La finestra sul cortile – «I enjoy playing the audience like a piano»

Alessandro Fazio

Luglio 26, 2022

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Rear Window (1954), giunto in Italia sotto il nome de La finestra sul cortile, ha certamente cambiato la storia del cinema almeno quanto i successivi Vertigo (1958) e Psycho (1960). Ma forse più degli altri ha rappresentato un vero terreno di sperimentalismo per il maestro Alfred Hitchcock, vuoi per la scenografia unica, vuoi per il sapiente utilizzo della ripresa soggettiva e dello zoom, vuoi infine perché il film cerca in ogni modo di confondere e depistare lo spettatore. Non a caso è una delle citazioni più famose del regista che dà il titolo a questa riflessione. Pertanto la domanda: perché e come lo spettatore è “played” in Rear Window?

Il thriller/giallo di Hitchcock

Individuare il genere di una pellicola spesso è un lavoro superfluo, necessario più per la vendita e la distribuzione che per cogliere il senso del prodotto artistico. Tuttavia, La finestra sul cortile in principio si pone come un film dalle tinte allegre, quasi descrittivamente civettuole, ma ben presto cambierà il suo apporto contenutistico, mantenendo (quasi) lo stesso tono. Già da questo dato lo spettatore percepisce nell’arco dei soli primi dieci minuti che c’è qualcosa che non torna.

la finestra sul cortile

Ma questo è solo l’inizio: il protagonista, Jeffrey, è costretto sulla sedia a rotelle a causa di un ingombrante gesso che avvolge l’intera gamba sinistra, rottasi durante una pericolosa missione di lavoro come fotografo per un giornale. Questo senso di costrizione è accentuato dal fatto che gli spettatori, come il personaggio principale, sono visivamente guidati dalla macchina da presa a guardare solo due ambienti: il cortile del condominio e l’interno dell’appartamento del fotografo. Quando la visione della ballerina, del suonatore di pianoforte, di Cuore Solitario e della loro quotidianità di vicini viene sostituita da un urlo di donna soffocato nella notte e da strani andirivieni del signor Thorwald con la sua valigetta, diventa ben chiaro che quello che l’audience sta guardando è un thriller/giallo.

Ed ecco che così si staglia prepotente un ossimoro visivo: si è mai visto un thriller in cui il protagonista è impossibilitato a muoversi?

Sperimentalismo di Hitchcock, si è detto all’inizio. Ma non c’è solo questo. Guardiamo con più attenzione Jeffrey: l’uomo è da settimane costretto su quella sedia, e la sua unica occupazione sembra essere spiare la vita dei vicini. Sa tutto di loro, grazie al suo binocolo e all’obiettivo della sua macchina fotografica. È evidentemente annoiato, al punto che, parlando con l’infermiera Stella, scherza sul fatto che potrebbe commettere qualche crimine per l’esasperazione. I segnali che riceve lo spettatore, insomma, non sono rassicuranti: tutto sembra puntare verso il dato oggettivo che Jeffrey, dalla cui prospettiva è narrato gran parte del film, non sia un narratore affidabile.

Questa sensazione straniante persiste anche quando egli, per la prima volta, muove dei sospetti verso il vicino Thorwald: parlando con Lisa chiede quasi sovrappensiero «Secondo te cosa ti serve per smembrare un cadavere?». Lisa è inevitabilmente preoccupata: la giovane donna, insieme con l’audience, non può che chiedersi se Jeffrey stia impazzendo.

Ma proprio quando Hitchcock è riuscito a scardinare uno dei più grandi pilastri narrativi – cioè a scardinare il dare per scontato che il protagonista/narratore dica la verità – ecco che la realtà viene capovolta di nuovo. Attraverso le lenti del binocolo lo spettatore si rende conto che effettivamente il signor Thorwald si comporta in modo strano e, soprattutto, che sua moglie è scomparsa. Da questo momento in poi il punto di vista si ribalta: fino alla fine del film, Jeffrey e l’audience sono in una sintonia via via crescente, con i dubbi iniziali che lasciano spazio alla fiducia verso le teorie del fotografo e dell’amante Lisa.

L’elemento antagonistico, rappresentato dal suo amico detective Doyle che non crede alla teoria secondo cui Thorwald abbia ucciso e sezionato la moglie Anna, diventa sempre meno imponente man mano che la credibilità di Jeffrey aumenta: Doyle viene mostrato sempre meno, e quando c’è è meno al centro della scena come lo è nelle prime comparse, quasi a simboleggiare un cambiamento di prospettiva che Hitchcock vuole indurre nello spettatore anche attraverso questi strumenti.

L’uso della prospettiva

La prospettiva, appunto. Come detto sopra, l’utilizzo della tecnica di ripresa della soggettiva ne La finestra sul cortile è volutamente abusato in questo film, ma ci sono due momenti in cui il punto di vista in cui lo spettatore è calato non è quello del protagonista.

Il primo è il momento in cui l’intero condominio viene a sapere dell’assassinio del cane di una dei condòmini: in quel caso, infatti, il punto di vista si sposta nel cortile e guarda verso l’alto tutti coloro che si sono affacciati alle loro finestre per comprendere l’accaduto.

Il secondo, invece, è più incisivo: non solo perché cambia la soggettiva, ma perché per la prima e ultima volta è lo spettatore a guardare in faccia il protagonista, mentre è a un passo dalla morte e cerca di non farsi buttare giù dalla sua stessa finestra. Di chi è questa seconda soggettiva? Proprio dell’assassino e antagonista della storia, il signor Thorwald.

la finestra sul cortile

Si può dire, dunque, che con La finestra nel cortile Hitchcock si sia divertito a manipolare lo spettatore.

Proprio come i suoi movimenti di macchina frenetici, lo ha sbattuto da una parte all’altra della stanza di Jeffrey e dell’intero arco narrativo, facendogli credere tutto ciò che lui e solo lui voleva. Hitchcock ci ha effettivamente «played like a piano», ed è forse nelle parole di F. Truffaut che si può trovare un po’ di chiarezza critica e schivare i tentativi di manipolazione di Hitchcock:

«Il cortile è il mondo, il protagonista il regista e il binocolo è la macchina da presa».

Leggi anche: La finestra sul cortile – La morbosità dello sguardo 

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