“Chi ha vist’ ‘o lupo e s’è mise paur’ / nun sape bbuono qual è a verità / o vero lupo ca magn’ ‘e creature / è o piemuntese ca avimma caccià”
Musicanova – Brigante se more“Chi pecora si fa, il lupo la mangia”
Antico proverbio napoletano
L’Inviolata è un campo di tabacco situato nei pressi della Ciociaria, a giudicare dall’accento dei contadini. Entrarci è un po’ come prendere la macchina del tempo e tornare indietro di cento anni, tornare ai tempi della mezzadria, ai casali dove convivono cinquanta persone in sei stanze, alle lampadine condivise, al pane con le cipolle e alla totale assenza di elettrodomestici. Proprio qui vive Lazzaro con la sua famiglia, contadino adolescente dal buon cuore e dalla bontà ingenua e decisamente irritante, sempre pronto a rispondere a qualsiasi richiesta di aiuto, senza se e senza ma.
Attraverso i suoi occhi limpidi e innocenti, osserviamo la vita quotidiana di una comunità di braccianti in condizioni di totale povertà; seduti sulla sua capigliatura folta e maleducata, osserviamo la vita quotidiana di questa comune contadina di inizio Novecento. Il primo elemento di disturbo e i primi dubbi, però, sorgono quando nella comunità arriva il signor Nicola, il contabile del mezzadro, portando con sè un cellulare degli anni ’90. E allora viene naturale chiedersi: in che anno siamo? Com’è possibile che Nicola abbia un cellulare? Com’è che i contadini non hanno un televisore, una lavatrice, uno scaldabagno?
La risposta è tanto semplice quanto complicata: l’Inviolata è come il Mondo perduto di Conan Doyle; nascosto tra foreste, fiumi e colline, questo mondo di dinosauri sociali vive completamente sottomesso, sia a livello lavorativo che culturale, alla marchesa proprietaria della piantagione; questo spazio prospera coperto dal velo di Maya, incurante di una modernità incalzante che potrebbe rompere le catene di questa vera e propria schiavitù, ma che forse non avrebbe un posto per questi residui di un’altra epoca. L’inganno è presto svelato, il velo di isolamento è strappato, la comunità viene ricondotta nell’ovile della modernità, si libera finalmente per abbracciare un futuro diverso e migliore, oppure no?
Gli stanzoni sono sostituiti da una baracca tra i binari del treno, patatine e merendine invece di pane e cipolle, truffe e piccoli furti piuttosto che raccogliere e seccare foglie di tabacco; queste le testimonianze della modernità, racchiuse in un generale senso di spaesamento. Tra le macchine e i palazzi, i contadini hanno perso la loro capacità di riconoscere la cicoria e di arrangiarsi, hanno smarrito il loro senso di comunità; stretti tra debiti ed espedienti, vivono alla giornata sempre sul filo del rasoio, senza nessuno da prendere in giro oppure su cui sfogarsi con piccole vendette o un nemico da combattere, visto che anche la dinastia della contessa ormai è fatta di pezzenti come loro, a cui il progresso ha chiesto il conto.
In questo contesto si inscrive la parabola di Lazzaro. Questo ragazzino dalla chioma scapigliata e gli occhi azzurri, comandato a bacchetta da tutti indipendentemente dall’età, anche se non sembra accorgersene o soffrirne. È buono Lazzaro, ma non si sforza di esserlo lo è in maniera ingenua, del tutto naturale. Non sceglie di aiutare gli altri, è totalmente inconsapevole della sua disponibilità tanto da sembrare un po’ tocco agli occhi degli altri, che lo trattano alla stregua dello scemo del villaggio. Non riesce a concepire la cattiveria, non vede la malignità nei gesti né quando i suoi coetanei lo mandano in giro a fare il caffè per toglierselo di torno, né tanto meno decostruisce i sottili giochetti del marchesino, che lo utilizza a suo piacimento nella guerra personale intrapresa contro la madre.
Sembra quasi un santo, Lazzaro, una figura cristologica che carica su di sé tutte le fatiche del mondo, capace di parlare con gli animali che lo riconoscono come inoffensivo. Per Lazzaro non esiste posto nel nuovo mondo. Nella modernità un animo incorruttibile come il suo non riesce a collocarsi; nel mondo contadino lui era lo scemo del villaggio, preso in giro ma integrato e in qualche modo tutelato, nel mondo moderno cannibale e impietoso la sua bontà non può che soccombere sotto i colpi dell’intolleranza nei confronti del diverso. In un mondo che vuole tramutare tutti in pecore e fagocitarle come bestiame, una persona come Lazzaro, che rimane selvaggio come il lupo anche in mezzo agli uomini, è un esempio pericoloso che va eliminato a tutti i costi.
Guardare Lazzaro felice è un po’ come risvegliarsi da un sogno. C’è molta empatia tra spettatore e attori, proprio perché come i contadini si risvegliano dall’illusione dell’inviolata, così lo spettatore si risveglia dall’illusione che ad oggi i contadini vivrebbero una condizione migliore di quella della mezzadria. Nonostante questo non c’è nessuna nostalgia dei tempi che furono, la società contadina non è raffigurata come un mondo arcadico e ideale, ci sono condizioni di schiavitù e ignoranza che, ad ogni modo, il progresso non è riuscito a limitare. Piuttosto il dominio è diventato più strisciante; si è proceduto a una liquefazione della società e della sottomissione, per dirla alla Bauman, e il controllo si è distribuito attraverso più strumenti. Se prima era il mezzadro a rappresentare a suo modo un’istituzione totale, ora ci pensano le leggi e il senso comune e le necessità finanziarie a costringerci in una gabbia, mentre il volto di un “nemico” ideale da combattere diventa sempre più sfumato.
Perdiamo il senso di noi stessi, siamo normati nel pubblico ma soprattutto nel privato, e proprio per questo la devianza è un pericolo per l’equilibrio generale: cc