I’m Here – Amore ed Empatia nel cortometraggio di Spike Jonze

Carmine Esposito

Febbraio 26, 2020

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Cos’è l’empatia? Per i seguaci della cristianità o del divino in generale, l’empatia è testimonianza diretta dell’anima; è l’esempio del carattere sovrannaturale insito nell’essere umano. La caratteristica che definisce e distingue gli uomini dalle bestie, dalle macchine. Per chi invece è ateo o materialista, l’empatia è solo un processo mentale come tanti altri; una ben precisa successione di contatti elettrici tra neuroni, che porta il cervello a prendere una decisione. Un sentiero sinaptico, nascosto nella giungla della mente, percorribile da chiunque: esseri umani, animali e anche robot, come il protagonista di I’m here.

I'm here

Sheldon è un automa, o meglio, un androide. Ha una forma quasi antropomorfa, al di là degli arti e della testa quadra; conduce una vita che potrebbe definirsi umana, tra lavoro, mezzi pubblici e sporadiche chiacchierate con sconosciuti compagni di sventura. Ma in lui c’è una luce diversa, una più marcata consapevolezza della sua essenza di automa, con tutti i limiti del caso di fronte all’umanità. Sembra quasi essere un’intelligenza artificiale archetipica, vincolata alle leggi della robotica di Asimov. Lavora per arricchire l’umanità, è un cittadino rispettabile, ma al tempo stesso non viola le regole che quegli umani che lo sfruttano gli hanno imposto.

1. Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno.
2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non vadano in contrasto alla Prima Legge.
3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché la salvaguardia di essa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge.

Le tre leggi della robotica – isaac asimov

C’è solo una piccola falla in questo perfetto sistema matematico: il piccolo robot impara. Scopre quei sentieri empatici nascosti nel suo cervello artificiale, che lo portano a sentire l’altro, a immedesimarsi e percepirne la sofferenza come fosse propria. Impara a inorridire, osservando un suo simile, vittima di un incidente. Non riesce a restare indifferente, concentrandosi sul lavoro o su poche chiacchiere distratte; unico tra tutti, a credere nel dolore di una creatura priva di emozioni. Spaventato da queste novità, si sente inadatto e profondamente estraneo al mondo circostante. E se tutto questo fosse solo un bug nel suo software?

I'm here

Imparando l’empatia, apprende cosa sia il dolore. Senza l’appiglio di leggi e regole su cui basarsi, si sente sperduto in questo oceano di emozioni. Cerca conforto, una comunanza con altri come lui, ma si trova di fronte a degli automi veri. A esseri totalmente refrattari, gusci vuoti di razionalità e legge. Incapaci di comprendere la profonda drammaticità di una frase, “I’m here”, che suona come l’urlo disperato di un’esistenza che lotta per sbocciare. Si sente come Roy Batty al largo dei bastioni di Orione, esterrefatto di fronte alla realtà che si svolge davanti ai suoi occhi e alla ricerca di compagni per una nuova avventura.

Quite an experience to live in fear, isn’t it? That’s what it is to be a slave. – Roy Batty

Francesca, invece, è la Pris perfetta; la incontra mentre aspetta l’autobus, nell’ennesima giornata anonima. A lei non importano le regole, non vuole neanche sembrare un robot: guida, scherza, si prende gioco delle persone che la osservano inorridita. “I’m here“, per lei è una filosofia di vita. Sheldon se ne innamora appena la vede, riconosce in lei l’unica compagna possibile con cui condividere questo viaggio esistenziale. Come i loro analoghi dickiani, fanno esperienze precluse a cervelli artificiali. Diventano più umani di quegli umani che nulla pretendono dalla vita, che vivono come pecore imbelli. Sfidano le convenzioni, sfidano la scienza che li vuole gelidi e indifferenti. Trovano l’uno nell’altro la forza e la voglia di superarsi, di migliorarsi.

I'm here

Come Roy e Pris, nell’immaginario di Philip Dick, anche Sheldon e Francesca sono agenti del caos. Sono fiamme vive di un nuovo Prometeo, che combatte contro l’avanzare della “polvere”, contro il predominio dell’entropia, che si presenta sotto forma di omologazione e annullamento di ogni immaginario deviante. Sheldon, un pezzo alla volta, sacrifica tutto di sé pur di continuare a far vivere Francesca, e con essa continuare a dire “I’m here“. Ci sono, sono qui, con te e dentro di te. Dioniso robotico si fa in pezzi, per essere fagocitato e rinascere nell’esistenza di un altro, per moltiplicarsi nell’altro. In barba a ogni razionalità.

But then I realized how unhealthy it was, sensing the absence of life, not just in this building but everywhere, and not reacting—do you see? I guess you don’t. But that used to be considered a sign of mental illness; they called it “absence of appropriate affect”.

“Do Androids Dream of Electric Sheep?” – Philip k. Dick

Cosa distingue gli umani dai replicanti? Secondo Rick Deckard, che di androidi se ne intende, l’empatia. La loro capacità di avvertire dolore altrui, di farlo proprio, di adoperarsi per farlo smettere. Ma che empatia può mai avere un uomo che uccide esperienze, ricordi, relazioni? Reali, anche se robotiche. Come si può considerare un replicante come un semplice ammasso di circuiti, senza considerarne il vissuto? Lo stesso Rick, alla fine della sua missione, deciderà di abbandonare il suo lavoro. Debitore della vita allo stesso Roy, che così facendo si autocondanna a morte, non può più ritirare pezzi di ferraglia senza battere ciglio.

I'm here

E quindi, che speranza cercare nella signora della fermata, che urla a Francesca di non guidare? Oppure in chi si lobotomizza davanti alla tv o a un cellulare? Che speranza nei tanti che vivono loro malgrado, troppo legati alla stessa routine? L’uomo moderno si sta tramutando pian piano nella sola e sterile rappresentazione di se stesso. Non si interroga più sulla propria esistenza, non si sacrifica per il bene di altri, non immagina e crea mondi per il suo piacere; conduce un’esistenza votata all’alienazione e al sacrificio. È la polvere esistenziale profetizzata da Philip Dick, è una patina grigia che tutto inghiotte e riduce allo stato larvale ogni essere, più o meno vivente.

Di fronte al sonno della ragione, l’illogicità di un robot è un atto rivoluzionario. Di fronte a un mondo che punta tutto sulla razionalità, sul rispetto cieco delle regole, sulla tirannia degli algoritmi, un computer che impara la poesia del dolore è una spinta contro l’entropia, contro l’assopimento delle forze universali del caos che governano le nostre esistenze, quei moti che ci feriscono, che ci sballottano contro le difficoltà, ma che ci rendono però profondamente umani. “I’m here” dovrebbe essere il nostro nuovo barbarico “Yawp!”. Dovremmo seguire le orme di Whitman e Walden, tornare nelle foreste a riscoprire le nostre radici, a suggere tutto il succo della vita, e riscoprire così il piacere di un amore illogico, e profondamente poetico.

I’m Here di Spike Jonze:

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