Ci sono tantissime caratteristiche che rendono Psycho uno dei film più intelligenti, più arditi e affascinanti mai realizzati. A partire dal periodo storico in cui fu girato: il 1959. Hitchcock era reduce da una delusione e un trionfo. Vertigo, uscito nelle sale nel 1958, fu per l’autore un importante successo individuale, dal momento che fu da lui reputato uno dei suoi capolavori. Critica e pubblico non la pensarono così, e il film venne quindi stroncato per poi iniziare un processo di riabilitazione che lo porterà a essere considerato, giustamente, tra i più grandi capolavori della Settima Arte. Al contrario, il successivo North by Northwest (Intrigo Internazionale, 1959) stava vivendo un successo clamoroso. Il film ricevette un plauso per il soggetto, la regia, la messa in scena e le interpretazioni dei protagonisti.
È in questo contesto che Hitchcock, totalmente controtendenza, decide di realizzare un horror a basso budget, in bianco e nero, su un romanzo controverso uscito qualche mese prima ispirato a un famoso serial killer dell’epoca.

Il Maestro della suspence non voleva tanto misurare le proprie abilità registiche, ma sembrava più voler esplorare un genere.
Infatti, alla fine degli anni ’50, si affacciavano sulla scena una serie di pellicole di cinema arthouse e di exploitation dal buon successo ma, chiaramente, a basso budget. Difficilmente un grandissimo nome del panorama mondiale si sarebbe misurato con questa novità, nonostante potesse essere una sfida interessante. Figuriamoci uno come Hitchcock, reduce da decenni di successi mondiali, un autore che dopo più di trentacinque anni di carriera aveva poco o nulla da dimostrare, essendo già una leggenda vivente.
Ma Hitchcock è questo: un regista ambizioso, tecnico, particolarmente a suo agio coi propri mezzi. L’idea di Psycho, inizialmente, lasciò tiepidi i produttori e i distributori, mentre il regista ne andava pazzo. Dopo il successo di North by Northwest, Hitchcock avrebbe potuto chiedere qualsiasi budget per i suoi progetti, e invece si trovava a misurarsi con qualcosa di ignoto e di difficile lettura per tutti.
Così, arriviamo al secondo aspetto: il budget. Psycho venne a costare circa 800.000 dollari, una cifra bassa anche per l’epoca.
Per intenderci, Vertigo costò due milioni e mezzo di dollari, Intrigo Internazionale addirittura quattro milioni e mezzo. Perché mai, in una fase della carriera in cui Hitchock era un vero e proprio Maestro, doveva impelagarsi in un horror in bianco e nero e a basso costo, realizzato con la troupe che utilizzava per gli episodi della sua saga televisiva? Più che un film ben studiato inizialmente il progetto sembrò più un azzardo, quasi una sfida alla macchina produttiva hollywoodiana del tempo. Ed è proprio sui binari della sfida che viaggeranno le nostre considerazioni su Psycho.

«[…] lo script è scandito dall’evidente piacere nell’infilzare tutte le vacche sacre dell’America: verginità, pulizia, privacy, mascolinità, sesso, amore materno, matrimonio, fiducia nelle pillole, santità della famiglia e… il bagno».
(Rebello, 1990, p. 85)₁
Psycho è un film che, sotto la sua forma intrigante e il suo andamento magnetico, cela una sequela di provocazioni alla società a sé contemporanea e alla struttura mitologica di cui, in quell’epoca, il cinema era ancora rivestito. La forma che l’autore decide di dare alla sua opera, allora, è quella con cui spesso il cinema ha scardinato i preconcetti sociali: quella dell’horror. Anche se, lo vedremo più avanti, Psycho è invero un film sui generis.
L’opera è intrisa di piccoli capovolgimenti che la rendono una creatura unica: basta ripercorrerne gli eventi perché questo sia chiaro.
Marion è una donna più che trentenne non sposata e con una relazione segreta con un uomo di nome Sam. Segretaria annoiata di un’agenzia immobiliare, un giorno riceve una busta da 40.000 dollari da versare in banca, frutto di una trattativa portata a buon fine dalla sua filiale. Marion, però, decide di scappare con i soldi per dare una svolta alla sua vita.
La fuga della protagonista è lunga e complicata. Dopo aver cambiato auto e aver tenuto a bada un poliziotto troppo curioso, Marion approda al Bates Motel, sotto una pioggia torrenziale che sembra preannunciare l’acqua della doccia. Il motel è una struttura piccola e poco frequentata. Qui, dopo aver maturato la scelta di tornare a Phoenix per rendere i soldi, la protagonista viene uccisa in doccia, in una delle più celebri sequenze che il cinema abbia mai conosciuto.
L’assassinio avviene (apparentemente) per mano dalla madre di Norman Bates (l’iconico Anthony Perkins), unico impiegato dell’hotel. Come sappiamo, si scoprirà che l’omicidio è opera dello stesso Norman, che a tempi alterni incarna sé stesso e la defunta madre.

È innanzitutto chiaro come Psycho giochi su due degli espedienti più cari a Hitchcock: il MacGuffin e il plot twist.
Il Maestro conduce lo spettatore verso una strada, ma la soluzione è sempre puntualmente dall’altra, nonostante l’audience abbia spesso l’interezza degli eventi sotto i propri occhi. D’altronde, la suspence si basa su ciò che il pubblico sa, non su quello che non sa.
Questi capovolgimenti narrativi, come i 40.000 dollari che si scoprono in realtà irrilevanti, o la madre di Norman che in verità è Norman, sono solo la superficie di un film che, come abbiamo detto, nasce già controtendenza fin dalle basi della sua realizzazione.
Con Psycho, Hitchcock rivede il rapporto tra l’americano e il suo vicino di casa, tra lo spettatore e la protagonista, tra la sessualità e la sua percezione nel senso comune. Innanzitutto, Marion Crane è un’antieroina con un arco narrativo peculiare, soprattutto per il cinema dell’epoca. La scelta di un’attrice nota (Janet Leigh) che la interpretasse è stata una precisa richiesta di Hitchcock: nessuno si sarebbe mai aspettato la morte della protagonista – peraltro interpretata da una star – a metà film, pensava il Maestro. Parliamo di un personaggio femminile peculiare: è una donna non sposata, tendenzialmente solitaria, con una relazione nascosta e che si rende protagonista di un grosso furto.
Ecco perché, di fatto, Psycho è un film sui generis. Parte come noir, perché seguiamo le azioni criminali di Marion, vira sull’horror, per poi sistemarsi su percorsi propri del giallo e del mystery.

Nel suo più profondo fulcro tematico, Psycho disarciona lo spettatore su alcuni temi particolarmente pruriginosi in quell’epoca. Prendiamo come esempio una scena apparentemente inutile.
«e… il bagno», scriveva non a caso Rebello nella citazione sopra. Il riferimento non è solo alla celebre sequenza della doccia. Arrivata al Bates Motel, Marion scrive su un foglietto il conteggio dei soldi spesi per arrivare fin lì. Per liberarsene Crane lo riduce in piccoli pezzi per poi buttarlo nel wc e tira lo sciacquone. Quella fu la prima volta che nel cinema si faceva vedere e sentire lo scarico di un gabinetto in funzione. Per quanto marginale, questa scena serve a capire con quale mentalità Hitchcock e il suo sceneggiatore Joseph Stefano avevano affrontato la stesura di Psycho. Volevano che il pubblico si misurasse con una tale prosaicità. Non a caso, entrambi tenevano parecchio a questa breve inquadratura.
Perciò, una lettura dell’opera con i mezzi del Queer Cinema e della Feminist Film Theory è a oggi ancor più sorprendente.
Marion è una protagonista totalmente nel controllo delle sue azioni, ha una soggettività pienamente costruita: prende delle scelte e attua dei comportamenti che all’epoca erano quasi sempre a uso esclusivo dei protagonisti maschili.
Norman sembra mostrare dei velati atteggiamenti stereotipicamente omosessuali, e di certo non ha comportamenti associabili a quelli di un killer. In più, Marion non viene esattamente uccisa dall’efferata mano di un uomo, bensì da quella di una donna. Lo spiega molto bene, nelle battute finali del film, il dottor Richmond, che ha preso in carico il caso Bates.
Dr. Richmond: «[Norman] iniziò a pensare e parlare per lei, a darle metà della sua vita, per così dire. A volte, poteva essere entrambe le personalità, portare avanti conversazioni. Altre volte, la metà madre ha preso completamente il sopravvento. Ora non era mai stato completamente Norman, ma spesso era solo sua madre. E poiché era così patologicamente geloso di lei, pensava che fosse gelosa di lui. Pertanto, se avesse sentito una forte attrazione per qualsiasi altra donna, il suo lato materno si sarebbe scatenato. [si rivolge a Lila] Quando ha conosciuto tua sorella, ne è rimasto commosso, era eccitato da lei. La voleva. Ciò fece esplodere la “madre gelosa” e con la “madre” uccisero la ragazza. Ora, dopo l’omicidio, Norman tornò come da un sonno profondo e, come un figlio obbediente, coprì ogni traccia del crimine che era convinto di aver commesso sua madre.»
Procuratore distrettuale: «È un travestito!»
Dr. Richmond: «Non esattamente. Un uomo che si veste in abiti da donna per ricercare carica e piacere sessuale è un travestito. Ma nel caso di Norman, stava semplicemente facendo tutto il possibile per tenere accesa l’illusione che la madre fosse ancora viva. E quando la realtà si avvicinava troppo, quando il pericolo o il desiderio minacciavano quell’illusione, si travestiva, anche con una parrucca trovata a quattro soldi. Camminava per la casa, si sedeva sulla sua sedia, parlava con la sua voce. Ha cercato di essere sua madre. E ora lo è. Ecco cosa intendevo quando ho detto che ho ascoltato la storia dalla madre. Vedi, quando la mente ospita due personalità, c’è sempre un conflitto, una battaglia. Nel caso di Norman, la battaglia è finita. E la personalità dominante ha vinto.»

In questo passaggio, in modo sgangherato e quasi grottesco, Hitchcock sembra tracciare una linea netta tra travestitismo e transessualità in una maniera prettamente progressista – seppur tramite una narrazione patologizzante inevitabile per quell’epoca.
Norman viene compreso, non condannato. Nel finale, Bates sorride mentre guarda la macchina da presa, interpella direttamente il pubblico per condividere con esso un’espressione di soddisfazione, quasi di rivalsa, che tiene lo spettatore sospeso tra la paura e l’intrigo, in quel territorio liminale in cui Hitchcock si è saputo muovere meglio di qualunque altro autore della storia del Cinema. Il viso si fonde con il teschio, Norman è anche sua madre. Forse, ormai, è solamente sua madre.
Così, a sessant’anni, dopo una vita dietro la cinepresa, il Maestro del brivido ha girato un film che nuotava controcorrente dal suo concepimento fino agli ultimi dialoghi. Pungolando, sì, le “vacche sacre” dell’America a lui contemporanea, ma con la stessa attitudine di quando, un anno prima, girò North by Northwest e di quando, tre anni dopo, avrebbe diretto Gli Uccelli.
L’approccio che Hitchcock ha tenuto per Psycho, quindi, è sempre innanzitutto votato alla tecnica. Per lui non c’è stato problema fin dal principio a concepire una protagonista criminale che ruba agli uomini e muore a metà del film. E neppure nel pensare al complesso edipico in termini così radicali, tanto da raccontare di un figlio che assassina la madre e l’amante ma, spaesato dalla mancanza di lei, fa esperienza di una sorta di transessualità. Transessualità che, peraltro, il regista si è ben curato di distinguere dal travestitismo, un atto già di per sé rivoluzionario alla fine degli anni Cinquanta. Hitchcock intravede le potenzialità di un soggetto simile e lo mette in scena con la sua elegante precisione, con la giusta sensibilità che la vicenda merita, ma ancor di più, con lo sguardo rivolto verso l’Arte.
Insomma, in questa sede non ci troviamo tanto di fronte a una rilettura di Psycho in chiave Queer e Femminista, ma a una sua lettura indispensabile. Sembra piuttosto che il film sia stato girato prima che queste splendide teorie vedessero la luce, e che gli oggetti teorici per poterlo analizzare a tutto tondo dovessero ancora essere inventati.