Metà in greco significa “attraverso”. La parola metacinema presuppone una riflessione sul cinema attraverso lo stesso. Il soggetto e l’oggetto vengono così a congiungersi e a identificarsi. C’era una volta a… Hollywood (2019) contiene in sé una profonda riflessione metacinematografica sotto vari aspetti. Vediamo quali.
C’era una volta a… Hollywood: la storia del cinema si racconta
In C’era una volta a… Hollywood, la fine degli anni sessanta è descritta fedelmente, nei suoi costumi, nella musica, nelle mode. Ovviamente a completare il ritratto di un’epoca, non può mancare il cinema di quegli anni e i protagonisti indiscussi della scena cinematografica della Hollywood di quel tempo.
Tarantino abbandona il suo usuale stile, per appropriarsi di una narrazione molto più lenta e descrittiva che possa, tuttavia, parlare del suo amore per il cinema e, in particolar modo, di quello che lo ha formato. Il titolo stesso è metacinematografico, giocando con le parole e riferendosi ai film del passato del suo Maestro, come C’era una volta in America (1984) e C’era una volta il west (1968).
Tra le strade della citta californiana, s’intrecciano diverse storie. Hollywood è narrata nella sua interezza: dal regista di successo Polański, alla giovane Sharon Tate e il suo lavoro nella slapstick comedy, dal declino di un attore famoso di serie tv, alla leggenda di Bruce Lee nei panni di Kato.
Perfino nell’inventare il ruolo del protagonista, Rick Dalton, Tarantino dissemina il film di citazioni sulla storia del cinema, raccontandoci così i suoi gusti e il suo amore per gli spaghetti western. Infatti tutti i film fittizi in cui recita Rick Dalton sono in realtà riferimenti a reali film: Red Blood, Yellow Gold e Ringo nel Nebraska.
Il regista, inoltre, utilizza un espediente molto interessante. Il lungometraggio interrompe la sua fluidità narrativa per proiettare veri e propri spezzoni di film (La grande fuga, Bastardi senza gloria), in cui anziché esserci l’attore originale, vi è Rick Dalton. La grandezza di Leonardo di Caprio è nel recitare il film nel film e nel recitarlo non come avrebbe fatto lui come attore, non emulando gli attori originali, ma agendo nei panni di Rick Dalton.
Uno spaesamento iniziale
Nel 1925, quando vi fu la prima dei Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, il confine tra realtà e finzione era stato eliminato. La distinzione tra il vero e il falso, come presupposto per il teatro, era stato superato, portando in scena ciò che avveniva dietro le quinte, durante le prove, generando non poca confusione negli spettatori.
L’inizio del film di Tarantino ci confonde, nello stesso modo in cui disorientò gli spettatori della prima dei Sei personaggi in cerca d’autore entrare in teatro e guardare le prove dello spettacolo e non lo spettacolo vero e proprio. Noi spettatori, comodi nelle nostre poltrone al cinema, iniziamo a vedere un film in bianco e nero con delle scene western. Per un attimo crediamo che il film sia quello, che possa essere effettivamente un western, ma in realtà siamo stati presi in giro.
Non guardiamo quello che avevamo creduto essere il film stesso, ma solo una pubblicità televisiva all’interno del film. Il lungometraggio è una matrioska, piena di scene nelle scene, in bilico tra finzione e realtà.
Dietro le quinte
Figlia del teatro, la cinematografia decide di ispirarsi agli espedienti metateatrali. Il cinema spezza la sua illusione, ci dice cosa c’è dietro alle scene, mostrandoci le macchine da presa, i set e le prove. Infatti, una buona parte del film di Tarantino è focalizzata nel raccontare una giornata sul set con Rick Dalton. Il regista decide di alternare la realtà e la finzione con maestria, e di spezzare la magia del fittizio nel momento in cui Dalton dimentica le battute.
Lo spettatore è costretto ad abituarsi a dei continui salti intermittenti tra fittizio e reale. Nel montaggio delle scene, Tarantino usa abilmente la musica, come strumento per segnalare lo stacco dal film western alla vita sul set. Quando siamo nel western la colonna sonora accompagna la recitazione dei personaggi, facendoci illudere per un attimo di star guardando quel film e facendoci dimenticare che stiamo vedendo la realizzazione sul set della scena. Non appena Dalton dimentica la battuta, la musica s’interrompe riportandoci violentemente alla realtà.
Il metacinema, così, palesa il recondito al pubblico, i meccanismi reali di produzione del film, gli sbagli degli attori, i costumi e la recitazione, ma, come vedremo, anche l’aspetto più intimo che accomuna chi di questa arte si occupa.
Una riflessione sul cinema
Il film diventa un lungo monologo, una riflessione filosofica sulla condizione del cinema e degli attori che lo abitano.
Marabella: «Credo che sia compito di un attore evitare impedimenti nella sua performance, è compito dell’attore impegnarsi per avere il 100% dell’efficacia. Ovviamente non ci riusciamo mai, ma è il perseguimento che ha senso».
Queste sono le parole della giovane Marabella nella sua divagazione filosofica sul ruolo dell’attore. C’era una volta a… Hollywood non si limita a mostrarci cosa c’è dietro l’artifizio del cinema, ma ci mostra cosa significa essere “attori”, in ogni fase della propria carriera dagli inizi alla fine.
Convivono perciò i momenti di beatitudine e di soddisfazione di una giovane Sharon Tate che può vedersi per la prima volta in un film, con la sua leggera frustrazione perché nessuno ancora sa chi è. Così come la malinconia di Rick Dalton, attore inevitabilmente collegato al suo ruolo storico in una serie televisiva, e che non sa come emanciparsi da ciò che gli ha dato la fama, ma che allo stesso tempo lo ha condannato a essere solo quello.
La macchina da presa ci porta nell’intimità di un camerino, dove i mostri dell’attore lo perseguitano: la rabbia per essersi dimenticato la buttata, la continua ricerca di rivalsa. Ancora una volta il metacinema mette in bella mostra ciò che si nasconde, l’umanità delle star hollywoodiane, una profonda fragilità che le aliena da quell’immagine divina che si son costruiti.
C’era una volta a… Hollywood: dalla parte degli spettatori
In Shakespeare, il giovane Amleto decide di mettere in scena la congiura nei confronti del padre attraverso uno spettacolo teatrale. Gli spettatori, quindi, guardano la fruizione da parte dei re di Danimarca di uno spettacolo. Come in Shakespeare è stato introdotto il teatro nel teatro, in C’era una volta Hollywood c’è il cinema nel cinema.
Nel lungometraggio sono numerose le scene in cui entrando nel punto di vista dei personaggi, percepiamo ciò che i loro occhi vedono. Margot Robbie condivide con noi gli spezzoni di Missione compiuta stop, bacioni, seduta al cinema con i suoi piedi in primo piano, mentre DiCaprio e Pitt si gustano la serie tv FBI. Il loro schermo diventa il nostro, il loro punto di vista si fa nostro.