«Questo respiro non puoi più dimenticarlo» afferma Sara, la compagna di accademia di Suzy Bannion in Suspiria, classico del cinema Horror diretto da Dario Argento.
Fiumi di sangue scorrono sotto la spinta travolgente dell’Eros. Soggettive di corpi perversamente mutilati, assassini senza scrupoli, pupille dilatate e intrise di macabro piacere e, infine, una lunga serie di abominevoli volti rifratti su superfici specchianti. Il tutto contornato da un uso esasperato/esasperante del rallenti.
«Perché forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi la passione».
(Apuleio, La favola di Amore e Psiche)
La congiura del silenzio di Dario Argento
Il cinema di Dario Argento nasce e cresce in un contesto culturale che è quello dell’Italia degli anni Settanta. A quel tempo riferimenti o dibattiti rivolti a questioni come orientamento sessuale, identità e/o espressione di genere non venivano discussi. Né a scuola né in famiglia o, tantomeno, sui giornali e in televisione.
Nonostante l’aumento di manifestazioni da parte di attivisti militanti, pronti a scendere in piazza per la difesa della dignità e dei loro diritti, e la nascita di FUORI! nel 1971, il primo movimento di liberazione omosessuale, l’Italia non sembra ancora pronta a un cambiamento. Un fatto dovuto, sicuramente, anche alla forte matrice cattolica conservatrice e colpevolizzante presente nella penisola, tanto più all’epoca.

Il medium del cinema, chiamando in causa temi come il divorzio, la famiglia e il libero amore, svolse un ruolo cruciale nell’avvio di quel processo di coscientizzazione popolare proprio per via della sua facile modalità di fruizione.
Nascono, ad esempio, i generi della commedia erotica e del documentario-inchiesta, primo tra questi Comizi d’amore (1965). Si tratta di film o documentari, appunto, che rappresentano questioni di genere e sessualità con un registro più libero e disinvolto, utilizzando spesso la sferzante arma dell’ironia. Una pubblica messa a nudo di quell’ipocrisia bieca e moralista, indissolubilmente inculcata nella sfera privata dell’amore.
Tutti questi processi confluiscono in quella complessiva «trasformazione dell’intimità» di cui scrive il sociologo Anthony Giddens. Ecco che, allora, il cinema diviene discorso sul mondo.
«L’emersione pubblica del privato ha fatto sì che ambiti prima regolamentati a livello personale e individuale, diventassero di pertinenza sociale e oggetto di negoziazione collettiva».
(Anthony Giddens)
La carne colpevole
Dario Argento compie, così, una scelta apertamente controcorrente, decidendo di mettere in scena personaggi dichiaratamente omosessuali, seppur con un certo grado di tolleranza. Si veda l’antiquario de L’uccello dalle piume di cristallo, il professor Brown, il suo amante e l’ex di quest’ultimo ne Il gatto a nove code, nonché l’ispettore Arrosio di 4 mosche di velluto grigio, il maggiordomo Leopoldo Mastelloni in Inferno, le due lesbiche in Tenebre e via dicendo…
Tuttavia, ci troviamo in una fase in cui l’elemento omosessuale è ancora inteso come stratagemma volto a innescare un discorso sul desiderio e sulle sue remore culturali. Un elemento decorativo sfruttato dal giallo per caricare l’aspetto drammatico e tensivo.
Sappiamo quanto Dario Argento debba al cinema di Hitchcock: il cineasta romano passa dalla ripresa di simbolismi e icone, questa circoscritta casistica di tipi e di macchiette adatte al mistery psicopatologico, fino ad approdare alla dedica di omaggi diretti (Ti piace Hitchcock? del 2005).
L’instabilità psichica, associata all’omosessualità da una letteratura tanto vasta quanto priva di rigore scientifico, viene così sintetizzata nell’influente modello del personaggio di Norman Bates (Psycho, 1960). Ciononostante quest’ultimo apre spazi di eversione dalle comuni logiche narrative, nonché dal consolidato binarismo di gender che influisce sulle dinamiche di identificazione che regolano il rapporto tra spettatori e personaggi.
Morte viventi in Dario Argento
Necessario, a questo punto, un ripensamento della figura femminile che, nel genere thrilling aveva spesso ricoperto il ruolo di vittima sacrificale, deturpata dalle acuminate armi di un assassino senza scrupoli.
Nel cinema di Argento i personaggi femminili assumono tanto le vesti di eroine perseguitate (e spesso uccise) quanto di assassine. Da un lato la donna salvatrice, dall’altro l’essere demoniaco, concezione che affonda le sue radici nella mitologia occidentale prima pagana e poi cristiana.

In Suspiria e Inferno le donne che uccidono hanno malefici poteri soprannaturali. In 4 mosche di velluto grigio è il rancore verso gli uomini che le porta a colpire. Sono invece i traumi infantili e di altro genere che guidano mani assassine in Profondo Rosso, Phenomena, Trauma e La sindrome di Stendhal.
Si veda la costruzione drammaturgica de L’uccello dalle piume di cristallo, esordio registico, in cui Monica Ranieri è allo stesso tempo vittima e artefice del misfatto. Un ulteriore ribaltamento, questo, se si pensa al colpevole di Profondo Rosso, Marta, la madre-assassina di Carlo ingiustamente sospettato del delitto. Sono incarnazioni di madri castratrici e autoritarie pronte a castigare i trasgressori di qualche regola.
La paura per l’emancipazione si trasforma nella mostrificazione del femminile, di una donna che abdica dal ruolo di madre e di angelo del focolare per diventare portatrice di morte.
Dario Argento e la fenomenologia del piacere omicida
Nei film del cineasta romano l’omicidio assume i tratti di un perverso atto d’amore, in cui la morte rappresenta l’estrema congiunzione tra il carnefice e la sua vittima, in una esplicita sublimazione del rapporto sessuale vero e proprio. Una sorta di disposizione, la sua, a orientarsi fra le sensazioni più oscure ed estreme.
Dario Argento, scegliendo volontariamente di esiliarsi dal mondo della logica e del senso comune, costruisce storie di passioni viscerali, dove alla colpa corrisponde sempre una macabra punizione da dover scontare.

Fra virtù oppressa e vizio trionfante
I killer argentiani, rigorosamente con guanti neri (caratteristica ereditata dal suo maestro, Mario Bava), sognano spesso il delitto universale e totalizzante. Riprendendo le parole della Clairwil sadiana, un delitto «il cui effetto perpetuo agisca anche quando io non agirò più, in modo che non vi sia un solo istante della mia vita in cui, anche dormendo, io non sia causa di un qualsiasi disordine».
«In ognuno di noi vive una bestia frenata solo da ciò in cui ci hanno insegnato a credere, il bene e il male. Quando dimentichiamo questi insegnamenti la bestia che è in noi si scatena in tutta la sua furia», scrive Zola ne La Bête humaine.
Allo stesso modo, anche i colpevoli nei film di Dario Argento, fanno parte di quell’umanità oppressa da un destino votato alla pazzia.
Egli costruisce personaggi dalla psiche fragile, esseri apparentemente innocui che uccidono per sfuggire da questa condizione, al fine di ristabilire un’illusoria normalità.
Peter Neal: «L’impulso era diventato irresistibile. C’era una sola risposta alla furia che lo torturava. E così commise il suo primo assassinio. […] Aveva infranto il più profondo tabù e non si sentiva colpevole né provava ansia o paura, ma libertà. […] Ogni ostacolo umano, ogni umiliazione che gli sbarrava la strada, poteva essere spazzato via da questo semplice atto di annientamento: l’OMICIDIO».
(Tenebre, 1982)
Del resto, la paura è una sensazione non così distante dal piacere. Entrambe condividono, infatti, un senso di euforia totalizzante e privo di razionalità. Le emozioni arrivano a controllarci più di quanto noi non controlliamo loro. Da qui nascono l’orrore, la paura, l’angoscia. E il Maestro del Brivido lo sa bene.
Il cinema di Dario Argento si colloca all’interno di un perfetto equilibrio alchemico, dove la voluttà libidica si mescola alla spinta isterica di panico e delirio, generando commistioni uniche nel genere horror.
Questa personale concezione della sessualità nella morte (e viceversa), assume molteplici declinazioni a seconda dei diversi film. A volte risulta qualcosa di velatamente sott’inteso, un elemento morbosamente allegorico e dissimulato nelle trame del racconto (4 mosche di velluto grigio, Profondo rosso, Trauma). Talora, invece, si esprime in maniera chiara e lampante, tanto da diventare uno dei motori della storia (Tenebre, Opera, La sindrome di Stendhal). In certi casi rimane, altresì, nascosto e rintracciabile soltanto grazie a un’analisi più trasversale (Suspiria, Inferno, Il gatto nero).

Il freddo e il crudele di Dario Argento
«Colui che nel rapporto sessuale trae piacere a infliggere dolore, è capace anche di godere del dolore risentito. Il sadico è sempre nello stesso tempo masochista, senza che ciò impedisca che l’aspetto
attivo o passivo della perversione possa predominare l’attività sessuale prevalente», afferma Freud in Tre saggi sulla teoria della sessualità.
Altra scuola di pensiero quella di Gilles Deleuze che afferma: «il dolore del sadismo e del masochismo rappresenta la desessualizzazione che rende autonoma la ripetizione: si desessualizza Eros, lo si mortifica, per meglio risessualizzare Thanatos. Nel sadismo e nel masochismo il rapporto con il dolore è soltanto un effetto». L’Io narcisistico, dunque, si risessualizza a patto che si desessualizzi l’Io ideale, metro di misura del Sé.
Sadismo e masochismo, trasgressione e moralismo, coabitano creando reazioni psicopatiche soggiogate da un complesso di colpa originario.

Perdere la vita è come perdere la verginità
«C’è un qualcosa che lega i due atti, cioè l’atto amoroso e l’atto sanguinario. Il coltello, ad esempio, è un simbolo fallico. Quindi c’è un avvicinamento nei due orgasmi: l’orgasmo della morte e l’orgasmo sessuale», afferma il cineasta romano.
Un tipo di orgasmo estatico, definito Übersinnlich (termine coniato da Sacher-Masoch, nel famoso romanzo erotico Venere in pelliccia) in quanto capace di catturare la mente e portarla verso esperienze sovrasensibili, un piacere assoluto e sospeso simile allo stato di trance.
Il masochismo tipico dei film dell’orrore (sentirsi martoriare e uccidere) si carica, quindi, di sfumature sadiche (ammazzare, colpire in prima persona). Tutto ciò grazie all’uso di truculente soggettive da parte del boia.
L’uso della camera-coltello spiega la posizione dello spettatore. Il pubblico, da semplice voyeur, diventa complice del crimine, le sue pulsioni di morte vengono sublimate nel rituale dell’omicidio, ritrovando catarsi e liberazione dalla colpa.
L’unico plausibile colpevole nei film di Dario Argento, al di là del killer di cui non viene mai (volutamente) mostrato il volto, siamo proprio noi spettatori, o meglio, i nostri occhi. Un mondo dove l’idea della lama e dello sguardo diventano simboli dell’impotenza e della punizione-penetrazione.

Dario Argento è l’artista che ha preso le proprie fobie e ossessioni e le ha trasposte nel cinema: «in realtà proietto sullo schermo le mie paure, le ossessioni che spesso hanno popolato le mie notti e le esorcizzo anche con una robusta dose di ironia» spiega il maestro stesso, che firma le sue pellicole con un cameo particolare, «amo mettermi nei panni dei miei mostri e per questo le mani dell’assassino sono sempre le mie, da un film all’altro».
E come scriveva Virginia Woolf: «È sempre un gran piacere provare paura quando non si corrono rischi».




