Doctor Who – Il Giorno del Dottore: empatia come (auto)coscienza dell’altro

Giammarco Chiellino

Gennaio 22, 2018

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Doctor Who – Il Giorno del Dottore: empatia come (auto)coscienza dell’altro

Doctor Who è una Serie Tv che dal 1963 intrattiene, stupisce e allieta milioni di telespettatori, che continuano a seguirla ancora oggi, contribuendo a tenere in vita quel che ormai si propone come uno dei i prodotti più longevi del piccolo schermo.

Più che una semplice Serie Tv è un progetto, che conta in totale già trentasei stagioni (ventisei della c.d. serie classica e dieci prodotte dal 2005 ad oggi), due film, tre spin-off e tre serie animate, nonostante sia ancora in piena produzione.

Con il Dottore niente è come sembra, e lo si nota subito, dato che è il Dottore stesso a non essere quel che sembra.

Apparentemente umano, ha due cuori.

Apparentemente giovane, ha già secoli e secoli alle spalle.

L’idea di base è quella di una creatura che si fa chiamare Il Dottore, apparentemente umano, che cambia volto (si rigenera) ogni qualvolta stia per morire o sia stato gravemente ferito, o ancora, per la vecchiaia, dopo millenni. E si deve abituare al nuovo corpo, deve sperimentare, capire cosa sia rimasto inalterato e quali novità il nuovo corpo comporti. Così, da corpo a corpo, di attore in attore, si snoda la personalità di un essere tollerante e sempre compassionevole, privo non soltanto di pregiudizi, ma restio a ogni giudizio dalle parvenze definitive.

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Tutti i volti del Dottore, compreso quello di Jodie Whittaker, che lo interpreterà dalla stagione in attesa di uscire

Ma contestualizziamo il personaggio.

È un Signore del Tempo, nativo di Gallifrey, pianeta dall’infinita evoluzione tecnologica, i cui abitanti, si vedrà, non rifiutano di cadere negli errori più antichi: odio, rabbia, sete di potere.

Lasciamo il Dottore (alla fine della Serie Classica) a combattere la cosiddetta Guerra del Tempo, quella tra la sua gente e i loro acerrimi nemici, i Dalek.

Il Dottore abbandonerà Gallifrey, che esplode con tutta la sua gente, lasciando al susseguirsi degli eventi il compito di ritornare. Completando così la storyline delle motivazioni che lo spingono a fuggire, così come quella degli eventi che precedono la fuga stessa. Sappiamo però come fugge: con il suo TARDIS.

“Time And Relative Dimension In Space”, spiega lo stesso Dottore più volte. È un’astronave capace di viaggiare nello spazio e nel tempo, anzi è realmente capace di piegarli a proprio piacimento. Un esempio? È molto più grande all’interno che all’esterno. Conosciamo il TARDIS quale cabina blu della polizia, una di quelle che a fine ‘800 si trovavano in ogni angolo di Londra, e di molte città inglesi. Infatti, è proprio in una delle sue avventure che il Dottore aveva utilizzato il sistema di mimetizzazione, poi rivelatosi difettoso, che ha lasciato definitivamente all’astronave quell’aspetto.

Pacifico, allegro e chiacchierone

Il Dottore non usa armi, non combatte direttamente, ma avendo consapevolezza di ciò che è accaduto, accade e accadrà, ne assume in toto le conseguenze, le dinamiche risolutive e i rischi.

È forse una delle divinità delle religioni esistenti? Spontaneamente verrebbe da rispondere “magari!”.

È spesso accompagnato da qualcuno, una assistente o compagna di viaggio. Ciò è segno di un animo che vive solo, ma cerca la compagnia, un’animo allegro a cui piace parlare (anche troppo), pur sempre consapevole che nessuno vivrà abbastanza per ascoltarlo. Chiunque sia ad accompagnarlo infatti, lo vedrà invecchiare, e mai rigenerarsi, magari in un corpo più giovane di prima. Il suo compagno invecchierà, diventerà debole. Talvolta non riesce a sopportarlo, poi ricorda chi è, cosa fa e perché deve continuare. Perché, lettori e amanti del cinema, se non fosse per lui la Terra sarebbe già stata distrutta infinite volte.

La sua è una maschera, il chi non è altro che «forma conseguente alla funzione -come la scrittura di James McTeigue e la produzione delle sorelle Wachowsky ci ricordano in una emblematica scena di V per Vendetta – ma ciò che sono è un uomo in maschera». (QUI, leggi l’articolo de La Settima Arte su V per Vendetta)

Il Dottore, in tal senso, stravolge anche il concetto stesso di maschera quale apparenza, rendendola manifestazione empirica del nulla: volti quali infinite copertine di un unico e complesso libro, impossibile da giudicare.

Ci si vuole concentrare oggi sulla pellicola del 2013 Il Giorno del Dottore, episodio commemorativo del cinquantesimo anniversario, nonché sbalorditiva opera di fine ingegno narrativo e sagace ironia prettamente British.

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Locandina del film “Il Giorno del Dottore”

I Tre Dottori

L’episodio andò in onda il 23 Novembre 2013, tra piccoli e grandi schermi e in simulcast, in novantaquattro paesi del mondo. Questo gli garantì l’assegnazione di un Guinness World Record per la trasmissione simultanea di un programma tv drama più estesa di sempre.

A pensarci non è un caso che abbiano deciso per questo metodo di diffusione, o quanto meno non è casuale, considerata l’ideale aggregativo insito nella simultaneità. Buona parte della Terra, quel giorno – facile convenire che ancora meno casuale sia il titolo – seguì lo sviluppo delle sue avventure, a infinita distanza eppure insieme. 

Ancora una volta il Dottore stupisce, anzi, stavolta sono tre i Dottori a lasciarci senza parole. Steven Moffat gestisce egregiamente buona parte delle timelines finora irrisolte, senza lasciare che l’episodio risulti ridondante né, in alcun modo, privo dei colpi di scena a cui i fan della serie si sono ormai più che abituati.

Matt Smith, David Tennant, John Hurt: lo stesso Dottore in tre momenti temporali differenti, la stessa personalità in tre classi di sfaccettature a tratti antitetiche, che infatti non rifiutano battute e riferimenti su comportamenti e abbigliamento degli altri. Così strani da vedere, in senso letterale, con gli occhi nuovi che il Dottore può permettersi.

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L’immancabile Rose

Inutile sottolineare la tensione, spasmodica e senza sosta, alla rivalutazione dell’altro in chiave del tutto empatica, di cui questa serie è emblematico profeta sin dal 1963.

I tre Dottori, a ogni modo, compiranno una scelta, quella di detonare l’ordigno che aveva segnato la fine di Gallifrey, insieme.

E ancora Billie Pyper, o Rose, o Lupo Cattivo.

Questo speciale non ha lasciato fuori neanche lei, companion emblematica del Dottore per un non trascurabile numero di episodi della serie prodotta dal 2005.

I fans della serie l’avevano lasciata in una dimensione parallela, inaccessibile, intrappolata dall’unico modo in cui il Dottore fosse riuscito a salvarla.

Ebbene, Steven Moffat ne segna il ritorno sugli schermi, sotto forma di interfaccia digitale di un ordigno, il Momento, vero fulcro dell’intero episodio.

Billie Pyper e John Hurt
Billie Pyper aka Rose

Comparse storiche e aliene

I dialoghi tra la Rose-Interfaccia e John Hurt, ai posteri The War Doctor, segneranno la possibilità di salvare Gallifrey.

Incontriamo anche Elisabetta I, forte e nubile come la storia la ricorda, ma innamorata del X dottore e assolutamente intenzionata a sposarlo.

Il suo personaggio (come tutte le personalità storiche che s’incontrano e scontrano nel corso della Serie Tv) ci ricorda quanto ricostruzione storica e fantasia vengano contestualmente plasmate, e quanto la loro natura malleabile possa sempre permettere di ricredersi su convinzioni e dogmi di ogni tipo.

E infine gli Zygoon, razza aliena mutaforma, rimasti nascosti per secoli in un quadro della National Gallery, frutto di tecnologia dei Signori del Tempo capace di congelare una data coordinata temporale sotto forma di immagine.

Un momento fissato nello spazio, per sempre.

E la tregua tra umani e Zygoon. Quest’ultimi, dopo aver preso la forma umana degli addetti all’interno della National Gallery e averne attivato l’autodistruzione, per opera dei tre Dottori smettono di riconoscersi secondo la relativa specie, gridando all’unisono per fermare il conto alla rovescia. Trovata geniale usare il suo – anzi il loro – cacciavite sonico, per sfruttare il dispositivo di cancellazione della memoria.

Ancora una volta, in una scena semplice eppure estremamente pregna di significato, il Dottore ci ricorda che la chiave di tutto è nell’uguaglianza, nel riconoscere nei bisogni degli altri un po’ dei propri. Più che semplice accettazione o tolleranza: l’ideale di altruismo diviene etica comportamentale, anzi vera e propria necessità logica atta alla sopravvivenza.

Gallifrey falls No more

Nell’odio e nella paura del prossimo a stento si può sopravvivere, nella possibilità di conoscere gli altri per ciò che sono, invece, risiede il segreto del vivere.

E poi il cameo di Tom Baker, storicamente il 4º Dottore, che ci lascia al colpo di scena finale. Infatti l’opera non ha due titoli No more e Gallifrey falls ma uno soltanto: Gallifrey falls no more. Una scena rivelazione che segna un cambiamento epocale, per quanto le singole epoche possano essere rilevanti per un Signore del Tempo: il piano ha funzionato e Gallifrey non è caduta, anzi falls no more– non cadrà mai più – essendo bloccata nella dimensione che il quadro rappresenta.

War Doctor non ricorderà mai di aver salvato il suo pianeta, ma non si può dire lo stesso del Dottore interpretato da Matt Smith. Lui ricorda.

È lui stesso ad aver creato il quadro, ad aver congelato Gallifrey nell’ultimo giorno della Guerra del Tempo, e ora ne ha consapevolezza.

Non è più l’uomo che fugge, ma quello che cerca di tornare a casa.

E lo fa – come lui stesso definisce il tutto – «per la strada più lunga», con l’aiuto dei Dottori. Da ogni punto della sua linea temporale, la strada più lunga è, per lui, la strada di molteplici esistenze.

Non dovrà più scegliere di distruggere Gallifrey, né da solo né con l’aiuto di altri. E per cambiare il passato, questa volta, gli servirà il pieno il consenso del suo futuro. 

Tutto, da ogni istante della sua linea temporale, lo conduce a contrastare il peso di una scelta obbligata – quasi un ossimoro, a pensarci – che trasuda rassegnazione e sconforto. Può tornare a essere sé stesso: salvare chi è in difficoltà senza armi e con l’umanità che lo contraddistingue, riprendere a incarnare il nome che lui stesso ha scelto, senza la sensazione di ipocrisia che lo aveva attanagliato fino ad allora.

La riscrittura di quel momento richiederebbe secoli, e lui, per fortuna, ha millenni a separarlo da ogni rigenerazione: da chi è stato, come da chi ancora non è.

È sempre lui, in momenti temporali differenti: l’aspetto è cambiato ma l’uomo – Signore del Tempo – no.

Tutte le sue rigenerazioni che collaborano sono il suo tentativo di trovare quel momento nella sua linea temporale, un tentativo millenario e finalmente giunto a perfezionarsi.

Tutti i Dottori

«It’s all twelve of them? No, All thirteen!»: passato, presente, futuro, in tutte le variabili insite in ogni scelta presa.

Ogni Dottore, in ogni forma, converge per rimediare all’errore primordiale. E lo fa per tredici volte, contemporaneamente.

Ah, se vi foste chiesti perché tutti – anche i Signori del Tempo e gli Zygoon – parlino inglese, sappiate che è il Tardis che traduce per il Dottore e tutti i suoi compagni, compreso lo spettatore.

Facile, da una parte, intellettualmente onesto per la credibilità dell’idea che il Dottore rappresenta, dall’altra.

Doctor Who si conferma una visione non prettamente giovanile o per ragazzi (come molti avevano inizialmente sostenuto), ma adatta a divertire quanto a far riflettere anche gli adulti. Suggella, con questo episodio, il valore della vita in quanto tale, l’importanza dell’esistenza e la necessità di radici emotive che prescinda tempo e spazio.

Il concetto di empatia, quale tentativo di immedesimazione, appare esteso esponenzialmente nel tentativo di comprendere comportamenti e vissuti che non si possono giudicare, in quanto sconosciuti, e non possono che essere apprezzati, in quanto manifestazioni del vivere: l’unica, vera e onnicomprensiva esperienza, che ci rende così diversi ed uguali al tempo stesso.

Visione più che consigliata, doverosa.

Leggi anche: Doctor Who – Il meglio dell’Umanità

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