«This is America
Don’t catch you slippin’ now
Don’t catch you slippin’ now
Look what I’m whippin’ now»
(Donald Glover – This is America)
«1 Attacca, attacca, attacca
2 Nega tutto
3 Non ammettere mai la sconfitta»
Prima Roy Cohn – poi Donald Trump
Il male e il bene. Dove trovare il male e dove trovare il bene? Che il male e il bene siano connaturati? O magari distinzioni di classe? O ancora meglio differenze valoriali dettate da differenti contesti? È certo che l’individuazione del male e del bene diventa inevitabile e per certi versi vitale lì dove il conflitto sociale infuoca di più. Dove la disuguaglianza e l’iniquità sono inevitabili conseguenze della propria storica identità politica. In fondo la storia è lotta di classe, no?
Allora è proprio lì; nel cuore globale del capitalismo, di quel sistema che ha la sua linfa vitale proprio nelle disuguaglianze; nella terra dei sogni, dei self-made men, della fantomatica scalata sociale; nell’America statunitense che bene e male diventano concetti reali e vissuti. Sentimenti tanto arbitrari quanto inevitabili. Concetti che certamente non saranno verità assolute da cui, nietzschianamente, bisognerebbe andare al di là, ma che esistono, sono reali e che sicuramente sono una conseguenza dei propri valori e del proprio contesto.
Ma soprattutto, quando ne sentiamo la presenza, ci pongono di fronte ad una domanda: da che parte stai?
Ecco The Apprentice (2024) sia in sé stesso che nel momento storico nel quale è uscito ci pone dirimpetto a questa domanda. A cui però il film dà una risposta. Il film sa da che parte stare e partendo da questo presupposto costruisce la storia del suo nemico. Un nemico biforme: da una parte il nemico umano, singolo, individuo che è Trump; dall’altra parte il sistema che genera questi mostri, ovvero il capitalismo.
E c’è un contesto in The Apprentice che possiede anch’esso una duplice veste: da una parte c’è l’America statunitense con la storia e i valori che hanno dato forma a ciò che caratterizza il suo sistema economico, politico e sociale, come l’arrivismo, la corruzione, il mito del sogno, l’avidità, la corsa all’oro; dall’altra parte c’è uno sguardo esterno all’America, lo sguardo di un regista iraniano, Ali Abbasi, che esprime i suoi valori per rappresentare esteticamente tanto l’America quanto Trump. Un regista che conosce il conflitto sociale, che l’ha raccontato in forme violente e terrificanti (Holy spider – 2021), ma che è sempre stato cosciente delle genealogia dei mostri, di ciò che ci spinge a percepire qualcuno come mostruoso per via dei valori che orientano il nostro bene e il nostro male (Border – 2018).
Qui non c’è la contemplazione sorrentiniana de Il divo che seppur evidentemente consapevole della mostruosità della figura di Andreotti, ne trovava una dimensione di fascinazione. C’è anhce di più, come di meno, della meravigliosa anatomia americana che Adam McKay svolge in Vice attraverso la figura di Dick Cheney.
In The Apprentice c’è tanto l’America che noi tutti conosciamo, con tutte le sue storture e contraddizioni, incarnata nella figura di Roy Cohn, quanto una inedita atmosfera di mostruosità ed inquietudine che sentiamo sempre ma che difficilmente vediamo con così tanta evidenza, incarnata in Trump. C’è la genealogia di un mostro che, in quanto figlio d’America e del suo capitalismo, non può che essere un mostro malvagio. L’esistenza del male.
Eppure quest’opera senza infamia ne lode, ma importante ed intelligente, sta subendo un’ingiusta censura su tutti i fronti e proprio nel paese in cui doveva “agire”. Nessuno sta vedendo The apprentice in America. I pro-Trump, spinti dall’enorme campagna di censura che Trump sta portando avanti contro questo film (che stranamente non è stato distribuito da nessuna delle grandi major), lo considerano uno scempio e non lo guardano; gli anti-Trump, spinti dall’idea che che proprio prima delle elezioni ne possa uscire un’immagine mitizzata, non lo guardano neppure. La domanda da porsi però non deve essere “che pubblico ha questo film?”, ma piuttosto cosa ci insegna dell’America e degli americani?
Chi scrive non sa ancora il risultato delle prossime elezioni americane, anche se questo articolo uscirà dopo il verdetto. The Apprentice esce proprio a ridosso delle elezioni. Ma nonostante questa operazione di marketing e relativa influenza in vista delle elezioni, il film va considerato nella sua organicità e complessità. Perché nonostante possa sembrare un film d’assalto, un’opera pensata in poco tempo proprio per raggiungere l’obbiettivo dell’uscita in sala pre-elezioni, The Apprentice racconta molto di più.
Trump sorride. All’ennesimo tentativo del padre di sminuire i suoi successi, pure il giorno dell’inaugurazione della sua più grande forma di glorificazione, la “Trump Tower”, Trump sorride. La camera a mano, d’estetica televisiva, onnipresente in tutto il film, segue il suo sorriso. Si avvicina con movimenti e zoom. Trump sorridere e continuerà a sorridere. Dopo aver stuprato sua moglie; dopo essersi sentito colpevole del suicidio del fratello; dopo la morte per aids del suo mentore Roy Cohn. Un sorriso malevolo più che malefico. Il sorriso di chi sa di averla fatta franca e non aver semplicemente vinto, ma essere riuscito a raccontare a tutti la sua vittoria.
È da quel sorriso in risposta all’ennesimo critica del padre che The Apprentice cambia il tiro. Dall’America si passa a Trump. Dalla genesi si passa al compimento. Dall’embrione al mostro. Trump è l’inevitabile conseguenza del contesto nel quale si è formato. Della società che lo ha plasmato. Gabriel Sherman (sceneggiatore) sa quali mostri forma il capitalismo americano. Ali Abbasi sa cosa pensa di quei mostri. Il film sa da che parte stare, cosa è bene e cosa è male.
Così rimaniamo noi spettatori, con i nostri valori e i nostri contesi che, volenti o nolenti, guarderemo The apprentice e non potremo che disubbidire all’imperativo nietzschiano finendo per decidere, fortunatamente, da che parte stare.