Mario Bava – La maschera del demonio e l’horror gotico

Gabriele Plutino

Dicembre 9, 2021

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XVII secolo, Moldavia: la principessa Asa viene condannata a morte. Due secoli dopo, una coppia di scienziati russi in viaggio la riportano accidentalmente in vita; ella inizia a compiere, così, una serie di orribili delitti.

La maschera del demonio, primo lungometraggio di Mario Bava, nasce da un soggetto scritto da lui stesso nel 1959, il "Vij".
La locandina

La maschera del demonio, primo lungometraggio di Mario Bava, nasce da un soggetto scritto da lui stesso nel 1959, Il Vij, tratto a sua volta dall’omonimo racconto lungo del 1835 di Nikolaj Gogol.

Nella trasposizione filmica del regista sanremese però, rispetto al soggetto originale, vi è la sostanziale differenza del contesto spazio-temporale. Se il testo di Gogol era, infatti, ambientato nella Russia dell’800, il film di Bava inizia e si conclude in epoca contemporanea. Questa scelta derivò molto probabilmente dal fatto che, per lo spettatore, un’opera in costume ambientata in uno scenario “moderno” potesse risultare più appetibile (si pensi al successo di Dracula il vampiro di Terence Fisher, 1958).

Fu il titolo cardine del cosiddetto horror gotico italiano, filone che iniziò a prendere piede verso la metà degli anni Cinquanta grazie a registi come Riccardo Freda (I Vampiri, 1957, di cui lo stesso Mario Bava curava la fotografia), Stefano Vanzina (Tempi duri per i vampiri, 1959) e Renato Polselli (L’amante del Vampiro, 1960). Castelli, costumi ottocenteschi e creature soprannaturali erano elementi ormai pronti a entrare nell’immaginario cinematografico nostrano.

I Vampiri, di Riccardo Freda

Il doppio e la sessualità

Il romanzo di Gogol è stato fondamentale sia per lo sviluppo di un genere riconoscibile come l’horror americano che per il modo in cui ha elaborato il tema della duplicità riguardante l’orrore e l’attrazione erotica, paura e desiderio, fascinazione e repulsione.

Bava, nel suo film, raccoglie questa caratteristica e riesce addirittura a potenziarla, facendo interpretare due personaggi (la strega Asa e l’innocente Katia) da una stessa attrice (Barbara Steele) e rendendone incerta, in determinate sequenze, l’identificazione. Quando essa compare tra le rovine della chiesa con gli alani al guinzaglio, infatti, nulla segnala che si tratti dell’innocua Katia anziché di Asa, che abbiamo visto poco prima sul rogo.

Lavorando quindi sui caratteristici lineamenti dell’attrice inglese, egli costruisce un modello di bellezza il cui fascino è commisurato alla sua potenziale minaccia.

Barbara Steele, doppia interprete all’interno de “La maschera del demonio”
Il bacio di Chomà

La rappresentazione del fantastico nel cinema di Mario Bava

Come evidenziato nell’articolo su Sei donne per l’assassino, nel cinema di Bava l’immaginario e il reale si affiancano per poi compenetrarsi. Ne La maschera del demonio la rappresentazione del fantastico vive di un’interessante duplicità, che ha a che fare sia con la struttura dell’illuminazione sia con l’utilizzo insistito del piano sequenza (una costante nel cinema baviano).

Come nota Alberto Pezzotta, Katia fa la sua prima comparsa in una luce crepuscolare che sembra esistere solo all’interno delle rovine, e che contrasta vistosamente con quella, più chiara, che illumina il paesaggio circostante:«come se potesse essere giorno e notte contemporaneamente».

Analizzando movimenti di camera, come quello relativo alla giovane ragazza che esce dalla locanda o i piani sequenza in cui lo stregone Javutich si avvicina allo spettatore, si può individuare una grammatica cinematografica classica, ma in altri casi ci si trova dinnanzi a delle soluzioni tutt’altro che semplici. L’ambiguità del film si evince, quindi, soprattutto a partire dai meccanismi della messa in scena.

L’avvicinamento di Javutich e il piano sequenza sulla ragazzina

In alcuni casi la mancanza di stacchi serve per creare la suspense, come quando la ragazzina esce dalla locanda e si avventura nel bosco, la macchina da presa la precede e ne accompagna il cammino. Altre volte il piano sequenza conferisce evidenza realistica a un evento fantastico: come quando Javutich sembra scivolare innaturalmente verso lo spettatore.

Riguardo quest’ultimo punto, nel suo Il rosso segno dell’illusione, Guglielmo Siniscalchi riflette sulla poetique des object di Mario Bava, scrivendo che il profilmico ideale del regista è l’oggetto di scena, più che l’attore. Il cinema di Bava non si fa necessariamente carico dei corpi e della carne per delinearsi poeticamente, tanto che, come dimostra appunto Siniscalchi, questa stessa poetica risulta prevalentemente degli oggetti piuttosto che dei caratteri umani; il suo cinema funziona anche senza i corpi, grazie a uno sguardo ambiguo e mai lineare.

Ciò che risulta di grande interesse, poi, è anche il modo in cui Bava tematizza “l’invisibile” (ciò che sembra essere presente ma che non può essere percepito); allora, oltre alla sequenza nella quale la macchina da presa tallona misteriosamente la giovane ragazza uscita dalla locanda, vediamo a un certo punto l’entrata di Javutich nel salone del castello, con un carrello laterale che mostra gli esiti del suo passaggio.

L’ingresso “invisibile” di Javutich nel castello

Quando Javutich entra nel salone del castello, vediamo solo l’effetto del suo passaggio: mentre la macchina da presa esegue un carrello verso destra, il vento alza le tende delle finestre e fa precipitare a terra un’armatura.

Anche lo zoom riveste un ruolo cardine nella rappresentazione del fantastico all’interno del suo cinema. Tuttavia, se in questo film ha delle chiare funzioni drammaturgiche, nei film successivi il suo utilizzo diventerà (tranne che nel particolarissimo caso di Cani Arrabbiati) fine a sé stesso e sadico (rimando, a tal proposito, all’analisi di Sei donne per l’assassino).

Un esempio lampante di utilizzo dello zoom ne “La maschera del demonio”

Le funzioni drammaturgiche del carrello ottico sono chiare: evidenziare l’irruzione dell’orrore, rendere fulminea e perentoria l’azione. Si veda lo zoom in avanti che sottolinea l’apparizione di Javutich nella stanza di Vajda e quello, all’indietro, sulla croce

Mario Bava e la manifestazione concreta dell’orrido

La maschera del demonio infrange quelli che erano i paradigmi di ciò che poteva essere visivamente mostrato all’epoca, esibendo il male e l’orrore con grande consistenza fisica e ostentando con fierezza un estetismo spettrale e lugubre, caratterizzato anche da tendenze necrofile. Gran parte di questa rappresentazione ha come fulcro gli effetti speciali.

la maschera del demonio
La condanna di Asa

È attraverso di essi che Bava modella il macabro: sono strumenti in grado di dare concretezza (e quindi formare visivamente) l’abominio corporeo.

La maschera del demonio trasgredisce vistosamente i canoni del visibile dell’epoca, rappresentando il fantastico e l’orrore con la massima concretezza corporea unita a un compiaciuto estetismo macabro. Così, il volto, elemento centrale dell’individuo in quanto essere (anche) estetico, subisce nel film continue trasformazioni.

la maschera del demonio
Il volto semiputrefatto di Asa nella tomba
la maschera del demonio
La morte del padre padrone

La maschera del demonio è il film attraverso il quale Mario Bava ha dato sfogo a tutte le sue possibilità visionarie. Un regista dalla vocazione spiccatamente formale che qui, nel suo primo lavoro, trova un equilibrio quasi classico che mancherà a molte delle sue opere successive. Nonostante questo, però, continua a risultare un testo tanto singolare e segregato in una nicchia avulsa dalla storia quanto paradigmatico di un intero modo di concepire il cinema.

Leggi anche: Mario Bava – Cani arrabbiati e l’elevazione del terrore

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