Fantozzi, l’ultimo marxista.
Forse questa clip andrebbe vista alla fine dell’articolo, perché in essa risiede tutto ciò che, nelle umili parziali parole di questo breve viaggio, si proverà a mostrare.
In principio, fu Paolo Villaggio.
Borghese, intellettuale, amico storico di De André. Voyeur dell’Italia che fu, dove il poetico e il sacro, anche quando scomposti o ribaltati, trionfavano ancora contro il mediocre.
Anche nel raccontare il mediocre, l’arte si elevava.
Che fosse per brutale sincerità, per mito, sogno o leggerezza, comico, surreale o tragico, il cinema italiano non si adagiava sul medio spirito capitalista.
Ma lui, giovane osservatore, aveva capito. Ciò che Scola mostrerà con decadenza ancora splendente, lui voleva iperbolizzare verso il più profondo ridicolo. Quello vuoto, senza ode alla vuotezza.
Scrive un libro, scrive l’uomo del futuro. L’impiegato inetto e inutile, non cristologico né esistenzialista, semplicemente medio.
Se è vero che la società dei consumi riesce in ciò in cui il fascismo fallisce, nell’omologazione annichilente priva di dialettica storica o lotta di classe, quella banalità del male agisce anche nel mondo fantozziano, non perché egli agisca nell’orrore, ma perché la società dimentica ogni riflessione etica sul senso dell’uomo.
Farci un film è cosa giusta. Deve essere nazionalpopolare. Lo propone a Ugo Tognazzi, egli rifiuta.
Paolo Villaggio diventa Fantozzi.
La scena della sveglia è solo uno dei mille esempi di come i film di Fantozzi, soprattutto i primi due, seguano anche nella loro struttura narrativa e registica un’iperbole delirante e quasi orwelliana della catena di montaggio capitalista, taylorista o fordista che dir si voglia.
Tutto è scandito nel massimizzare il risultato minimizzando il tempo speso. Quantità batte qualità sempre nei tempi in cui il capitalismo ascende, finché qualcosa si rompe e a quel punto giunge la nevrosi. Quando il soggetto non regge più, quando è giunto al di là del possibile umano, arriva Fantozzi che salta dalla finestra verso la morte.
Eppure, in questo folle gesto, c’è anche l’altra faccia della medaglia: il lato delirantemente e imprevedibilmente carismatico di alcuni istanti fantozziani lo rendono un ibrido tra l’ultimo degli annichiliti e il primo dei rivoluzionari.
Ecco che quindi si risveglia il tanto dimenticato reale titolo: “il tragico Fantozzi”. Perché il ragionier Ugo Fantozzi non è il servo del capitalismo, non è il leccaculo, ma non è neppure il proletario che nel far carriera si fa borghese, citando Michels. Il ragioner Ugo Fantozzi è colui che, privato della sua dignità umana, umiliato e ridicolizzato fino al delirio, giunge alla libertà dell’urlo carismatico, in un quasi assurdo e deliberatamente contraddittorio convergere del leader weberiano e del ribaltamento marxista.
Fantozzi più e più volte mostra il culmine marxista che quel momento storico italiano poteva avere: un film che ridicolizza la tragicità dell’umiliazione capitalista fino a ribaltarla attraverso istanti dove l’ultimo del carro rompe ogni gerarchia, svilendola del suo significato materialista, attraverso il ridicolo stesso di cui lui è portatore. Il Fantozzi ridicolizzato finisce per ridicolizzare il potere che lo ridicolizza. Tutto diventa ridicolo e l’unico che può sopravvivere all’interno di tale iperbole è proprio Fantozzi stesso.
Ma dura un istante. Sfocia nel tragico anche il ribaltamento, mostrandosi impossibilitato a perdurare al di là della dicotomia. Il mondo deve riconfigurarsi dicotomico. Fantozzi che ridicolizza il film russo deve diventare il bambino del passeggino.
Ma poi accade la realtà. Fantozzi diventa virale diremmo oggi. Ne vogliono di più. Quel rimanere nel tragicamente incompiuto dei primi due film, dove di fondo l’unica piccola salvezza di Fantozzi è in quella triste dolcezza della sua famiglia moribonda, ma ancora sincera – riflessione anch’essa emblematica del concetto di famiglia -, non accontenta il potere capitalista.
La realtà stessa, oramai di puro consumo, si appropria di Fantozzi, e Paolo Villaggio cede.
Il film stesso, l’autore stesso diventano parte del Grande Capitale.
E così che, forse, quella clip messa all’inizio ora acquista il suo senso finale. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx già affermava che ci volesse un’antropologia dopo Dio perché l’uomo raggiungesse quella libertà necessaria a compiersi al di là dello stato e del capitalismo stesso. Anticipava Bakunin, anticipava Nietzsche in un certo senso, seguiva Leopardi se vogliamo, direbbe Severino.
Ed ecco che, sempre nella suddetta clip iniziale, i modi in cui Fantozzi nomina il Mega Direttore Galattico, partendo da “Duca”, passando per “Sua Grazia” e concludendo con “Onnipotente” conclude da sé questo piccolo nostro viaggio.
Come filastroccava Eco, d’altronde: