Io e Annie – Dell’Amore e della Morte

Gianluca Colella

Agosto 11, 2018

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Tra i capolavori di Woody Allen, Io e Annie ricopre un ruolo esclusivo per il modo complesso, realistico e sentito in cui tratta l’Amore in ogni suo aspetto, dal più bello al più tragico. Con il suo atteggiamento scanzonato e autoironico, Alvy ci racconta i particolari della sua storia con Annie, rendendoci partecipi dei fattori che hanno portato il rapporto verso la rottura.

Alvy: «Annie e io abbiamo rotto e io ancora non riesco a farmene una ragione. Io… io continuo a studiare i cocci del nostro rapporto nella mia mente e a esaminare la mia vita cercando di capire da dove è partita la crepa, ecco… Un anno fa eravamo innamorati, sapete. È strano, non sono il tipo tetro, non sono il tipo deprimente».

Ciò che configura Io e Annie come una “commedia romantica nevrotica” è l’attenzione quasi eccessiva dedicata a riflessioni come questa, che ci colgono più o meno impreparati e sollecitano la nostra empatia per il protagonista, con il quale entriamo subito in sintonia perché riconosciamo in lui gli stessi elementi che potrebbero far crollare le nostre relazioni.

Sintetizzare in una recensione gli aspetti più profondi di Io e Annie sarebbe riduttivo, ma la forte volontà di stimolare un dibattito sul film mi ha portato a confrontarlo con un racconto di Marguerite Duras, La Malattia della Morte.

I monologhi di Alvy sono profondamente diversi dalla narrazione lenta e spezzettata del protagonista del racconto, così come diverso è l’approccio al tema dell’Amore.

“Voi” e “Lei” sono gli attori della Duras, simbolici manifestazioni di due mondi inaccessibili che provano a contattarsi per tutta la durata della storia, senza lo spazio per lunghe riflessioni: considerare analogie e differenze tra questi elementi è lo scopo di questo approfondimento.

Incontrare Annie e incontrare Lei

Io e Annie
Woody Allen in “Io e Annie”

Alvy: «Amore è… è un termine troppo debole per… Ecco, io ti “straamo”, ti “adamo”, ti “abramo”! No, è un termine troppo debole, io dovrò inventare…»

Credo che scegliere la frenetica, entusiasta dichiarazione di Alvy ad Annie come punto di partenza per questo parallelismo sia utile in primo luogo perché rende evidente l’aspetto dirompente e incontrollabile di questo sentimento, e in secondo luogo perché si contrappone simbolicamente all’incipit del protagonista della Duras, che sin da subito denuncia la sua incapacità di provare amore:

«Le dite che volete provare, provare per più giorni. Forse per più settimane. Forse anche per tutta la vita. Lei chiede: Provare cosa? Voi dite: Ad amare».

(La Malattia della Morte)

Porre domande è il ruolo principale del protagonista: la profondità di Io e Annie sta proprio nel suo esporre continuamente gli spettatori al flusso di coscienza di Alvy, ai suoi dubbi personali. Se pensiamo agli elementi autobiografici che avvicinano lui e Woody Allen, allora apprezziamo ulteriormente le questioni che pone.

I due innamorati si incontrano giocando a tennis, e il loro sentimento nasce tra l’imbarazzo e la tensione che accompagnano i primi momenti insieme. La cosa principale che li unisce è parlare: Annie e Alvy si confrontano direttamente su qualsiasi argomento, come due appassionati di cinema, letteratura, arte e attualità.

La fama di Io e Annie è dovuta anche al famoso dialogo con i sottotitoli, che sovverte l’utilità di questo parlare e annulla completamente la funzione comunicativa dei loro scambi, ma paradossalmente eleva l’intensità delle loro interazioni perché porta gli spettatori a contatto diretto con le loro private sfere emotive.

Il protagonista della Duras ci nega questa soddisfazione: la donna che lui sceglie per provare ad amare è costretta a tacere, e anche il più piccolo gridolino di godimento viene soppresso, perché quello che egli coglie è un “piacere ignoto” e lontano, inaccessibile alla sua difettosa sensibilità.

«Apre gli occhi, dice: Che felicità. Le mettete la mano sulla bocca per farla tacere, non si dicono queste cose, le dite. Lei chiude gli occhi. Dice che non lo dirà più».

(La Malattia della Morte)

Il loro incontro è forzato e si oppone a quello di Alvy con Annie, perché potrebbe essere avvenuto «dappertutto contemporaneamente», ma sulla base di una richiesta, non spontaneamente.

Tra Eros e Psiche: il Caos

Io e Annie
Annie e Alvy

Alvy: «Io credo che si dia troppo peso all’orgasmo per colmare gli spazi vuoti dell’esistenza».

La tendenza di Alvy a razionalizzare, frutto anche della sua lunga terapia di psicoanalisi, è una colonna portante del film. Se Io e Annie si pone come una commedia romantica, allora fin dove può spingersi la coscienza e dove è possibile individuare il confine tra Sentimento e Ragione?

La mia opinione è che l’Amore, intrinsecamente amorale, sfugge a qualsiasi legge e a qualsiasi forma di controllo: di conseguenza, anche le degenerazioni dell’Amore, imprevedibili cause di sofferenza, sono incontenibili e improvvise, come la celebre scintilla che fa scoccare il legame.

Un ruolo importante è svolto dalla bellezza e dalla sua percezione, certo, ma anche questo si colloca su un piano immediato ed emotivo, primitivo rispetto a un’elaborazione consapevole. Il corpo, gli occhi e il contatto stimolano una conoscenza dell’Altro che è allo stesso tempo superficiale e profonda, ed è forse per questo che Alvy si esprime sull’orgasmo nei termini citati sopra.

«Sarebbe stata alta. Il corpo sarebbe stato lungo, fatto in una sola colata, in una sola volta, come da Dio stesso, con la perfezione indelebile dell’individuo contingente. Voi le dite: Dovete essere molto bella. Lei dice: Sono qui, guardate, sono davanti a voi. Voi dite: Non vedo niente. Lei dice: Cercate di vedere, è compreso nel prezzo. Voi prendete il corpo, lo girate, lo rigirate, guardate… Desistete. Smettete di toccare il corpo».

(La Malattia della Morte)

Anche questa forma di contatto è negata al Voi malato del racconto francese: la sua ignoranza dell’Amore e la sua incapacità si spingono al punto tale da non consentire l’accesso alla percezione minima utile a uno scambio produttivo con Lei.

I rapporti tra Alvy e Annie sono invece isterici, frammentati dal consueto imbarazzo che li contraddistingue, ma tutto sommato spontaneamente umani. Le interruzioni e i problemi nascono nel momento in cui uno dei due pone una scissione tra la dimensione corporea e quella spirituale del sentimento.

Spesso, come Alvy, ci troviamo nella condizione di razionalizzare per minimizzare le montagne russe tra entusiasmo e depressione che le nostre relazioni ci portano a sperimentare, ma la nostra opera è un’illusione di controllo. A tal proposito il passaggio nel racconto della Duras è profetico ed essenziale:

«Voi domandate come il sentimento d’amore potrebbe sopravvenire. Lei vi risponde: Forse da una frattura improvvisa nella logica dell’universo. Dice: Per esempio da un errore. E dice: Mai dalla volontà. Voi chiedete: Da che cosa ancora potrebbe nascere il sentimento d’amore? Lei dice: Da tutto, da un volo d’uccello notturno, da un sonno, da un sognar di dormire, dall’avvicinarsi della morte, da una parola, da un delitto, da sé, da se stessi, spesso senza sapere come».

(La Malattia della Morte)

A contatto con la malattia: vicinanza e distanza

Annie e Alvy nel film

Alvy: «Io, sai, sono ossessionato dalla morte, credo. Sì, è il tema di fondo per me. Io sono molto pessimista nella vita. Devi saperlo, se noi staremo insieme. Sai io… io sento che la vita è divisa in orribile e in miserrimo».

L’orribile e il miserrimo di cui Alvy parla sono due categorie inventate per esporre la sua visione pessimistica della vita con la quale Annie dovrà confrontarsi se vuole stare con lui.

Io e Annie incede tra un flashback simpatico e uno tragico, mentre lui e la ragazza si allontanano inesorabilmente; il sentimento da cui erano attirati è diventato una spirale che li costringe a ripetere le stesse dinamiche, senza possibilità di una via d’uscita. Esso è comunque presente.

Quello che invece sentiamo nel racconto della Duras è l’assenza di esso, la diffusione di una mancanza irreparabile che colora ogni contatto tra Voi e Lei:

«Le chiedete perché abbia accettato il contratto delle notti pagate. Lei risponde: Perché fin dal momento in cui mi avete parlato ho visto che eravate colpito dalla malattia della morte. Durante i primi giorni non ho saputo dare un nome a questa malattia. E poi in seguito ho potuto farlo. Le chiedete: In che modo la malattia della morte è mortale? Lei risponde: Perché colui che ne è colpito non sa di esserne portatore, di essere portatore della morte».

(La Malattia della Morte)

Io e Annie non raggiunge queste vette “depressive”, ma si avvicina grazie all’esposizione di un rapporto intrinsecamente nevrotico. I due protagonisti sono in sintonia dall’inizio alla fine nel bene e nel male, ma allora dove si collocano quei fattori che portano la relazione verso una separazione?

Alvy dichiara più volte di non essere in grado di darsi delle risposte; egli è in balìa degli eventi, ma soprattutto in balìa di se stesso, come un malato cronico che non trova la via di una guarigione definitiva.

Perdita e abbandono: il peso dell’Anedonia

Annie e Alvy nel film

«Voi non amate niente, non amate nessuno e non amate neppure questa differenza che credete di vivere. Voi non conoscete che la grazia del corpo dei morti, quella dei vostri simili. Improvvisamente vi appare la differenza fra quella grazia del corpo dei morti e questa che è qui presente, fatta di debolezza estrema. Voi scoprite che lì, in lei, si fomenta la malattia della morte, è quella forma allungata davanti a voi che decreta la malattia della morte».

(La Malattia della Morte)

Notte dopo notte, Voi elabora la differenza con Lei, con quella donna leggera e aperta, tendente a un godimento incomprensibile. Quello che la Duras denuncia è una forma inguaribile di anedonia: l’incapacità di provare piacere nelle comuni esperienze piacevoli.

Proprio “Anedonia” doveva essere il titolo originale di Io e Annie, prima di essere modificato perché ritenuto inappropriato. Allora è proprio qui che la storia di Alvy e quella di Voi entrano in contatto, nel punto in cui due vite malate si intrecciano senza possibilità di differenza: l’uno per la nevrosi, l’altro per un’apatia esistenziale difficile da riconoscere.

Woody Allen conclude Io e Annie con la separazione tra i protagonisti, mentre nel racconto della Duras Lei sparisce dalla notte al giorno senza dire una parola, allontanandosi da quel «curioso morto» incapace di amare «a causa di questa opacità, di questa apatia, a causa di questa menzogna sul mare nero».

Perdita e abbandono sembrano essere i fattori che accomunano i finali di queste due opere, diverse e al tempo stesso simili, testimonianze estreme di problematiche che con diversi gradi di intensità sperimentiamo nelle nostre relazioni.

Se l’Amore è a così stretto contatto con questa sofferenza, con il regno della morte che è lì in agguato, pronto a colpire da un momento all’altro, allora in cosa possiamo individuare il senso più intimo di questo sentimento?

È nell’illuminante riflessione con cui Io e Annie si conclude che Allen prova a darci una risposta, soggettiva e assolutamente parziale, ma allo stesso tempo profondamente vera:

Alvy: «Dopodiché si fece molto tardi, dovevamo scappare tutti e due. Ma era stato grandioso rivedere Annie, no? Mi resi conto che donna fantastica era… e di quanto fosse divertente solo conoscerla. E io pensai a… quella vecchia barzelletta, sapete… Quella dove uno va dallo psichiatra e dice: “Dottore mio fratello è pazzo, crede di essere una gallina”, e il dottore gli dice: “perché non lo interna?”, e quello risponde: “e poi a me le uova chi me le fa?”. Be’, credo che corrisponda molto a quello che penso io dei rapporti uomo-donna. E cioè che sono assolutamente irrazionali, ehm… e pazzi. E assurdi, e… Ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova».

Allora è forse lì che ognuno di noi si spinge per stare insieme all’Altro: l’azzardo sta in questo investimento nell’ignoto che va al di là della ragione, un movimento incomprensibile e senza regole che si attesta come l’esperienza umana più forte.

Come Voi, tutti noi accediamo a qualche forma di apatia, a differenze rispetto al modo di amare dell’Altro, ma paradossalmente l’unione sta proprio lì, nella differenza che stimola un’intima curiosità, un’inesauribile conoscenza.

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