Alla fine degli anni Novanta il regista Antony Minghella prende spunto dall’omonimo romanzo di Patricia Highsmith per dare vita alla riproduzione cinematografica de Il talento di Mr Ripley (1999).
Tom Ripley (Matt Damon) è un giovane e raffinato musicista, brillante e abile nelle imitazioni. Un giorno viene invitato come pianista alla festa di un gruppo di ricchi newyorkesi. Lì conosce un benestante armatore che rimane colpito dallo charme di Ripley e dal fatto che indossi una divisa uguale a quella degli universitari di Princeton, università a cui ha appartenuto anche suo figlio.
Troverà così l’occasione per tentare di riavvicinarlo: l’uomo propone a Ripley di essere ingaggiato, per una somma di denaro cospicua, per andare in Italia a recuperare suo figlio Dickie (Jude Law), che vive in completo libertinaggio nel lusso sfarzoso delle sue possibilità. E per convincerlo a tornare negli USA.
Ripley accetta e parte alla volta di Mongibello (storpiatura cinematografica dell’isola di Procida) per svolgere la sua missione. Ma le cose cambiano nel momento in cui conosce Dickie, un ragazzo che ha tutte le qualità per sedurre il giovane Ripley. Dickie è fidanzato con l’affascinante Marge (Gwyneth Paltrow) e vive in completa libertà le sue giornate.
Il talento di Mr Ripley è subito evidente nel saper convincere Dickie di essere stato un suo ex compagno di università. Viene così accolto da quest’ultimo come vecchio amico e invitato nelle più disparate avventure sfarzose, avventure che incanteranno Ripley sia per la qualità del sublime di cui sono rivestite sia perché Ripley, spinto da una tensione omoerotica verso Dickie, riconoscerà in lui qualità affascinanti quali bellezza, raffinatezza e vitalità.
La relazione tra i due inizia a precipitare nel momento in cui Dickie si rende conto della completa dipendenza di Ripley da lui. Ripley, che nel frattempo ha del tutto scotomizzato la sua missione per conto del padre di Dickie, continuerà a frequentarlo, spinto da una cocente attrazione.
È proprio questo incipiente legame con Dickie, di cui Ripley è ormai completamente geloso e avaro, in rivalità con la fidanzata dell’amico, a portare il primo a decidere di volersi allontanare.
In gita in barca sulle coste di Sanremo Dickie, ormai stanco del rapporto morboso e ossessivo dell’amico nei suoi confronti, gli dirà di non avere più intenzione di frequentarlo. Ripley come unica risposta possibile alla decisione del suo compagno trova la violenza: una violenza di morte motivata dalla relazione ingannatrice e inautentica che egli ha intrattenuto fino a quel momento con Dickie.

L’imitazione, l’aggressività, l’omoerotismo di Mr. Ripley
Questo film insegna innanzitutto qualcosa sulla natura del desiderio: smonta a piè pari la visione di un desiderio solo eteroerotico e rincara la dose, presentandocene uno di senso opposto. Se il desiderio non ha genere, non è questo, però, il punto da cui partire per rintracciarne le perversioni e le morbosità.
Il talento di Mr. Ripley ci insegna qualcosa sulle regole dell’attrazione al di là delle più o meno astratte connotazioni di genere, ma è anche un film che spinge l’acceleratore sulla costruzione di un’identità che prende senza reale disinganno il volto di un altro.
Piuttosto che essere nessuno Ripley fonda il suo Io su una menzogna, su una falsa identità che trascende filosoficamente il fatto che sia colta dal punto di vista di un corpo maschile. Piuttosto, la questione sarebbe da porsi fenomenologicamente, al livello di una relazione triangolare che trova nel prefisso “omo” solo un significante tra gli altri per rappresentare la messinscena di un meccanismo inconscio edipicamente esistente: lui, lei, l’altro.
A questo livello il film, bagnato in un’atmosfera italiana anni ’50, contrappone al suo leggero e sfumato panorama da polaroid l’ombra di una dinamica intersoggettiva controversa e ambivalente.

Una lettura psicoanalitica della dinamica relazionale tra Ripley e Dickie ci può dare testimonianza del fatto che l’atto omicida del giovane musicista non è così slegato dal tipo di rapporto che Mr. Ripley cerca di instaurare con Dickie.
In effetti, il primo aspetto che emerge con evidenza nel personaggio di Ripley è proprio il talento che egli ha per l’imitazione (si pensi al fatto che, dopo aver ucciso Dickie, si fingerà lui).
Nel saggio Sulla imitazione, dello psicoanalista italiano Eugenio Gaddini, si specifica che l’imitazione (voler essere come) si distingue dall’introiezione (assimilare qualcosa di) e dalla identificazione (equipararsi a qualcuno), che le contiene entrambe. Psichicamente parlando, secondo l’autore, il processo di imitazione si modella sull’imitare per essere e s’instaura per ristabilire in modo magico e onnipotente la fusione con l’oggetto, che quando è assente può trovare un corrispettivo percettivo nell’allucinazione.
Secondo l’autore, nell’essere umano, quando è un infante, si instaurano due tipi di fantasie che non hanno riferimento con la realtà oggettiva e che appartengono alla duplice disposizione verso l’oggetto: guardare all’oggetto come ciò che si vorrebbe essere (imitazione) e guardare all’oggetto come ciò che si vorrebbe possedere (introiezione).
La primitività dell’invidia e della rivalità diviene più comprensibile se, come fa la psicanalista Melanie Klein, si tiene conto di come la rivalità sia vicina al primo modello psichico dell’uomo, quello percettivo-imitativo (l’oggetto come ciò che si vorrebbe essere), e di come l’invidia sia più vicina al secondo modello umano, incorporante-introiettivo (l’oggetto come ciò che si vorrebbe avere).

Per Melanie Klein infatti l’invidia fa sì che l’essere umano miri a essere buono e bello come l’oggetto, ma quando ciò è sentito come impossibile si produce, come meccanismo difensivo immaginario, un’eliminazione della bontà di quest’ultimo per annullarne anche la sorgente dei sentimenti invidiosi; è ciò che accade nella realtà a Ripley con Dickie quando mette in atto quel processo negativo che lo porta a pensare che Ripley sia totalmente cattivo, un oggetto di possesso impossibile e quindi un persecutore ormai da eliminare.
Klein definisce questo processo una prima esternalizzazione della pulsione di morte: la svalutazione dell’oggetto tramite proiezione in esso di sentimenti invidiosi o la rigida idealizzazione dell’oggetto da preservare come ideale (difese precarie) sono entrambe modalità rigidamente difensive dall’invidia distruttiva e contribuiscono alla distorsione dell’Io.
Per la Klein la fantasia inconscia è originaria come espressione mentale delle pulsioni mediate dall’Io e ciò comporta che da sempre l’Io sia capace di remare le relazioni oggettuali verso primitive invidie e rivalità.

Nello sviluppo identitario, lo sguardo dell’altro può fa rimanere impigliati tra il desiderio di voler scomparire e quello di essere riconosciuti. Un non adeguato rispecchiamento, un sentirsi visti senza essere guardati implica una doppia trasparenza del soggetto: l’altro scopre tutto di lui, ma contemporaneamente egli non esiste davanti all’Altro.
Uno sguardo che non vede annulla, e quello che vede in modo distruttivo squalifica e svaluta. Probabilmente Ripley si trova denudato e solo nel momento in cui Dickie vuol far cadere la loro amicizia; è visto, ma non come colui con il quale vale la pena intrattenere una relazione, piuttosto come colui che infastidisce e che bisogna allontanare.
È proprio la caduta del doppio versante dell’ideale, quello di se stesso (non meritevole di stare con Dickie) e quello di Dickie stesso (non sufficientemente amorevole verso di lui), a mettere in moto il processo distruttivo che nel film assume tutta la sua portata nell’atto omicida.
In una tensione omoerotica, imitativa e speculare che, come ci insegna un altro grande filone della tradizione psicoanalitica, quello lacaniano, è strutturalmente aggressivo e rivale, non può che emergere la pulsione distruttiva come tendenza a voler eliminare quel simile come il quale non si riesce a essere e che non si riesce tantomeno a possedere.

Di fronte alla visione sovversiva e al tempo stesso emblematica di un uomo come Dickie, che piace a chiunque nella sua regalità esistenziale, che chiama inevitabilmente il desiderio dell’Altro, il talento di Mr Ripley è allora un titolo autoironico e macabro, che svela una personalità complessa e sgradevole, obnubilata dal fumo del potere e della tensione violenta, laddove queste ultime si sostituiscono alla sua incapacità di trovare una propria identità al di là dell’altro e quindi di provare affetti sinceri e più sani.