Tutto nell’arte è soggettivo, più o meno. I giudizi impopolari e il pensiero comune su un’opera si scontrano ogni giorno, nel cinema, nella musica e in ciò che più scatena un dibattito. I cinefili, anche i più intelligenti, ad alcune ardite affermazioni come «2001 di Kubrick è noioso» o «Suicide Squad è un film notevole», si infiammano, perché queste opinioni risultano sbagliate, come se fosse possibile veramente giudicare i gusti legittimi di una persona.
Cosa mette tutti d’accordo allora? Il linguaggio e l’innovazione pura. Nessuno direbbe che Bartolomeo Cristofori è sopravvalutato, ha inventato lui il fortepiano! (precursore del pianoforte). E Tenet di Christopher Nolan cosa c’entra con tutto questo? Un attimo e ci arriveremo.
Alcune opere cinematografiche sono intoccabili nel loro linguaggio. Ne La donna che visse due volte (1958) appare per la prima volta l’effetto vertigo, tecnica poi resa standard. Ovviamente tutto è rivalutabile, ma questo non significa che smetta di essere fondamentale per il progresso di una storia e di un linguaggio.
Nolan e Godard – Due ambiziosi
Il cinema del regista britannico è da sempre oggetto di dibattito, ma con Tenet sembra aver investito tutto su un nuovo modo di concepire il tempo nella narrazione cinematografica. Si tratta di una scommessa potenzialmente in grado di zittire i detrattori, costretti a riconoscere il cineasta come un innovatore del linguaggio cinematografico. Non ci sarebbe nulla di soggettivo in quel caso, solo dei fatti indiscutibili.
L’ambizione di Nolan nel prendere un concetto pre-esistente e renderlo nuovo non è una novità nella storia del cinema; chi è riuscito a fare lo stesso è Jean-Luc Godard. Era il 1960 quando uscì Fino all’ultimo respiro, un’opera rivoluzionaria nella sua identità e nel suo linguaggio, specialmente per il jump cut, un espediente presente nel cinema già dal 1896.
Usato come mero effetto di stupore, il jump cut nasce con Méliès e il suo film The Vanishing Lady, un anno dopo la nascita del cinematografo, eppure sarà solo nel 1960 che questa tecnica otterrà il giusto spazio. Sarà proprio il giovanissimo regista francese alla sua opera prima, che innoverà il linguaggio cinematografico con una tecnica già presente, ma in modo unico.
Il jump cut e Fino all’ultimo respiro
Quindi in cosa consiste il jump cut? È un taglio di montaggio della parte centrale di un’inquadratura, che spezza la continuità della scena in modo inaspettato. Questa scelta di Godard, usata moltissime volte in Fino all’ultimo respiro, ha due spiegazioni: una è legata alla durata prevista del film, mentre l’altra vede un utilizzo frequente del jump cut volto a una serie di ragioni molto importanti.
Vincent Pinel sui Cahiers du cinéma scrive che, a causa del minutaggio eccessivo dell’opera prima di Godard, quest’ultimo abbia dovuto tagliare sistematicamente alcune immagini in testa e in coda a ogni inquadratura, anziché sacrificare scene intere. Lo stesso Pinel aggiunge che questa leggenda è rivelatrice delle reazioni dei «professionisti della professione» dell’epoca, che accusavano Godard di ogni male, in quanto irrispettoso anticonformista, opposto a una delle regole fondamentali del montaggio classico.
Sessantaquattro anni dopo The Vanishing Lady di Méliès questa tecnica è concepita in modo nuovo e assolutamente memorabile nel film di Godard. Essa infonde una dinamicità unica, aggiungendo dubbio e mistero all’esperienza temporale dello spettatore.
«Quanto sono stati in macchina Jean Paul Belmondo e Jean Seberg?».
«Veramente il protagonista ha ucciso il poliziotto? Non si è capito bene».
Quest’opera è ancora oggi incredibile, per via del suo straordinario spirito anarchico. Spezzare la continuità del discorso filmico, per creare nuove possibilità di concepire in modo nuovo il tempo della narrazione cinematografica. Esattamente ciò a cui aspira Nolan, il tarlo che lo ossessiona da Following (1998), il suo primo lungometraggio. Tenet invece porta all’estremo questa sua ambizione incredibile di trovare sessant’anni dopo l’opera di Godard, un nuovo cinema che ha nel tempo la chiave di tutto.
Tenet, Fino all’ultimo respiro e il tempo
Spesso paragonato a Kubrick per una visione molto distaccata dal film e dai sentimenti espliciti, Nolan non è interessato a farsi coinvolgere dai protagonisti, non cede quasi mai a un racconto enfatico del sentimento. È anche indiscutibile, però, che sia legato soprattutto all’ambizione dei suoi personaggi. L’ambizione d’ingannare un amico per un tornaconto personale (Following); l’ambizione di sconfiggere la perdita di memoria (Memento); l’ambizione di trovare la speranza nello spazio (Interstellar).
Da questo suo coinvolgimento emotivo a volte minimo, a volte più forte, non riesce a non lavorare con la manipolazione del tempo, con il montaggio. Tenet più di tutti gli altri suoi film sembra un gigantesco pretesto, un grandissimo specchio per le allodole per il suo vero obiettivo, quello che raggiunse Jean-Luc Godard nel 1960. Mentre Fino all’ultimo respiro aveva una trama semplice ed esile, Tenet come spesso tutto il cinema di Nolan appare più complicato che complesso, più cerebrale che emotivo.
Per lavorare sul montaggio e raggiungere il suo scopo, niente è meglio del viaggio nel tempo, difatti come in Interstellar, Tenet sfrutta questo elemento per raccontare una bi-temporalità. Due flussi, due visioni opposte del tempo che appaiono nello stesso fotogramma creando qualcosa di veramente interessante.
Paradossalmente solo un giudice dirà se quest’ultima fatica di Nolan avrà raggiunto il risultato sperato. Non si tratta di critici, pubblico o incasso, ma dell’ossessione di un regista più ambizioso: il tempo.