C’è, negli ultimi anni, un fermento letterario molto interessante che ha a che fare con una letteratura che parla apertamente e con coraggio di esperienze relative alla malattia mentale più buia. Il romanzo Tutto chiede salvezza (2020) di Daniele Mencarelli (meritatamente, poi, vincitore del Premio Strega Giovani) si inserisce perfettamente in questo fertile filone. L’autore, per farlo, si serve di una narrazione cruda ma al tempo stesso appassionante, con cui in effetti è difficile non empatizzare.
Quando ho saputo che Netflix ne avrebbe tratto una serie omonima (2022), per la regia di Francesco Bruni, ne sono stato contento e al tempo stesso incuriosito. Può il format della serie TV rimandare fedelmente l’intensità delle circostanze raccontate nel libro?

In effetti, per essere trasposto sullo schermo, il romanzo di Mencarelli ha avuto bisogno di una revisione e di una ri-sceneggiatura di cui si è occupato lo stesso autore, poeta romano. E ne è uscito fuori qualcosa che al libro inevitabilmente assomiglia parecchio, ma che se ne discosta per l’intessitura della trama e per alcune licenze cinematografiche che si prende la serie (per esempio, la storia d’amore tra Daniele e Nina è assente nel libro).
Non dispiace, comunque, veder messo in scena, anche sullo schermo, un ambiente e un mondo di cui così poco si racconta, specie considerando che tutto questo rientra nella diffusione di una cultura sulla malattia mentale che al popolo italiano (e non solo) non può che far bene.
Che se ne parli, purché si faccia. Questo è alla fine l’importante, anche considerando che la serie TV Netflix non sminuisce né banalizza nulla della realtà atroce che si respira già nel libro.
Tutto chiede salvezza: il racconto
La trama, poi, è fatta di un protagonista, il giovane Daniele (nella serie interpretato da Federico Cesari) che, per uno scatto d’ira incontrollato, succeduto all’assunzione di cocaina durante una serata in discoteca con amici, riceve un TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio). Quella notte, di ritorno a casa, perso e preso tra gli effetti della sostanza e da una condizione esistenziale che si fa più frustrante in quel momento – invece di pacificarsi per l’uso della sostanza, così come a volte chi ne fa uso spera –, aggredisce fisicamente i suoi genitori.
Il suo ingresso in un SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) – unico baluardo sanitario rimasto, a seguito della chiusura dei manicomi giustamente voluta dallo psichiatra italiano Franco Basaglia (che contribuì fortemente all’attuazione della legge 180 del 1978), per chi nel corso della sua vita vive una crisi psicotica – gli consente l’accesso a un’esperienza fatta di incontri reali, amicizie che sbocciano e di contatti con un mondo altro, definito folle solo per la sottile linea di demarcazione che la nostra società traccia rispetto a ciò che è patologico e a ciò che è normale.

Ma cosa è, veramente, normale?
Il romanesco verace che si usa nei dialoghi, la bravura delle interpretazioni degli attori, le riflessioni su una psichiatria incapace di cogliere, con ascolto gentile, i vissuti tragici e dolorosi di chi patisce una sofferenza psichica, la fratellanza che si genera tra i componenti di una clinica per TSO, l’atmosfera disperata e al tempo stesso commovente prodotta da chi soffre di una patologia psichiatrica, così come la sincerità e l’acume di alcune considerazioni sull’esistenza umana e sul confine tra sanità e malattia mentale, ma soprattutto la capacità di Mencarelli di trasportare con incisività e bravura nel clima dei sette giorni di internamento in clinica – con tutto ciò che lì vi gravita, compresi infermieri e psichiatri – sono forse solo alcuni degli elementi preziosi che coinvolgono nella storia e che sono da prendere in considerazione a libro (e a serie TV) conclusi.
Tutto chiede salvezza (titolo appropriato al contesto di cui racconta) è il racconto della sofferenza mentale, innanzitutto, ma è anche il racconto di come quest’ultima viene trattata e interpretata dalla psichiatria.
In fondo, le domande alla base della rivoluzione basagliana erano proprio «Che cos’è la psichiatria? Come essa può curare? Come deve essere fatta un’istituzione per pazienti psichiatrici?”». Domande gigantesche per chi lavora in quest’ambito, e domande altrettanto enormi per chi la patologia psichiatrica la vive, sia dal lato della persona sofferente che dal lato delle persone che la circondando. Domande che meriterebbero capitoli e capitoli per essere declinate approfonditamente, ma che qui ci servono solo per tenere presente la direttrice latente che segue questa storia.
L’esperienza vissuta in prima persona da Mencarelli, riportata prima nel libro e poi nella serie TV, è una testimonianza feconda che cerca di farci avvicinare a ciò che può voler dire essere affetti da un disturbo mentale.
I disturbi psichiatrici, così ampi e variegati nella loro fenomenologia (di cui la nomenclatura nosografica cerca di riportare l’aspetto descrittivo), sono appunto tra loro diversi: schiacciare tutti i disturbi dei pazienti nella singola affermazione che li racchiude nel circuito angusto e stretto dei folli significa eliminare la loro soggettività. Quella stessa soggettività che Basaglia, con il suo intervento socio-politico, oltre che psichico, sulle istituzioni manicomiali, era invece convinto che dovesse essere restituita ai pazienti.

Tutto chiede salvezza: i protagonisti
Giorgio, Gianluca, Mario, Madonnina, Alessandro, Nina: sarebbero questi i nomi dei pazzi che Daniele incontra nel suo soggiorno di una settimana in SPDC. Ma ciò che scopre, in un processo di dialettico riconoscimento, è che quei folli sono non più né meno folli che lui. Incontra persone, incontra in realtà dei soggetti. Dietro di loro incontra nomi, scopre storie inespresse, paure, traumi, solitudini, difficoltà; intravede un modo di fare vita diverso da quello generalmente conosciuto, un modo più semplice, più essenziale, e al tempo stesso più complicato e articolato. Questa complessità porta con sé l’orrore dell’essere umano quando viene schiacciato dalla sofferenza, quando non riesce a farvi fronte.
Incontra anche una psichiatra, la Cimaroli, che perlopiù lo ascolta, e un altro psichiatra, Mancino (Filippo Nigro), figlio di quel positivismo scientifico che attanaglia e toglie il respiro a una vera accoglienza del paziente, che gli fanno capire che, per essere davvero aiutati, si ha bisogno di qualcuno che ascolti – che semplicemente, prima ancora di intervenire, protenda un orecchio cortese e silenzioso. Per farsi raccontare, per farsi spiegare cosa c’è, alla fine, dietro quell’immenso mondo incomprensibile della psicosi. Per farlo si ha bisogno di mettere tra parentesi la diagnosi che, se posta troppo in primo piano, diventa invece la condanna di un’etichetta che marchia le esistenze di coloro che la portano su di sé.
Ma la diagnosi è di per sé stessa un destino oppure un semplice termine che si dà a qualcosa di tanto spaventoso da aver bisogno di un nome per essere maggiormente digeribile?
Ciò che maggiormente colpisce, in narrazioni del genere, è rendersi conto che il mondo della follia non si può così drasticamente scindere da quello delle persone cosiddette normali. Siamo tutti umani di fronte alla vita, ci sono solo modalità più o meno salutari di assumere quest’evidenza.
Così arriviamo alle vicende che durante questi giorni avvengono: non manca nulla dell’immenso bailamme delle passioni umane. Vediamo tanto l’odio, il rancore, la confusione, la rabbia, la morte e l’incontrollabilità quanto l’amore, la comprensione, l’ascolto, l’affetto, l’amicizia e la tenerezza di un mondo che gridando non fa altro che, alla fine, chiedere salvezza.

Se qualcosa ne rimane, a visione (e lettura) conclusa, è una riflessione aperta sul disagio psichico, un interrogativo sui pazienti, sul modo di esistere degli SPDC e su una psichiatria che ancora non sempre – nonostante i tantissimi progressi fatti – riesce a dare voce a chi sta male.
Ben vengano esperienze emotive coraggiose, letterarie e cinematografiche, come queste, capaci di continuare ad abbattere il silenzio sul disagio e le sofferenze psichiche delle persone che ne soffrono e, così facendo, avvicinare tutti a questi temi, che è ormai anacronistico e sbagliato considerare tabù.