Il cinema grottesco di Marco Ferreri – La grande abbuffata

Camilla Maggi

Marzo 9, 2023

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La grande abbuffata di Marco Ferreri, controverso e grottesco chef d'oeuvre del cinema italiano degli anni ’70.
I protagonisti de La grande abbuffata riuniti

“Siete grotteschi e disgustosi. Perché mangiate se non avete fame?“. Questa è l’improvvisa domanda che sembrerebbe rimanere sospesa senza risposta, proprio per mettere in luce la presenza del nulla. L’assenza del contenuto di senso che si cela dietro al “feticismo della merce”. Silenzio che sembra forzato proprio dall’eccesso, dall’esasperazione dei sensi e dei significati e la conseguente impossibilità di spiegare le cause di azioni che così appaiono folli e maniacali.

Il film in questione è La grande abbuffata di Marco Ferreri, capolavoro del cinema italiano degli anni ’70. Ricordato soprattutto per il suo contenuto “scandalizzante”, il film ha attirato l’attenzione sul regista e sugli attori piuttosto che sul contenuto della sua denuncia. Come lo stesso Ferreri dice in un’intervista fatta a passeggio tra le vie di Pesaro in occasione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema:

«Non ho capito come mai mi hanno chiamato provocatore. Può darsi che sono un provocatore perché sono sempre stato semplice e lineare. Ho messo sotto il microscopio l’uomo e la donna. […] Può essere che far vedere allo spettatore quello che è sia provocare».
-Marco Ferreri

La storia della prima proiezione nel 1973 è davvero esemplare. Il film, presentato al 26° Festival di Cannes, venne interpretato come una mera provocazione. La stampa francese lo definì degradante e suscitò lo sdegno del pubblico, tanto che il cast fu vittima di fischi, urla, sputi. Addirittura, pare che Ingrid Bergman, allora presidente della giuria, dovette allontanarsi in preda ad un malore gastrointestinale. Ferreri si mostrò soddisfatto dell’accaduto, e anzi in una successiva conferenza stampa intimò ai giornalisti di imparare a fischiare meglio.

La pellicola va storicamente collocata: siamo nell’Italia degli anni ’70, il cinema si rivolge ad un pubblico più politicamente consapevole, attento alle tematiche sociali. Anche per questo si sente l’esigenza di sottrarsi alle regole. I registi rivendicano con coraggio la proprietà intellettuale. Urge ribellarsi alla censura di una produzione che vuole promuovere un cinema frivolo da lieto fine, vuota comicità e rappresentazioni salottiere di un mondo tutto borghesia e perbenismo.

Si può dire che La grande abbuffata si collochi sulla soglia della commedia all’italiana. Dal filone sicuramente riprende alcuni temi: protagonisti disillusi, insoddisfatti anche se vivono nel benessere, ai quali rivolge uno sguardo critico. Quando uscì il suo Harem, nel 1967, Ferreri affermò che il film era stato girato contro il modo in cui era stato scritto, e montato contro il modo in cui era stato girato“.

La critica si mette in moto dall’interno. La grande abbuffata è un film che ha come principale scopo la contestazione senza censura del meccanismo capitalista. Meccanismo che consuma anche ciò che per astrattezza sembrava intoccabile; il desiderio, l’amore, le relazioni, l’individualità, al contempo consapevole del suo essere un prodotto. Un prodotto ormai scheletrico, ridotto all’osso dalle prime furiose ma superficiali contestazioni e dal successivo dibattito critico che ha finito per divorarne le carni.

I personaggi sono quattro amici: un giudice, un pilota d’aerei di linea, un regista televisivo e un cuoco. Essi decidono di compiere un suicidio collettivo divorando tutto il possibile. Sappiamo che sono amici, eppure per tutta la durata del film non ci sembrano altro che sconosciuti, gli uni agli altri e a loro stessi. Le connessioni emotive sono inesistenti, si parlano ma non si ascoltano. I dialoghi si rivelano quasi del tutto assenti e gli spazi lasciati da questa mancanza vengono subito riempiti da tutto ciò che li circonda. Gli interni della casa presentano un arredamento che segue l’horror vacui, mobili sfarzosi, colori sgargianti. Non c’è spazio per la noia e nell’unico momento in cui essa si presenta Marcello subito invita a cena tre prostitute. I quattro cercano costantemente distrazioni, non è concesso alcun tipo di riflessione.

La grande abbuffata di Marco Ferreri, controverso e grottesco chef d'oeuvre del cinema italiano degli anni ’70.
La grande abbuffata

Il tempo appare frenetico, scandito a ritmi di colazioni, pranzi, cene, intervallati solamente da sesso o a pagamento o con una maestra di scuola elementare che, dopo aver accompagnato i bambini in gita nel giardino della villa, viene invitata a cena. Una volta sottratti dalle responsabilità lavorative e sociali, anche le uniche attività a cui potrebbero dedicarsi diventano beni di consumo.

La passione di Ugo per la cucina, quella di Marcello per i motori, quella di Michel per il pianoforte e quella di Philippe per la fotografia diventano veri e propri meccanismi di morte. La cucina diventa ingozzamento animalesco, il nudo fotografico cessa di apparire artistico e diventa oggettificazione del corpo femminile. L’armonia del pianoforte viene coperta da flagranti flatulenze e Marcello verrà trovato morto congelato proprio sulla Bugatti che aveva appena riparato.

La tragicità de La grande abbuffata si cela dietro al fatto che sembra che essi siano, in fondo, consapevoli. Consapevoli chela nozione di casa è vuota se non c’è amore, come dichiarato all’inizio del film. I quattro si fanno inghiottire dall’edonismo perché sanno che la noia è troppo angosciante. Allo stesso tempo non sembrano fuggire dall’incubo della società dei consumi, piuttosto lo portano alle sue estreme conseguenze. Non a caso Buñuel definì il film “un monumento all’edonismo”. Viene da pensare che lo sdegno e l’irritazione del pubblico di Cannes e di tutti coloro che l’hanno visto dopo siano le reazioni di chi, in fondo, non era per niente pronto a guardarsi allo specchio.

Alle accuse contro la pellicola, definita un “pugno nello stomaco”, Ferreri rispose:

«Ma perché non dare pugni nello stomaco di cui abbiamo bisogno? Sembra che io stia lavorando in un mondo di angeli a cui poi do una sberla. Magari! Bisogna darne di più di pugni nello stomaco!».
-Marco Ferreri su La grande abbuffata

È più comodo fuggire dal cinema, soprattutto se questo colpisce i nervi scoperti della società. Torna subito in mente la domanda che Pasolini fece a Moravia: “Tu, Moravia, ti scandalizzi o no?” alla quale lo scrittore rispose ineccepibilmente:

No mai, potrei dire che mi scandalizza la stupidità ma poi non è vero neanche. […] La persona che si scandalizza è il personaggio che vede qualche cosa di diverso da se stesso e al tempo stesso di minaccioso per se stesso, minaccia la propria persona sia fisicamente sia nel senso dell’immagine che questa ha di se stessa. Lo scandalo, in fondo, è la paura di perdere la propria personalità, è una paura primitiva. […] La persona che si scandalizza è una persona profondamente incerta.”
-Alberto Moravia

È questa paura primitiva che ha attanagliato il pubblico di Cannes del ’73, il quale, in pieno boom economico, avrebbe voluto comprare anche la propria individualità. Fallendo in questa operazione, non restava che riconoscersi nella propria vuotezza. Questo film supera la criticità del rapporto tra individuo e società dei consumi, mettendo in scena l’ancor più complicato rapporto tra un individuo e sé stesso, i suoi vizi, le sue passioni, i suoi desideri, le sue paure.

Scena del film La grande abbuffata.
La grande abbuffata

E per portare a termine questo compito la rappresentazione non deve aver paura dello scandalo e deve piuttosto mostrare con coraggio tutto ciò che non vorremmo mai vedere. Deve mostrare quella cruda realtà che si cela dietro un prodotto finito; la carne nuda degli animali morti, i corpi congelati, la sporcizia, i tradimenti, lo sfruttamento. Anche i bambini non sono risparmiati e subito diventano prede, vittime inconsapevoli educate ad uccidere, mangiare, consumare, ma non a farsi domande.

Anche il montaggio, tra primi piani e soggettive, simboleggia un mondo che si disintegra sotto gli occhi dei protagonisti. I quattro amici non possono fare altro che assistere alla propria autodistruzione, mostrata nella sua intimità corporea frantumata. Primi tra tutti ad essere spezzati sono i corpi degli animali, subito dopo quelli delle donne. I personaggi femminili vengono prima divisi tra “donne” e “prostitute”. I loro corpi usati, oggettificati: “Il corpo di una donna è vanità” dice Ugo mentre tutti iniziano a lanciare pezzi di torta addosso ad una delle ospiti. Il consumo eccessivo di cibo si fonde al consumo del corpo femminile: come gli animali, anche le donne sono “pezzi di carne” pronti per essere mangiati, corpi senza vita, senza individualità, prodotti per essere consumati e gettati via.

Esiste un bellissimo documentario diretto da Mario Canale nel 2007 per omaggiare Ferreri e mostrare la sua personalità, definita “anticonformista”, che si intitola Marco Ferreri: il regista che venne dal futuro. Attraverso le interviste di molti degli attori e collaboratori che hanno lavorato con lui, viene descritto come un grande fotografo della contemporaneità, in grado di anticiparne gli sviluppi e le criticità. Impossibile dar loro torto. L’attualità del film è lampante, la società degli anni 2000 la si riconosce con facilità. Intervistato nel 1991 da un giovane Marzullo che lo incalzava chiedendogli se si riconoscesse come bohémien, Ferreri reagì con queste parole:

“Ma che vuol dire bohémien? Adesso sono tutti bohémien”
Fuggono da qualcosa?»
«No, vivono in un’altra cosa“.
(Marco Ferreri intervistato da Gigi Marzullo)

I personaggi de La grande abbuffata si crogiolano nel loro errare dicotomico: fuggono senza accorgersi – o forse sì – di essere fermi. Li vediamo prigionieri in questa immensa villa che rappresenta la società opulenta nella sua grandiosità claustrofobica. Li abbiamo visti muovere solo per avere rapporti sessuali e per mangiare fino al momento della morte, personaggio onnipresente che simboleggia l’unica vera via d’uscita. Nella scena in cui si rompe il bagno e Marcello viene ricoperto di escrementi, Ugo lo sa, così come lo sappiamo noi e il pubblico di Cannes del ’73: “L’odore di merda non ci lascerà mai”.

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