Finale di Taxi Driver – Il grilletto giusto al momento sbagliato

Gianluca Colella

Marzo 20, 2020

Resta Aggiornato

Tanto si sta scrivendo sul significato delle narrazioni antieroiche e, dopo l’uscita di Joker, Taxi Driver (1976) di Scorsese è stato riscoperto dal pubblico.

La storia di Travis è un coltello che affonda nel cuore della gente comune perché l’impietoso caso che governa il suo fato è sotto gli occhi di tutti gli spettatori: se egli è un disadattato e un alienato, è solo ed esclusivamente perché ha difficoltà a farsi accettare in una società che non lo accoglie.

È inetto, sbagliato e fuori luogo come tanti, ma solo lui sviluppa un vissuto così radicalmente incompatibile con la New York del 1975.

Credendo di compiere buone azioni, Travis vaga per le strade di una degradata città che lo disgusta; prostitute, sbirri corrotti e impiegati anonimi entrano ed escono dal suo taxi. Queste nullità sono burattini di potenze immorali più grandi, ed è contro ciò che Taxi Driver si scaglia.

Il senatore Palantine è il bersaglio delle proiezioni di Travis: diventa simbolo di una colpa individuale e collettiva, che l’uomo deve espiare; la voce psicotica inascoltata del protagonista sceglie di farsi sentire con la forza dei proiettili, pensando a un attentato.

Disturbato dalla scorta del politico, il criminale fa in tempo a recuperare coscienza e fuggire; gli avvenimenti successivi sono il nucleo della sua leggenda.

L’uomo comune, la missione speciale

Il finale di Taxi Driver è la resa dei conti della dialettica tra caso e volontà: per quale motivo il cattivo può farsi eroe?

Taxi Driver

Travis: «Oggi è l’otto giugno, la mia vita ha preso di colpo un’altra piega, i giorni passavano senza niente di nuovo uno dopo l’altro, impossibile distinguerli, tutti uguali, tutti in fila. Poi all’improvviso ecco il cambiamento».

Sicuro di avere ragione di fronte alle colpe del mondo, Travis fantastica sul ruolo di Palantine nel processo di degrado, identificandolo come il male. Un semplice Taxi Driver diventa improvvisamente giudice, giuria e boia del potere inteso come sfruttamento, alienazione e discriminazione sociale.

A un uomo semplice e inutile arriva dal nulla l’ispirazione di una biblica missione salvifica, animata dalla volontà di purificare l’Umano. Ma dove sta davvero andando, Travis, quando inizia ad allenarsi e acquista le pistole per realizzare il suo intento?

Esibirsi a petto nudo davanti allo specchio lo rassicura sulla sua mascolinità e quindi sul suo ruolo nella missione che si è attribuito: “perché dovrei desistere se quello che vedo mi piace così tanto?“, sembra recitare il manifesto della sua autostima.

Ciononostante, mai abbastanza sarà sottolineato che il Taxi Driver protagonista di questo racconto altri non è che un nessuno qualunque, l’anonimo strumento di un’idea e di una volontà più grandi e incomprensibili di lui.

Trascendendo l’eterna dialettica etica tra Bene e Male, Travis s’illude di diventare l’Oltreuomo, mentre invece la sua improvvisa ispirazione sociale non lo libera dalla mediocrità che avvolge la sua persona.

Pistole e proiettili diventano il simbolo della mediocrità che prova a farsi notare, che a tutti i costi desidera emergere.

Evitando il rischio di adottare giudizi valoriali, e restando sul semplice piano della descrizione, dunque, cosa si verifica nel momento in cui Travis sceglie di spararli quei proiettili che ha acquistato?

L’unico modo per capire davvero, forse, il significato di Taxi Driver è assecondare il filo casuale del destino di Travis, gli avvenimenti che seguono l’attentato fallito.

Un destino che lo porterà anche lontano da Betsy, la fanciulla dei suoi sogni, corteggiata e poi abbandonata. Ella è la ragazza ideale, l’aspirazione dell’americano medio, ciò che il protagonista è prima di abbandonare i sentieri della mediocrità.

Il caso, la morte e la vita

Il finale di Taxi Driver è la resa dei conti della dialettica tra caso e volontà: per quale motivo il cattivo può farsi eroe?

Taxi Driver

Travis: «Adesso vedo con chiarezza che la mia vita ha avuto un solo scopo, adesso l’ho capito. Non c’è mai stata altra scelta per me».

Recandosi nella strada dove la tredicenne Iris si prostituisce, Travis sembra spegnere la propria empatia e, in preda a un improvviso scatto psicotico, estrae le pistole.

Lo scontro è frenetico, caotico e brutale: il raggiungimento del climax è orchestrato perfettamente da Scorsese, e De Niro esprime al meglio il delirio d’onnipotenza di Travis.

Dopo aver sparato sul protettore di Iris, sull’affittacamere e su un mafioso ebreo, questo mediocre uomo si accascia sul divano, si punta una pistola alla tempia e preme il grilletto.

Le munizioni esaurite sono l’ennesimo segnale lanciato dal destino: una volta che ha scelto di fare l’eroe, Travis deve anche assumersi la responsabilità delle conseguenze. Per tale motivo, la New York che lo celebra come eroe metropolitano sulle pagine dei giornali gli risulta sconosciuta.

Il tentato suicidio conta più dei tre omicidi realizzati: Taxi Driver è un capolavoro perché fornisce testimonianza di un’escatologia che non c’è, di un happy ending assente per definizione.

Il peso delle azioni compiute schiaccia il protagonista, che vede solo nel suicidio una fine degna della sua narrazione.

Il motivo per il quale quello premuto da Travis è stato il grilletto giusto al momento sbagliato consiste nella fatalista partita a dadi tra Vita e Morte, che giocano con l’esistenza di una non-persona.

Quello che il finale di Taxi Driver sembra sostenere, infatti, è che l’intimo desiderio di Travis non fosse quello di purificare il mondo che non lo accetta dai suoi peccati, quanto auto-distruggersi proprio in quanto soggetto inaccettato.

Si tratta di un capovolgimento di responsabilità sottile eppure decisivo: la retorica antieroica del film funziona non solo perché mostra un contesto degradato e sbagliato, ma anche perché troviamo un uomo alienato che tutto sommato non fa davvero nulla per non esserlo.

Il finale del film, a tal proposito, giunge al momento perfetto perché dona un senso dinamico e intollerabilmente inconfutabile rispetto alla verità psichica di Travis, capriccioso e cinico, romantico e psicotico.

Non riconoscendo il limite del dato di realtà e incapace di adattarsi, il suo Io evacua l’intima aggressività nel modo peggiore e paradossalmente migliore: ma se dall’altro lato della pistola c’erano dei criminali e non un politico, ciò è avvenuto per puro caso.

Alla resa dei conti di questa narrazione noir e umana, troppo umana, contattiamo la disperazione di Travis riconoscendo che il dramma di cui è portatore è lo stesso che ci affligge tutti, membri di un consorzio umano che fatica sempre più a fondare le formazioni d’appoggio di un lavoro culturale intersoggettivo comune.

Per quanto riguarda Betsy, colei che fu la donna dei suoi sogni, invece, ella aveva rifiutato Travis quando egli era un banale nessuno; ora che è qualcuno, è lei a cercarlo, e stavolta l’antieroe si sente nel pieno diritto di ignorarla, forte del prestigio che ha acquisito senza cercare. Il suo taxi si allontana dalla donna, silenzioso e imperscrutabile.

Per questo, dunque, come una pallottola, il finale di Taxi Driver ci esplode in faccia, inesorabile: l’assenza di senso è l’etica universale di tutti quelli che lo cercano, un senso.

Leggi anche: La Dialettica tra Favola e Realtà nella Narrativa Americana Contemporanea

Correlati
Share This