L’immagine è qualcosa di indivisibile e di inafferrabile, che dipende dalla nostra coscienza e dal mondo reale che essa si sforza di incarnare. Se il mondo è enigmatico, anche l’immagine è enigmatica […] Nonostante non siamo in grado di percepire l’universo nella sua totalità, l’immagine è in grado di esprimere tale totalità.
(Andrej Tarkovskij)
Guardare un film di Andrej Tarkovskij significa vivere in una dimensione dove razionalità e tempo si annullano. Succede così con molti autori, ma il cineasta sovietico è un genio della cinematografia difficilmente collocabile nella mitologia immediata di un Kubrick piuttosto che Hitchcock. Le poche opere (ahimè) che ha diretto in oltre vent’anni sono testimonianza di un’arte visiva meditata, profonda e senza facili simbolismi, unite certamente dalla storia di un paese d’origine che a sua volta interagisce col proprio vissuto.
Lo Specchio, del 1974, assolve a un’indagine interiore che è sia ricordo d’una vita precedente sotto forma di poema (con brani tratti dalle poesie del padre Arsenij) che bilancio esistenziale collegato ai repertori storici.
Il protagonista del film è un uomo di mezza età che si esprime unicamente attraverso la voce (e vive attraverso la mediazione della cinepresa). È stato abbandonato dal padre nel 1935, e ora sua moglie lo sta per lasciare (i due hanno un figlio adolescente). Il film traccia la sua biografia infantile, ricomponendo i suoi ricordi a intermittenza. Il tramite di quest’indagine è la madre/moglie interpretata da una doppia Margarita Terekhova, sorta di contro figurazione della scomparsa del tempo storico, misurabile, rimando continuo ad un tempo assoluto, una presenza che sembra tendere continuamente all’infinito. Su di essa il regista focalizza anche il rapporto con l’ambiente circostante, basti pensare al meraviglioso campo lungo in semi-soggettiva nella parte iniziale del film. Madre che, in questa visione, rappresenta anche la perdita, l’abbandono della casa materna che tormenta spesso i sogni del protagonista, e infatti la voce dell’uomo non fa altro che ripetere ossessivamente questa impossibilità di ritorno, nonostante le immagini spesso ci mostrino il ritorno del protagonista in questa casa che non commetteremmo alcune errore a identificare come il grembo materno. Naturalmente, ogni immagine veicola una proliferazione di emozioni sempre più intense, che letteralmente sembrano implodere.
Qualcuno potrà obiettare questa visione, ma non sarebbe una blasfemia cosi grande dire che Lo Specchio racconti l’implosione di una casa (con il buon Andrej che decise di girare nel luogo originario dove sorgeva la sua abitazione d’infanzia, quest’ultima ricostruita tra vecchie foto e ricordi personali). L’incendio del granaio, episodio chiave che rimanda all’abbandono paterno del tetto familiare, pare accumulare una pressione esterna incredibile, fortemente evocata dalla presenza del fuori-quadro che sembra farsi agente della narrazione, proiettando all’interno del film anche la stessa pressione dello spettatore. Siamo di fronte a procedimenti puri dell’estetica tarkovskijiana: da una parte quelli che potrebbero essere considerati una sorta di traveling visivi, non riconducibili a nessuno personaggio ma purissime divagazioni estetiche riconducibili alla scoperta degli spazi circostanti; dall’altra, la semi-soggettiva che intensifica la realtà delle immagini mostrate. Scelte di regia queste che mostrano il collasso di un piccolo universo personale, fatto di tantissime mini particelle che rimandando a concetti spazio-temporali che, nella loro implosione, provocano effetti a catena perfettamente riscontrabili nella struttura di un montaggio perfetto (realizzato da Lyudmila Feiginova, fida collaboratrice del maestro russo). Non sorprende, in questo senso, che la scena successiva ci venga presentata in forma di sogno, con conseguente scomparsa di luci e colori, in uno spazio diametralmente opposto a quanto successo poc’anzi.
Il significato di un’opera come Lo Specchio è così complesso e personale da sfuggire a ogni interpretazione, tanto che risulterebbe incomprensibile per i non cinefili: gli inserti spagnoli, le esercitazioni di guerra in età infantile o il bianco e nero di seppia tramutarsi nel colore secondo le esigenze tarkovskijane non sono, a mio parere, adatti per analisi filmiche spicciole dell’ultima ora. Ma è indubbio che non esistano altre opere cinematografiche simili a questa, capace di generare visioni magiche, reminiscenze da eterno presente e solenne memoria d’un passato spettrale, dove la musica d’avanguardia (insieme alla classica di Bach e Pergolesi) sottolinea di frequente gli aloni sinistri dello Specchio del cinema. E tutti noi, amanti della settima arte, non possiamo che ringraziare il destino o chi per lui, ci abbia dato la possibilità di vivere in un mondo che ha avuto tra i suoi protagonisti un uomo di nome Andrej Tarkovskij.
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