- RETROSPETTIVE D'AUTORE: IL FAVOLOSO MONDO DI FELLINI - QUI TROVI L'INTRODUZIONE ALLA RUBRICA:https://artesettima.it/2019/04/07/fellini-lunico-vero-realista-e-il-visionario/
Il mare d’inverno ha un fascino tutto particolare, come quello dei ricordi d’infanzia; ha il sapore dei panini in spiaggia e l’odore della pelle cotta dal sole, ma al tempo stesso si sente l’eco delle risate ancora da venire, delle gioie che regaleranno le estati future. Quell’acqua gelida e grigia è una panoramica sullo spazio-tempo; grandangolo sulla storia in cui ricordare la propria vita passata, e osservare l’infanzia e gli sbagli di altri con una nuova maturità, con la giusta consapevolezza. Ha il fascino della speranza e della malinconia, come quello che Rimini ha rappresentato per Fellini e i vitelloni: una realtà asfittica da cui fuggire per aspirare al futuro e un nido a cui tornare per assaporare una dolce nostalgia.
Rimini, ma non solo. In quel buco nero di aspirazioni piccolo borghesi, di sane abitudini, di lavori familiari, si nasconde l’inferno di tutte le province del bel paese. Un nido pieno di amore e soddisfazioni a buon mercato, una bolla di vetro in cui i vitelloni possano dare libero sfogo a divertimenti e marachelle, sotto l’occhio attento di parenti e amici. Sembrano dei pesciolini rossi, i cinque mammoni, che girano in tondo per ingannare la noia di tutto il vuoto circostante, restando sempre intrappolati da quel margine di sicurezza che li tiene uniti. La loro vita è contraddistinta dalla farsa, che non si trasformerà mai in tragedia. Scientemente decidono di non fare il tuffo nell’oceano dell’età adulta. Scelgono di rifuggire scelte e responsabilità per godere dell’innocenza dei loro giochi; biasimati dalla comunità, che però si bea di poterli tenere ancora lì, sotto controllo, come intrappolati.
Una voce fuori campo ci introduce a queste vite picaresche, ci presenta uno a uno i vitelloni; ci dipinge questa realtà immobile, impressa nella pietra. C’è Fausto, donnaiolo narcisista sempre a rincorrere qualche gonnella. Senza porsi limiti di fronte a differenze di età o di posizione sociale, e senza riguardi per il dolore della dolce Sandra, della responsabilità verso suo figlio, del rispetto di suo padre; lussurioso travolto dal vento che spira tra le strade della città, si infila tra i portoni e sotto le gonne, fermato solo dalla rete della solitudine e dell’abbandono. Oppure Alberto, il mammone per eccellenza, mantenuto dalla sorella, coccolato dalla madre, prova a fare il padre con scarso successo; Pierrot in riva al mare, che nasconde dietro risate grasse e falsi sorrisi tutto il disagio della dipendenza materiale e sentimentale.
Sullo sfondo del palcoscenico, si muovono gli artisti della comitiva: Riccardo, il cantante, e Leopoldo, il poeta e commediografo. Il primo più preoccupato della linea che della voce, troppo preso dalle feste e dalla vita mondana per preoccuparsi della carriera. Il canto è solo un vezzo, un modo come un altro per essere protagonista nella vita degli altri, per paura di essere messo da parte. Gioca a fare il juke-box umano, cantando su richiesta canzoni di altri per la gioia di altri. Il secondo, invece, si dà arie da artista maledetto, scrittore visionario e incompreso. Condannato ad essere l’unico faro di conoscenza in una comunità intrappolata nella nebbia dell’ignoranza, usa ad arte la storia della sua commedia per accalappiare ragazze credulone. Ma Leo in fondo si sente un pesce rosso, sa di non essere capace di sfidare il mondo dell’arte, rischiando di finire tra le fauci di squali attempati e affamati di carne fresca. Per questo non completerà mai la sua opera e rifiuta le proposte indecenti, non per principio ma per semplice pusillanimità.
Sono tutti legati a un destino un po’ scelto e un po’ subìto, alimentato dalle aspettative che la comunità pone su di loro; ansie negative che spingono queste vergini della vita adulta sempre più in profondità, dentro un labirinto pirandelliano, dritte nelle fauci del minotauro piccolo borghese. I vitelloni sono carnefici, ma soprattutto vittime. Sono sacrificabili in nome e per conto di altri, sono danni collaterali accettabili, per concedere sogni tranquilli a tutti, o quasi. L’unico che sembra volersi slegare da tutto questo per tracciare il proprio sentiero è proprio il più timido e ingenuo, Moraldo. Proiezione ideale dello stesso regista, che gli affida il carattere da sognatore, l’amore per le persone e l’empatia per quel piccolo mondo antico rappresentato dal giovane ferroviere.
E se Fellini non avesse veramente intenzione di dare una visione così ascetica di se stesso? Se fosse l’intera comitiva a rappresentarlo? Se questo caleidoscopio di desideri di evasione, sogni frustrati, paura di fallire, fossero tanti aspetti della stessa persona? In realtà, i vitelloni sono tutti Fellini. Manifestazioni dei suoi lati oscuri e biasimevoli insieme a quelli ammirevoli. Un ritratto picassiano del regista, che ci mostra la realtà visibile, e cioè la fuga in treno di Moraldo nella notte per assecondare la sua fame. Ma che rende evidente anche il suo lato oscuro, quello nascosto alla vista: come i primi anni a Roma, superati grazie al sacrificio di sua madre e sua sorella accorse a vivere con lui; come le ansie sul proprio aspetto fisico, che alimentano le gelosie all’indomani del matrimonio; come la sua passione per le donne, ma l’amore unico per la sua personale Sandrina, la moglie Giuletta; e infine la paura di essere incompreso, di passare da genio a bluff in un attimo, nella Roma ostile.
“Il cinema è il modo più diretto di entrare in competizione con Dio”
I vitelloni sono la genealogia di un genio. Il dio incarnato, che scende sulla terra per mostrarci il suo volto umano e profondamente mortale. Per mostrarci una vita fatta di umiliazioni e lampi di genio, di insicurezza e inadeguatezza, ma anche di forza d’animo e convinzione. Un quotidiano gretto e umile, ma anche profondamente umano e solidale. Nei vitelloni, il profeta onirico ci mostra la strada da seguire per non accontentarsi, per puntare alla luna pur partendo dai campi, come Gagarin. Ci invita a seguirlo su queste scale che, abbandonando le illusioni dell’infanzia, portano dritti tra le stelle.