Se nostalgicamente dessimo uno sguardo ai film in uscita nell’anno di grazia 1999 potremmo scorgere numerosi lavori destinati a rimanere nell’immaginario collettivo: è l’anno del visionario Matrix, dell’ultima fatica di Kubrik Eyes Wide Shut e della prima di Sofia Coppola che esordisce con Il giardino delle vergini suicide, della consacrazione di Shyamalan grazie a Il sesto senso, di grandissime trasposizioni cinematografiche come gli iconici Fight Club e Il miglio verde. Il 1999 è però anche l’anno in cui viene alla luce un altro film, diretto da un regista proveniente da Broadway, Sam Mendes, che per la prima volta si mette dietro la macchina da presa a dirigere quella che poi sarebbe diventata, a distanza di pochi mesi, la pellicola trionfatrice agli Oscar 2000: nell’ultimo anno del millennio, il cinema regala al mondo American Beauty.
Un racconto anticipatorio
American Beauty, pur essendo un film che non ha sicuramente la struttura rivoluzionaria di un Pulp Fiction, né tantomeno la visionarietà del già citato Matrix, è stato estremamente anticipatorio e potente.
Tanto per collocare il tutto in un contesto più ampio, American Beauty esce nelle sale due anni prima di quell’11 settembre passato alla storia come una delle pagine che ha cambiato il mondo, otto anni prima del fallimento della Lehman Brothers e del conseguente tsunami economico che ha travolto tutti, cinque anni prima della nascita di Facebook e ben undici prima di Instagram, precedendo in pratica inquietudini, insicurezze, crisi e fallimenti generazionali e raccontandocele alla maniera di Sam Mendes attraverso una fotografia in cui grigio, rosso e bianco si incastrano alla perfezione in un viaggio verso il tesoro (più o meno) nascosto del film: la bellezza.
Il grigio: incomunicabilità e fallimento
Nella prima parte del viaggio Lester Burnham è grigio, grigio come i vestiti che indossa, come la macchina che guida, come la sala da pranzo in cui è ben visibile la macchia rossa delle american beauties, le rose che danno il nome al film e che rappresentano una bellezza finta, costruita, effimera.
Lester è la personificazione del fallimento di un modello familiare che sfocia nell’incomunicabilità tra la generazione dei genitori e quella dei figli. Se all’esterno spiccano le rose che circondano il giardino e la porta rossa di casa Burnham, all’interno si disvela un teatrino fatto di disillusione e assenza di dialogo: al regista basta mettere in mostra una scena quotidiana, il momento della cena in cui padre, madre e figlia si ritrovano insieme, per farci capire come ormai tutto si sia trasformato in convenzioni (le candele sulla tavola), domande scontate e risposte altrettanto banali.
In American Beauty più che scontro c’è in effetti un’assenza di comunicazione tra genitori e figli, perfettamente rappresentata da un’altra scena, quella in cui la famiglia del colonnello Fitts siede al divano, in silenzio, a guardare la tv, ancora una volta nel grigiore di una stanza silenziosa.
Il rosso: la bellezza delle american beauties
Nel secondo atto del film Lester Burnham è rosso. Ciò che fa virare la tonalità è Angela, compagna di scuola di Jane, oggetto del desiderio e personificazione illusoria di un passato fatto di spensieratezza, felicità e gioventù.
Angela Hayes rappresenta in qualche maniera ciò che oggi spesso vediamo sui social network, ovvero una bellissima vetrina in cui molti cercano la straordinarietà per celare le proprie debolezze in un mondo in cui la normalità (soprattutto estetica) viene vissuta quasi come una sconfitta.
Lester è ammaliato da questa apparente straordinarietà, dal rosso delle sue labbra, dai petali di rosa che nelle sue fantasie ricoprono il corpo nudo della ragazza e finisce per intraprendere un percorso non così diverso da quello della moglie Carolyn: anche lui infatti si dedicherà esclusivamente a se stesso solo per diventare bello agli occhi di Angela, continuando a mettere da parte il rapporto con la figlia.
Tra rosso e bianco: Ricky Fitts
In tutto questo, il bianco inizia a prendere forma attraverso Ricky Fitts, il ragazzo enigmatico ossessionato da Jane, il quale per la prima volta spiega a lei (ma anche a noi pubblico) il concetto di vera bellezza.
Attraverso una busta (anch’essa bianca) che danza in primo piano con alle spalle una parete rossa di mattoni, vediamo per la prima volta la casualità della bellezza, di come si riesca a trovarla ovunque, più o meno nascosta ma comunque visibile agli occhi di chi sa cosa cercare e iniziamo a capire che in fondo Lester Burnham, nonostante la sua trasformazione, non l’abbia neppure sfiorata. Almeno fino a questo punto.
Il bianco: la Bellezza
Nell’ultima parte del film, Lester Burnham passa dal rosso al bianco, dal sogno di una giovinezza che non tornerà alla piena consapevolezza di cosa sia la vera bellezza. In punto di morte Lester finalmente riuscirà a vedere ciò che Ricky Fitts ha immortalato decine e decine di volte con la sua videocamera e ha custodito nella sua stanza bianca: la vera bellezza.
Entrambi, una volta che hanno imparato a vederla, ne percepiscono la straordinaria potenza, ne vengono travolti e ne subiscono le conseguenze, positive e negative, in quanto essa altro non è che una forza neutrale presente, ineluttabile, estranea alle convenzioni e alle dinamiche umane. Se Ricky Fitts l’aveva ritrovata anche in un barbone morente in quanto “atto di Dio”, noi spettatori la possiamo scorgere per ben due volte prima che Lester Burnham muoia.
La bellezza (Atto I)
La prima volta è nel colonnello Fitts rifiutato da Lester nel garage di casa sua: nella cornice grigia della saracinesca, del pavimento e della pioggia il padre di Frank si staglia grazie al bianco della sua maglietta mentre si allontana da casa Burnham, con accanto a lui il rosso della Pontiac.
Nonostante l’imbarazzo, la tristezza e il dolore, non possiamo far altro che constatarne la bellezza, quella di un uomo che per tutta la vita ha dovuto fingere perché parte di un mondo estremamente maschilista e che finalmente si spoglia della sua finta omofobia cercando conforto in un altro uomo.
La bellezza (Atto II)
La seconda volta la vediamo contemporaneamente a Lester quando scopre la verginità di Angela: coperta da una camicetta (anche in questo caso bianca) Angela ci svela la sua vera natura mostrandosi per la prima volta fragile e insicura, lei che ha sempre fatto credere a tutti di appartenere alla straordinarietà e invece ne è solo ossessionata al punto da doverne cavalcare l’onda indossando costantemente una maschera e circondandosi di ragazze più insicure di lei.
Paradossalmente, la sua improvvisa insicurezza diventa bellezza, quella vera, quella che finalmente pone Lester Burnham davanti alla consapevolezza di essere estremamente più grande di lei e che cancellando le sue fantasie erotiche lo riporta al suo ruolo di padre che sorride quando viene a sapere che sua figlia è innamorata, terminando così il suo viaggio.
La fine del viaggio
Con American Beauty Mendes è riuscito a raccontarci prima del tempo un’attualità in cui i rapporti inter e intra-generazionali sembrano essere sempre più in crisi, incastrati tra l’orizzonte nebuloso di cambiamenti sociali sempre più veloci e spaventosi e la ricerca costante dell’apparire, amplificata dai social networks, che spesso sfocia nell’egoismo.
Dopo quel 1999 il mondo è completamente cambiato ma la realtà descritta nel film, pur in altre forme, è presente anche oggi; ma così come sono visibili conflitti, difficoltà e paure, allo stesso modo è visibile quel bianco, quella bellezza che nel mondo c’è sempre stata e ci sarà sempre nonostante gli attentati, le guerre, le generazioni perdute, le pandemie.
American Beauty in fondo ci ha insegnato anche questo, a cercare la bellezza e a trovarla persino negli angoli più bui e meno scontati: cerchiamo di custodire questo insegnamento e aggrappiamoci ad essa, ora più che mai.