scivolano sulle spalle coperte dalla giacca — e anche lui respira ed è vivo, e sono tutti e tre, per la seconda volta, ma senza saperlo, nella stessa stanza, e le altre persone sono solo un contorno, comparse protagoniste di altre storie che non sono questa.
Storie protette dalle palpebre dell’Angelo Cassiel che ha un occhio per ciascuna anima mai stata pensata, l’Angelo Cassiel che è l’Angelo vero, e solo con l’avvento del Dio Australiano Marion e Damiel possono finalmente prendere insieme da bere, e baciarsi e sapere di essere nelle reciproche braccia, sapere di potersi finalmente toccare e vivere diventando Uno, lui trasformato uomo da lei (from her) per (to) l’eternità (the eternity).