New York – La vera Musa di Woody Allen

Tommaso Paris

Febbraio 14, 2019

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“Capitolo primo: adorava New York.”

Chi avrebbe potuto rivelare la celata docile essenza della caotica New York, se non colui che più l’ha vissuta, che più ne ha incarnato la fuggevole sostanza? Chi se non Woody Allen?

Woody Allen vive a New York, e New York vive in Woody Allen.

La Grande Mela non potrebbe più esistere senza questo grande regista. Woody le ha donato significati, ha scoperto bellezze prima nascoste, ha rallentato il tempo ad una città in continuo movimento, soffermandosi su piccoli dettagli, sulle relazioni, su innocenti sensazioni fugaci. Se i suoi film, i suoi lasciti al mondo, scomparissero, ci ritroveremmo a camminare in tutt’altra città, con altri rumori, altri odori, altre emozioni.

Il suo amore per questa città ha avuto la forza di instaurarsi nelle mente di ognuno. Ormai, per tutti noi, la vera New York è inevitabilmente quella di Woody Allen. Ci sono infinite New York, infiniti racconti racchiusi in quelle strade affollate, in quei frenetici taxi gialli, in quegli sguardi che si stanno già abbandonando nel loro primo incontro. Eppure, la New York che più è presente in noi è quella alleniana.

Possiamo trovare in questo regista ciò che cerchiamo, ciò che vogliamo, ciò che rifiutiamo, perché Woody ci mostra molti Allen e tanti di loro si trasformano nel tempo. Eppure, c’è una sola reale New York.

Una New York nevrotica, esistenzialista, romantica, poetica nel suo decadimento, imprevedibile nel suo essere destinale.

Camminare ora per le strade di New York significa immergersi nella mente dell’autore, significa vedere e toccare i profumi che negli anni Woody Allen ci ha permesso di esperire. Il ponte Queensboro non esisterebbe come tale se non accompagnato da due innamorati seduti su una panchina baciati dalle luci della notte. L’iconico manifesto del magico film di Woody, Manhattan, ha universalizzato una situazione particolare, riuscendo ad imprimersi nel nostro immaginario, nel nostro animo.

Come potremmo non perderci tra le strade dell’Upper East Side e di Central Park incontrando i vari personaggi dei suoi capolavori pontificare sul senso della vita, disperarsi perché soli, irritarsi per certi commenti su Bergman e Fellini, oppure divenire dubbiosi nei riguardi dello stesso psicanalista da 20 anni. Come potremmo non avere una conversazione al Caffè Vivaldi con il cinico Boris di Basta che Funzioni, oppure immaginare che ogni bambino viva sotto le montagne russe di Coney Island, come in Annie Hall.

Ma soprattutto, come potremmo non vedere in ogni persona di fretta per le strade newyorkesi un Woody Allen che corre tempestivamente verso il viso di Tracy.

New York dona infiniti racconti che vale la pena ascoltare, infinite persone a cui concedersi, infiniti luoghi in cui smarrirsi, infiniti sguardi in cui vale la pena abbandonarsi.

Questa è stata la città di Woody, e sempre lo sarà. Una New York che va in psicoanalisi, che tradisce e viene tradita, che è angosciata dal silenzio del divino, che suona il clarinetto.

Una New York che assume sembianze quasi metafisiche, poiché è una metropoli che sopravvive esclusivamente per eccessi, per estremi sempre complementari, come il sole e la luna, la luce e l’oscurità. Per questi motivi, Woody Allen nel suo film forse più iconico, a cui dona il nome, la rappresenta con una sublime danza tra bianco e nero, poiché ha sempre ritrovato il silenzio nella folla, la crisi nel successo e la passione nella contingenza.

Woody Allen è innamorato di New York perché è innamorato della vita.

 “New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata.”

 

 

Leggi anche: Woody Allen e la poetica dell’imprevedibilità

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