Le notti di Cabiria
RETROSPETTIVE D’AUTORE: IL FAVOLOSO MONDO DI FELLINI – QUI TROVI L’INTRODUZIONE ALLA RUBRICA
Idioti di tutti i paesi, unitevi! Romantici, ingenuamente belli nell’animo, puri di cuore, stringete i ranghi sotto l’egida del principe Myskin, l’idiota per antonomasia di dostoevskiana memoria. Seguite l’esempio del più puro dei puri, il don Chisciotte descritto da Cervantes; camminate nelle notti di Cabiria, la prostituta più delicata e ingenua che desidera l’amore vero come un’adolescente.
Lanciate il guanto di sfida a questo mondo crudele ed egoista, provate a scardinare i pilastri di questa società cannibale, decantate le lodi di questa utopia etica in questo periodo oscuro. E non abbiate paura delle conseguenze a cui andrete incontro, non temete offesa alcuna o sopruso, ma camminate sempre a testa alta lungo il sentiero della purezza; consapevoli che il sacrificio, per quanto duro possa sembrare, sarà sempre trampolino per una nuova rigenerazione. In questo o nell’altro mondo.
Ed effettivamente, nella caparbietà con cui Cabiria si rialza, delusione dopo delusione e offesa dopo offesa, c’è un atteggiamento profondamente cristiano. Nella sua profonda ingenuità, che in realtà non è altro se non cieca fiducia nella bontà della vita, Fellini ha voluto chiudere e racchiudere il cerchio neorealista iniziato nei suoi film precedenti.
La sua forza di volontà, stretta in un corpicino che poco ricorda quello delle matrone e prostitute romane del dopoguerra, è la chiave di volta di tutta la sua poetica. Questa voglia incontrastata di sacrificio, scambiata per stupidità e subito additata a entrambi i capi dello schermo, è la forza che muove questo personaggio. Il Cristo dei poveri che regala amore senza nulla in cambio, una luce che illumina le notti di Cabiria, in cui perdersi tra il fango e le retate della buoncostume.
Ma se il castello della forza d’animo della dolce Charlot in gonnella, regge sotto gli urti delle delusioni, una domanda resta senza risposta. Esiste un mondo per chi sceglie l’ingenuità? Esiste una società in cui quelli che Dostoevskij chiama “totalmente belli”, possano smettere di essere gli idioti?
Nelle sue peregrinazioni Cabiria non riesce a trovarne uno adatto, pur rimanendo sempre fedele a se stessa. Persino nel suo habitat, tra le sue colleghe e amiche, si sente spiazzata e fuori luogo; sa di non essere come le altre, ne subisce gli insulti e lo scherno, ma tira avanti per la sua strada sperando un giorno di poterne fare a meno.
Non riesce ad accontentarsi, a essere vuota come loro, a rinunciare ai sogni; non vuole vendere il suo corpo solo per i soldi, cerca l’affetto. Come se l’amore possa mai essere motivo di biasimo.
Per questo scappa dalla passeggiata archeologica; rompere la monotonia delle notti di Cabiria, con le solite chiacchiere e le stesse persone. Cambia aria la biondina, preferendo Via Veneto, una strada della Roma bene. Baluardo di quella società patinata e borghese che la piccola prostituta può solo sfiorare, in una notte solitaria.
E qui ritrova l’imprevisto, l’incontro fortuito e la fiducia nella vita finalmente ripagata: incontra un attore famoso, che gli chiede compagnia. Sembra un sogno che si avvera, ma è tutto troppo bello per essere vero. Si ritroverà sul pavimento del bagno, a guardare dallo spioncino la vita che desiderava. Sfruttata e usata, una volta tornata inutile può anche esser buttata via, come una pezza o come un cagnolino disubbidiente.
Ci vorrebbe un miracolo per tirarla fuori dalla borgata. Le mani di un santo sono l’unico modo per venire via dalle sponde fetide del Tevere, dove vivono tutti gli sbandati e i diseredati. Ma anche Dio si è dimenticato di loro. In mancanza di una volontà di venir fuori da quel pozzo, credo e fede sembrano delle superstizioni al limite del pagano; e la gita al santuario è solo una salvezza a buon mercato, per chi non ha speranza in null’altro.
Senza un reale cambiamento, una presa di coscienza della propria condizione di peccatori, il tutto si riduce a cera sciolta e formule imparate a memoria. Buone per creare facili alibi e assoluzioni posticce, ma inutili di fronte a un sogno grande come quello che abita le notti di Cabiria.
«È meglio essere infelici, ma sapere, piuttosto che vivere felici… in una sciocca incoscienza».
(Fedor Dostoevskij)
E l’ha capito anche la piccola Charlot, quando urla la sua delusione, che se non si cambia non c’è miracolo che tenga. Che bisogna partire da sé stessi, prima di pretendere che il mondo ci segua. Che gli esempi sono quelli che trascinano, non le parole buttate al vento come scorregge.
Ma ha bisogno di un’ultima spinta prima di poter ripartire da zero; non riuscirebbe mai a gettare alle ortiche tutto, se non ci fosse la promessa di Oscar. La sua ultima fiamma, incontrata al varietà; mentre in cima a un palco recitava la sua vita e i suoi segreti, presa in giro dall’ennesimo uomo sprovvisto di un cuore. Il matrimonio si rivelerà l’ennesimo, ultimo inganno. Cabiria si ritrova al punto di partenza, sul ciglio di un burrone derubata e abbandonata, senza più nulla e senza una casa a cui tornare. Intrappolata nell’uroboro della sua vita.
Non c’è più nessuno che cammina nelle notti di Cabiria. È sola, e proprio specchiandosi nell’infinito di quel lago che si stende ai suoi piedi, ritrova se stessa. Rivede il suo viso rigato da una solitaria, singola lacrima, versata al funerale del suo mondo. Sorride ora Cabiria, perché non ha più paura. Non ha paura della solitudine, non ha bisogno di avere accanto qualcuno che le dia la sicurezza di essere meritevole di amore.
Racchiuso in quel sorriso c’è un manifesto: l’emancipazione di una donna in un mondo a lei ostile. Un mondo che la vuole sottomessa e obbediente, che le dice cosa fare e quando farlo. Una società che l’ha ingannata con lo spettro del dominio, spacciandolo per amore. Nel sorriso di Cabiria, in quella lacrima da Pierrot, c’è tutta la voglia di libertà di una donna che finalmente basta a se stessa.