Lorenzo Tardella, classe 1992, nato a Narni, è un giovane regista nonché studente del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.
Oltre ad essere stato un grande piacere quello di conoscere un ragazzo umile e appassionato, è stato anche stimolante perché ci siamo trovati di fronte un giovane molto informato della sua materia, competente e disposto a raccontarsi in modo semplice ed essenziale, senza giri di parole ed auto celebrazioni varie.
Partendo dal suo Late Show, un corto brillante, semplice e allo stesso tempo potente e significativo, e dal viaggio che ha portato alla sua realizzazione, Lorenzo ci ha parlato del suo modo di intendere il cinema, cosa lo lega a questo tipo di linguaggio, come ha mosso i suoi primi passi in un ambito così difficile e cosa significa per lui la sala cinematografica.
Procedendo nel nostro incontro ci siamo resi conto che più un’intervista vera e propria ne sono uscite quattro chiacchiere sul cinema, soprattutto quello nostrano, il che, sinceramente, ci ha fatto ancora più piacere.
Nella speranza che queste quattro chiacchiere siano per voi interessanti come lo sono state per noi, eccovi l’intervista con Lorenzo e, soprattutto, il suo lavoro, Late Show.
Ciao Lorenzo, innanzitutto grazie per la tua disponibilità.
Il corto che hai fatto si chiama Late Show e la prima cosa che viene in mente guardandolo è che è stato fatto, ma soprattutto è stato pensato, da un amante del cinema e della sala cinematografica. Quindi comincerei con il conoscerti un po’ meglio chiedendoti da dove nasce il tuo amore per il cinema e per la sala cinematografica?
In realtà è stata una cosa abbastanza naturale.
Io non ho persone che si sono occupate di questo nella mia famiglia, l’unica che posso forse trovare vicina a questa mia passione è un nonno fotografo, con il quale ho un bellissimo rapporto, e l’essere cresciuto insieme a lui, vederlo che scattava le foto, che sviluppava nella camera oscura eccetera eccetera… Mi ha dato modo di avvicinarmi a questo linguaggio visivo. Ma di fatto la passione per il cinema è qualcosa che è nata spontaneamente. Ho iniziato a vedere film seriamente più o meno da quando avevo 7-8 anni, poi in adolescenza ho avuto la prima videocamera e ho cominciato subito a fare i filmini coi cuginetti, coi nonni, coi zii e via dicendo. Diciamo che più o meno dall’ultimo anno di liceo/primo anno di università ho cominciato a prendermi un po’ più seriamente e ho deciso fare le cose un po’ più “a modino”.
Di fatto sono un autodidatta fino alla mia iscrizione al Centro Sperimentale. Non ho mai fatto nulla di teorico, ho solo visto tanta roba e ho provato a rifarla. Il mio è un background comune: di chi ha visto tante cose e le ha assorbite, secondo me la cosa migliore perché anche chi ha studiato ti dirà che uno le cose le assorbe e le assimila, ma poi le mette da parte e ricomincia da zero.
Per rispondere sulla sala ti posso dire che io ci sono cresciuto più o meno nelle sale cinematografiche. E, come tanti altri posti, le ho viste purtroppo chiudere in gran parte. Tu pensa che dove vivo io, in provincia di Terni, c’erano fino a pochi anni fa sei sale, adesso ce ne sono due, di cui una è un The Space e una è una ex monosala, che è diventata una sala spezzettata in salette più piccole, ma come mi muovo vedo ancora i resti di quei vecchi cinema che frequentavo e che adesso sono diventati o appartamenti o discoteche o che stanno semplicemente lì a prender polvere.
Forse è un mio limite, ma io penso di aver più vissuto attraverso il cinema che non attraverso la vita vera, nel senso che ho speso veramente tanto di tempo sui film, al cinema o a casa e, essendo una passione che ho fin da quando ero piccolo, veramente delle cose della vita le ho imparate attraverso il cinema. Ed è questo forse quello che dico sul corto: che è in realtà non c’è e non c’è mai stata differenza, per me, tra la vita e il cinema.
Raccontaci com’è nato Late Show e qual è stato il processo di creazione del corto.
Late Show è nato un po’ per caso. Nel senso che io spesso e volentieri parto con lo scrivere delle cose già con l’intento di realizzarle, di metterle in pratica, quindi lavoro già in funzione di qualcosa a cui vorrei dare vita. In questo caso invece è stata una cosa un po’ diversa. Ho avuto questa idea piuttosto semplice, l’ho buttata giù abbastanza rapidamente in forma di soggetto e l’ho mandata, semplicemente per avere un feedback, a questo mio amico, Ernesto Giuntini, che lavora a Milano in questa casa di produzione che si chiama Cloverthree e gli ho detto: “Senti… ho scritto questa cosa, fammi sapere che te ne pare.” E tempo più o meno un giorno, mi richiama e mi dice: “Guarda l’ho letta, mi piace molto. Ne ho parlato anche con gli altri, se ti va la facciamo.”
Da lì è iniziato un pellegrinaggio abbastanza intenso dall’Umbria a Milano, in cui si è praticamente riscritta, anzi di fatto scritta, la sceneggiatura a quattro mani con Ernesto. Mettendo in parte in discussione lo spunto iniziale: ricorreggendolo, andando in una direzione un po’ più concreta e mettendo poi in moto quella che è stata la macchina produttiva. All’inizio è stato tutt’altro che facile perché, sai, per com’era partita, l’idea era molto semplice… Alla fine è un corto che è raccontabile in due righe, però poi se ci pensi di fatto si trattava di mettere in scena la vita di una persona e quindi è venuto fuori quello che ingenuamente non era venuto fuori scrivendolo. Tutte le questioni a livello di numero di attori, di costumi, di location e di quello che poi il corto comportava. Senza quella casa di produzione io non sarei mai stato in grado di fare una cosa del genere. Io venivo da cosa molto più piccole e meno ambiziose di questa, quindi mi sono molto affidato a loro e, nel giro di un po’ di mesi, s’è messo in piedi il corto.
L’idea l’ho trovata, come stranamente mi capita, adatta per un corto. Perché, io almeno, ho sempre fatto dei corti che in realtà erano dei lunghi accorciati, che è una cosa che non si dovrebbe mai fare. Invece questa è nata come una cosa essenziale. Mi sono detto: “Con questa potrebbe venire fuori un corto pulito, semplice, lineare, immediato, diretto.” C’ho creduto da subito, che è una cosa che non mi capita spesso. Le cose io di solito le scrivo e poi le lascio lì a sedimentare e se superano indenni la prova del tempo allora ci si ripensa. Invece questo mi ha convinto da subito e dopo, come ti ho detto, c’è stato questo meccanismo che si è messo in moto e non l’ho mai più rimesso in discussione.
L’idea in sé però non ti so dire con precisione come è nata, perché sai poi le idee vengono e, se sei fortunato, le cogli. In origine forse c’erano l’uomo anziano e l’immagine classica che quando si muore si rivede tutta la propria vita in un momento e da lì il passo successivo è stato: questa cosa mi piace, sarebbe bello se la rivedessimo al cinema.
Ti dico anche che addirittura in una vecchia versione della sceneggiatura c’era l’idea di mostrare delle finte locandine di persone che c’erano state prima in quel cinema. Cioè come se lui fosse solo l’ennesimo cliente di quel cinema che di fatto diventa una sorta di limbo in cui tutti quanti passavano e che quindi il bigliettaio fosse una sorta di Caronte, se vogliamo. L’idea era che quando il protagonista arrivava, c’erano le locandine di altri arrivati prima di lui, ognuno con il suo film. Quindi lui vedeva il suo e poi se ne andava per far posto ad un altro e così via.
Vista la tua risposta alla prima domanda, si capisce perché hai scelto la sala come elemento essenziale di questo lavoro. Risulta comunque quanto meno curioso questa passione smodata, visto anche l’allontanamento della nostra generazione dall’ambiente “sala cinematografica”.
Perché hai deciso per questo ritorno nella sala e cosa pensi del rapporto che ha con i giovani?
Innanzitutto nel mio caso non si tratta di un ritorno perché io, o per questa passione che ho o forse perché sono vecchio dentro e ormai non ne faccio mistero, di fatto non ho mai lasciato la sala, quindi questo cambiamento degli ultimi anni non l’ho mai percepito e non l’ho mai accusato. Cioè io sono uno che ancora compra i DVD o che ancora addirittura li noleggia e quindi la scelta è stata abbastanza naturale.
Se tu mi chiedi chi è il protagonista di questo corto io ti rispondo che è la sala cinematografica, tutto il resto è venuto dopo. L’idea di portare la vita di una persona in sala è stata fondativa, un luogo che magari è ancora presto che dire che è morto, ma di sicuro sta morendo.
L’intenzione mia è puramente romantica: fare una lettera d’amore alla sala cinematografica, portandoci dentro la vita di una persona. Che poi alla fine è il senso del cinema. L’idea che quando si va al cinema ci si vede riflessi sullo schermo, come se si stesse davanti ad uno specchio, è qualcosa che succede in sala sempre, chiaramente quando il film lo permette, e a casa succede molto di meno.
Mi ricordo, per dire, che la sera prima di girare, nell’ansia più totale, Ernesto mi chiese. “Ma che pensi di voler lasciare con questo corto? Qual è la cosa principale che pensi che passerà?” E io gli dissi: “Guarda, io non lo so cosa riuscirò a dire, ma mi piacerebbe riuscire a fare una dichiarazione d’amore per la sala cinematografica.”
Sono stato anche molto contento di aver girato al Cinema Mexico, che è uno dei pochissimi monosala rimasti in Italia, che ha fatto le sue battaglie e si è preso le sue soddisfazioni in un mercato che va da tutt’altra parte. È stato un valore aggiunto secondo me.
Per quanto riguarda i ragazzi e il cinema le belle esperienze in questo senso si contano sulla punta delle dita. C’è il felicissimo caso dei ragazzi del cinema America a Roma, con quella meravigliosa arena estiva in piazza San Cosimato. Ma insomma sono realtà abbastanza isolate.
Se ne parla molto della situazione attuale. Si fanno tanti discorsi… Al Centro Sperimentale è abbastanza all’ordine del giorno dire: “Ragazzi, c’è un problema, vediamo di riportare le persone in sala. Troviamo un modo per riportare le persone in sala.”
Per come la vedo io alla sala devo probabilmente tutto e nel mio piccolo cerco di darmi da fare per aiutarla. Qui divago, ma mi fa piacere dirlo. Considera che da un paio d’anni io collaboro con un progetto che si chiama Cinema e Scuola, un’iniziativa del comune di Terni, che va avanti da una ventina d’anni. Un progetto di educazione al linguaggio cinematografico nelle scuole dalle primarie fino al liceo. Attraverso le tante letture e analisi guidate e percorsi tematici che ho fatto, cerco sempre di dire a questi bambini di andare al cinema perché quando vediamo insieme i film, su grandi schermi, mi rendo conto che le emozioni arrivano molto più grandi, molto più amplificate e molto più dirette, meno filtrate.
È impossibile non chiederti un pensiero sul cinema italiano attuale.
Posso citare un editoriale che ho letto su FilmTv. Era, mi pare, l’ultimo numero dell’anno, dedicato a Bertolucci… Ad ogni modo faceva un po’ il bilancio del 2018 del cinema italiano, quindi c’era la solita classifica dei 5 film più belli eccetera eccetera… E, per descrivere un po’ la situazione, citava il film dei fratelli D’innocenzo La Terra dell’abbastanza, che si conclude con un dialogo: “Che si mangia stasera a cena?” “Quello che c’è.” E prendeva spunto da questa riposta per discutere del cinema italiano, un cinema fermo a “quello che c’è”.
Ecco, è una cosa che io condivido in pieno, nel senso che vedo che ci sono dei movimenti, dei moti piccoli e abbastanza isolati di cambiamento, ma ancora ci portiamo dietro una storia, un retaggio culturale che aveva un suo senso anni addietro e che adesso ne ha sempre meno. Mi sembra che sia un cinema un po’ fermo. Che si guarda, si riguarda e si riguarda la realtà, ma non riesce più a interpretarla.
Io sono uno che ama il cinema italiano e lo continua a seguire, ma mi sembra siano molto di più i casi isolati che un bel clima culturale. Se penso a dei film italiani di adesso che io amo sono film che paradossalmente vengono guardati più all’estero che non nel nostro Paese. Penso a Guadagnino che secondo me è la voce italiana più importante, penso ad Alice Rohrwacher, penso a Moretti, Garrone… Però secondo me c’è bisogno di un cambiamento che non vedo all’orizzonte. Un’ottima soluzione sono stati film come Veloce come il vento o Lo Chiamavano Jeeg Robot perché combinavano l’anima italiana e quella americana.
Io poi parlo facendo pare di una minoranza, come diceva Moretti, quindi la questione di come portare il pubblico in massa in sala mi rimane oscura, anche se dovrò gioco forza confrontarmici se voglio fare questo mestiere.
Ora nel cinema si avvertono queste due anime, il botteghino e il cinema d’autore. Dalle parti nostre, penso al Festival di Venezia, rispetto per esempio a Cannes, ci siamo molto aperti, accettando dei film che prima non sarebbero mai arrivati in questo tipo di rassegne e, stando lì, ti posso dire che la distanza tra critica e pubblico si è molto ridotta e questa è una cosa buona.
Nel ringraziarti di nuovo per la tua gentilezza ti chiedo quali sono i tuoi progetti futuri.
Progetti futuri… Innanzitutto continuare le esercitazioni allo Sperimentale, che non usciranno da lì. Però ti posso dire che ho fatto un corto nuovo, Edo, che presento alla Cineteca di Bologna a fine febbraio/inizio marzo in un festival che si chiama Visioni Italiane, che è una roba completamente diversa da Late Show. Non è un progetto futuro, è già un progetto passato, però non è ancora edito quindi te la cito. Sta già girando per dei festival e speriamo che continui.
Per il resto chi vivrà vedrà, l’obiettivo è sempre quello di riuscire a dire la propria nel nostro panorama cinematografico.