Babylon – Ode orgiastica al cinema

Giulia Pilon

Febbraio 4, 2023

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Babylon e l’ode orgiastica al cinema

Vedere Babylon – rigorosamente al cinema – è come ascoltare un disco di Charles Mingus per intero, senza interruzioni o pause di alcun tipo. Un saliscendi emotivo, sorprendente, sincopato, in cui un’orchestra opera per la creazione di un ritmo ben scandito e scalpitante. Dove il suono si fa immagine, e l’immagine si fa suono, e viceversa, in un quadro iridescente di colori che si susseguono l’un l’altro senza sosta, consumandosi a vicenda.

Nellie LaRoy (Margot Robbie) in un frame da Babylon

Nelle sale da qualche settimana, Babylon – l’ultima poderosa creazione di Damien Chazelle – era e rimane una scommessa. Il film strizza l’occhio ai volumi che riscrissero una storia peculiare del cinema americano dall’interno (Hollywood Babylonia I e II di Kenneth Anger, del 1959 e del 1984). Infatti, esso racconta la grandezza della Hollywood classica tra gli anni ‘20 e gli anni ‘30 del secolo scorso.

Babylon copre un arco narrativo di una decina di anni. Un periodo in cui l’industria del cinema più grande dell’epoca subì diversi contraccolpi, finendo inevitabilmente per rivoluzionarsi. Un momento storico di determinante importanza per i canoni estetici e industriali. Si tratta dello star system e di come questo abbia dovuto adattarsi a nuovi modelli adeguate alle nuove richieste successive all’introduzione del sonoro. Si parla – per dirla in termini bourdieusiani – di un campo di forze estremamente potenti che tendono a conservare la loro posizione. Di gatekeepers, che controllano chi entra e chi esce. Si parla di chi riesce a valicare tali confini, e di chi, invece, finisce per inciampare per poi non rialzarsi più.

La narrazione di Babylon procede tripartita – o meglio, persegue cinque strade. Quella di Jack Conrad, di Nellie LaRoy e di Manny Torres sono le principali, mentre Sidney Palmer e Fay Zhu fanno apparentemente capo a una sorta di figura comprimaria. In realtà, seppur le prime tre appaiano in risalto, Babylon opera verso la creazione di un pittoresco quadro dalle mille sfumature.

Diego Calva nei panni di Manny Torress in Babylon

Qui, tutto, e tutti, sono alla ricerca di un proprio spazio narrativo, grande o piccolo che sia.

Anche a livello microscopico, i personaggi tentano di trovare un proprio posto nel mondo tanto desiderato e agognato: il cinema. Hollywood. Quella che all’epoca rappresentava una vera e propria fabbrica di sogni, dipinta da Chazelle come una lussuriosa macchina dallo sfarzo eccessivo. Disinvolta e disincantata, la realtà hollywoodiana degli anni ‘20 viene mostrata come una magia sregolata in grado di stregare anche il più scettico. Un cosmo dove anche il più grave degli incidenti sul set – la morte di un addetto tecnico – passa in sordina in vista dell’obiettivo più importante: realizzare un film.

(da sinistra) George Munn (Lukas Haas), Jack Conrad (Brad Pitt) e Otto von Strassberger (Spike Jonze)

Dall’impianto quasi futuristico, caratterizzato da un violento e confuso dinamismo, tale universo attrae una personalità esplosiva come quella di Nellie. Nata star, come suggerisce ella stessa, non vede l’ora di farsi notare da qualche magnate. È scaltra, intuitiva. Con quel suo fascino che suggerisce uno strano ma seducente esoterismo biologico, solo suo, Nellie ce la fa. Scala le vette del cinema (quasi) agli albori. È espressiva, è il volto che il cinema muto predilige.

Proprio come per Nellie, anche per Manny le cose procedono inaspettatamente – e velocemente – bene. Grazie all’aiuto del divo Jack Conrad, il messicano dagli occhi dolci diventa qualcuno, si fa strada. Da semplice uomo di servizio del pezzo grosso Wallach, Manny scala la gerarchia, fino a diventare un rinomato produttore.

I personaggi del film in uno still da Babylon

Il ritmo del film e la sua cadenza vanno di pari passo con l’avanzare dell’arco dei personaggi. Inizialmente infatti, lo svolgimento di Babylon si compie con un andamento intenso e sincopato. Le immagini esplodono vivaci sullo schermo e, in sincronia con lo scoppiettio continuo del suono, si mescolano ad esso. Lo spettatore si trova, pertanto, travolto da un audiovisivo impetuoso, che irrompe con tenacia e catalizza chi lo guarda e chi lo ascolta.

Allo stesso modo, la prima metà del film vede Nellie e Manny in preda alle più disparate avventure e alle prese coi personaggi più pittoreschi. Entrambi vengono risucchiati in un turbinio di avvenimenti, inglobati in un ambiente frenetico e senza sosta. Tutti e due assaggiano una fetta di quella fucina di opportunità, dove chiunque era libero di emancipare la parte di sé più recondita, di combattere un serpente in mezzo al deserto.

Il punto di rottura – per i singoli personaggi e per la narrazione tout court – avviene in corrispondenza del passaggio dal muto al sonoro. Il Cantante Jazz (Alan Crosland, 1927) segna un indelebile punto di non ritorno. Ce lo insegna Gloria Swanson in Viale del Tramonto (Billy Wilder, 1950): il cinema non sarà più come prima, così come chi lo abitava potrebbe non abitarlo più. Cambiano le regole del gioco, e con esse anche le forze operanti nel campo sono costrette a ristabilirsi, alla ricerca di un nuovo equilibrio.

Nellie LaRoy in Babylon

La sequenza magistrale all’interno di Babylon, che vede i tecnici destreggiarsi con il suono in presa diretta è, in questo, senso, paradigmatica. Nellie è impacciata e sudaticcia, nervosa all’idea di dover provare la sua prima scena con la sua voce. Non sa come muoversi, si inceppa. Così come lo staff. La tensione interna al quadro è palpabile, il montaggio sincopato, in una sequenza che non può che riecheggiare Miles Teller che cerca di tenere testa al maestro J. K. Simmons, in Whiplash (2013). Nessuno sa bene come operare, come inserirsi in questo nuovo mondo, nel nuovo cinema e nelle sue nuove frontiere.

Proprio come Nellie, anche Jack Conrad si spegne, perde la sua radianza. Non riesce a coniugarsi al nuovo sistema vigente e, allo stesso tempo, non riesce ad accettare di non poterne fare più parte. Con quel suo gracidante “I love you, I love you, I love you” suscita ilarità, e un senso di derisione generale in sala. Mentre lui osserva di nascosto la proiezione del suo nuovo film, gli spettatori si divertono in uno sfottò per la sua performance.

Chazelle lo rappresenta con attenzione scrupolosa e minuziosa: il sonoro corrode l’alone mitico dei divi del muto. Quello che prima appariva sacro, epico e insindacabile ora decade. L’ammodernamento dei modelli va di pari passo con l’invecchiamento di chi prima ne aveva il controllo. Nellie annaspa e fatica ad aderire ai canoni di un nuovo cinema, una nuova società che la vorrebbe più sobria, più elegante, più raffinata. Manny riesce, invece, in un primo momento, ad appropriarsene, finendo anche lui, poi, inevitabilmente schiacciato da un ecosistema mistificatore e intransigente.

Jack: «Quando arrivai io qui c’era un’insegna con su scritto “vietato l’ingresso a cani o attori”. Io l’ho cambiato. Ho contribuito a cambiare questo posto che voi chiamate “casa”. Non mi sono mai illuso di niente, non ho mai finto di essere tuo amico. Ma questo è troppo». [riferito alla copertina del magazine con la sua immagine e dal titolo “Si è conclusa l’era di Jack Conrad?”]
Elinor: «Che cosa vuoi Jack?»
Jack: «Vorrei sapere perché lo hai scritto».
Elinor: «No, tu vuoi sapere perché il pubblico in sala ha riso davanti al tuo film. Non c’è un perché. Non è per via della tua voce, nessuna teoria cospiratrice. E non è per via di quel che ho scritto. Non c’è niente che tu avresti potuto fare o potresti fare diversamente. Il tuo tempo è scaduto».
Jack: «Tu tratti di gossip, non hai idea di che cosa voglia dire stare là fuori. Sei soltanto uno scarafaggio».
Elinor: «Se una casa va a fuoco, a sopravvivere sono soltanto gli scarafaggi. È successo che tu pensavi che questa casa avesse bisogno di te, quando in realtà non è così. […] Ci saranno milioni di altri Jack Conrad, centinaia di persone come me, di conversazioni come questa. È qualcosa di più grande di te. So che fa male, nessuno vorrebbe mai restare indietro».

Jack Conrad in un frame da Babylon in compagnia di Fay Zhu (Li Jun Li)

Babylon è un racconto che tenta in tutti i modi – e come può – una ricostruzione di un tempo lontano, incantato e quasi surreale. Un cosmo dalle infinite possibilità, in cui anche il più puro degli esseri umani ne viene plasmato e ineluttabilmente risucchiato.

La parabola di Manny, in questo senso, è la stessa di chi, come lui, ha creduto in un sogno americano. Di chi torna dov’è stato bene, seduto sulle poltrone di una sala cinematografica.

Tra le sequenze di Cantando Sotto la Pioggia (Gene Kelly, Stanley Donen, 1953), si riconosce, ravvisa ciò che una volta gli è appartenuto, ma che ora non gli appartiene più.

Chazelle chiude Babylon con la sua oramai firma: lo Chazelle Gaze (con cui si chiudono anche Whiplash, La La Land e First Man).

E, nonostante tutto, viene investito da quella che è la magia del cinema, una stupefacente miscela in cui immagini e suoni, nella memoria, si (con)fondono. Un’orgia di sequenze si amalgama nella memoria di Manny, in quella di Chazelle, in quella di noi spettatori, in un finale dal sapore metacinematografico, dolceamaro.

Leggi anche: La favola ai tempi dello Chazelle Gaze

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