Gandalf e il Balrog – Esorcismo a Khazad-dûm

Carmine Esposito

Aprile 27, 2020

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Gandalf e il Balrog- Esorcismo a Khazad-dûm

Moria si stende come un labirinto. La Compagnia dell’anello si aggira tra volte scure, nei saloni vuoti alla ricerca della strada fuori di lì. Senza filo di Arianna è difficile orientarsi in quel dedalo di buio e ombre. Doveva essere la fiorente città miniera dei nani, ma di quella storica e magnifica civiltà poco è rimasto; oltre alla miniera scavata nella montagna, ci sono i cadaveri disseminati per terra come una pavimentazione aggiuntiva.

Gimli era convinto di trovare suo cugino Balin lì ad attenderli, a braccia aperte, pronto ad aiutare l’impresa del gruppo; potrà ritenersi fortunato di trovare i topi che si sono nutriti del suo cadavere putrefatto. Chi è stato? Forse i Goblin, a giudicare dalle frecce; ma quanti dovevano essere per sterminare tutti? Gandalf si guarda intorno, gli occhi provano a penetrare il buio, ma sembra di penetrare senza successo il sipario nero del Grand Guignol.

Gandalf

Il mago lo sapeva, sentiva qualcosa dentro di sé che gli consigliava di evitare a tutti i costi i cunicoli di Moria.

La strada più semplice sarebbe stata passare la Breccia di Rohan, ma questo avrebbe voluto dire passare sotto gli occhi di Saruman; che benvenuto gli avrebbe riservato il nuovo accolito di Sauron? Sicuramente non con tè e pasticcini. L’alternativa più sicura, allora era il passaggio di Caradhras, su per le montagne. Ma sembra che il destino avverso spinga Gandalf, e la Compagnia con lui, dalle stelle alle stalle.

Dalla cima della montagna Crudele, fin nelle viscere della Terra di Mezzo, nei tunnel di Moria. Tra l’altro, è impossibile ormai tornare indietro. L’entrata della miniera è crollata, sbarrando il passaggio; dietro le macerie resta, in agguato, il mostro del lago, ennesimo testimone di una natura ostile.

Non gli resta che andare avanti, proseguire per quel viaggio come formiche che vagano nella tana del Minotauro.

La città di Dwarrowdelf è una foresta di pietra che si staglia verso il nero infinito dell’abisso. File e file di colonne a mantenere una volta immensa, come un cielo stellato in una notte senza luna; è la massima espressione della magnificenza dei nani, una reggia immensa tramutata in fossa comune.

Il puzzo dei cadaveri ammorba l’aria nei cunicoli, ma lì si disperde nell’ambiente vasto. La tomba di Balin racconta una storia di fantasmi, di tamburi nella notte e di spiriti che affollano le gallerie. Orchi e troll delle caverne, che ancora affollano quelle gallerie senza vita e che preparano l’agguato a Gandalf e alla Compagnia dell’Anello.

La battaglia è dura e senza quartiere, ma con la forza e un pizzico di fortuna la compagine sgangherata riesce a cavarsela. Ma Gandalf lo sa, lo sente nelle viscere, che lo scontro vero non si è ancora svolto. Nel buio si nasconde qualcosa di più pericoloso degli orchi, che sciamano come blatte al calare della notte; l’abisso dà rifugio a demoni ancestrali, a paure che ottenebrano l’animo e che sbilanciano la sanità mentale.

Ricoperto da fiamme di fuoco, che spandono riflessi tutto intorno, il Balrog viene fuori dal baratro; spirito del fuoco, come un mammut conservato nel ghiaccio, si nasconde nelle segrete di Moria sin dalla preistoria della Terra di Mezzo.

Gandalf

Come ogni demone che si rispetti, si alimenta delle angosce, delle zone grigie della mente, dove si annidano le insicurezze; la sua forza è il dubbio, il passo falso dell’uomo sotto pressione, la coscienza sporca che suggerisce il tradimento. Scappare è inutile, perché ognuno si porta un demone dentro, come una piccola calamita che attira Balrog, Legione, Pazuzu, e tutti i loro simili. E Gandalf è troppo vecchio, troppo tempo ha solcato il suo volto, per non saperlo. O forse lo sa, sa perfettamente che nessuno della Compagnia può sfuggire all’ira o, peggio ancora, combattere il Flagello di Durin.

E allora che senso ha la fuga? Che senso ha dirigersi in una folle corsa verso il ponte di Khazad-dum?

«Mentre costeggiava le rovine, la sua andatura si fece più lenta. A ogni passo quel presentimento ancora indefinito assumeva una forma sempre più precisa, più terribile. Avrebbe dovuto saperlo da tempo. Si sarebbe dovuto preparare. […] Si trovava sulla piccola collina dove sorgeva la splendente Ninive con le sue innumerevoli porte, il terribile covo delle schiere assire. Ora la città giaceva distesa sulla polvere rosso sangue della sua predestinazione. Eppure era lì, l’Altro che popolava i sogni, l’aria ancora densa della sua presenza. […] Il manto di un’agghiacciante certezza gli avvolgeva il cuore. Presto avrebbe dovuto affrontare un antico nemico».

(William Peter Blatty – “L’esorcista”)

Sin da quando Gimli ha nominato Moria, Gandalf ha avvertito quella sensazione. Una sorta di brivido che gli correva lungo la schiena, la consapevolezza di dover evitare quel posto a tutti i costi. La sicurezza incrollabile, che nelle vacue spelonche di Khazad-dûm un antico nemico lo stesse aspettando; sarebbe toccato a lui combattere l’ennesimo round di questo scontro infinito tra luce e oscurità, contro un nemico fino ad allora sconosciuto.

E ora? Ora non c’è scelta, se non correre per la vita, per salvarsi e proteggere l’anello. Correre sul filo di terra che corre sospeso sul baratro, per evitare che il Balrog possa allungare un’ombra definitiva sulla missione della Compagnia dell’Anello.

E ora Gandalf è lì, ritto in piedi sul ponte e guarda negli occhi il suo nemico. Il Baphomet di fuoco, fiamma di Udun, è a un passo da lui e lo scontro eterno si rinnova. In un universo parallelo si svolge uno scontro simile. Nel deserto dell’Iraq, padre Merrin guarda negli occhi il demone Pazuzu, lo spirito maligno dispensatore di malattie e distruttore di gravide; ingerisce una pillola di glicerina per aiutare il suo debole cuore, ma non tremola di fronte alla minaccia dell’oscuro signore.

Come Gandalf, è stanco, schiacciato dal peso della Storia che si appoggia tutto sulle sue gracili spalle; nel petto solo un piccolo dubbio, la paura di tirare le cuoia senza liberare il mondo da quell’abominio.

Gandalf

Negli occhi del prete e del mago c’è la forza della disperazione, la consapevolezza della morte a un passo. Tanto vale allora morire con le armi in pugno; uno con la spada e il bastone, l’altro con il rituale romano e l’acquasantiera. Nelle mani di Gandalf una luce capace di tagliare anche il buio più pesto, eredità degli alfieri della fiamma di Anor; il Balrog modella le fiamme come Efesto, per ottenere di volta in volta armi diverse, una spada prima e una frusta poi.

Lo scontro esplode, quando il flagello di Durin abbatte la sua lama di fuoco come un maglio sul mago; ma Gandalf non arretra di un passo; senza fretta, ma senza tregua, resiste. Colpo su colpo.

«Ecco, io penso che il vero obiettivo del demone non sia la vittima. Penso che siamo noi… gli osservatori… tutte le persone in questa casa. E credo che lo scopo sia farci perdere la speranza, farci rinnegare la nostra umanità, Damien. Farci vedere la nostra stessa bestialità, la nostra natura abietta, putrescente, priva di dignità, orribile, malvagia, insignificante. E qui forse è il nocciolo di tutto questo, Damien: il nostro essere senza valore. Per questo credo che la fede non sia questione razionale, per nulla. È una questione d’amore. Accettare la possibilità che Dio possa amarci…».

(W. P. Blatty – “L’esorcista”)

In fondo, cos’è un demone? È solo il fuoco che divampa sulla legna del nostro autolesionismo, della nostra autocommiserazione; è la croce del ladrone, portata sulle spalle non per l’immortalità del cristo, ma per la nostra inesorabile fallacia. È il vaso di Pandora, ricolmo di tutti i nostri difetti, i biasimi che accumuliamo giorno per giorno, come una dispensa piena di alimenti da dare in pasto al dolore.

Per Gandalf, il Balrog è uno scrigno pieno del senso di colpa di Frodo, della sua incapacità di distruggere l’anello da solo; della fiducia di Aragorn, che solo in lui vede qualcuno capace di aiutarlo. Del pressapochismo di Merry e Pipino, partiti all’avventura come fosse un picnic; del sangue che pian piano viene fuori dal cuore candido di Sam Gangee, costretto in una situazione più grande di lui, che gli strapperà quella luce ingenua dagli occhi.

Il mago sente su di sé la preoccupazione degli altri componenti della Compagnia. Frodo lo chiama, è sgomento, un passo indietro in questo momento metterebbe in seria discussione l’esito di tutta l’impresa. E proprio lui, Gandalf il grigio, non si può permettere di far crollare tutto, per paura o insicurezza. Il sudore gli stilla copioso dalla fronte, gli annebbia la vista, gli spezza il fiato; ma sputerebbe sangue, prima di abbandonare la sua posizione.

Urla con la poca aria che gli resta nei polmoni: “Tu non puoi passare!”. E d’improvviso, il vecchio lascia spazio a una nuova forza, una nuova determinazione; il caduco padre Merrin lascia il palcoscenico a padre Karras, il greco col profilo da pugile.

Gandalf non ha una risposta a tutto, non può portare su di sé i dubbi e le angosce di tutta la Compagnia; ma può dargli un motivo per tenere duro. Come Karras non può esorcizzare i demoni di tutti, ma può prendere il suo Pazuzu personale e lanciarsi nel vuoto. In quell’abisso nero, cucito come una coperta, con pazienza e un giorno dopo l’altro. O come una torre, fatta di milioni di mattoni e fiumi di malta, costruita per proteggere un equilibrio vacillante, e tenere fuori la realtà che minaccia la sanità mentale.

«Fuggite, sciocchi!». Ego te absolvo, Frodo. Ora puoi anche scappare, ma ricordati di me sul monte Fato, e giù nella lava non gettare solo l’anello, ma anche il mostro che abita dentro di te.

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