La Belva – Action all’americana per un nuovo cinema italiano

Eugenio Grenna

Marzo 23, 2021

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Una nuova narrazione di stampo prettamente americano per un nuovo cinema italiano. Questa l’operazione attuata dal regista de La Belva Ludovico Di Martino e, più in generale, dallo splendido lavoro di produzione portato avanti in questi anni da Matteo Rovere.

Leonida – L’uomo, il reduce, la belva e la morte

 Angela: «Se sai qualcosa devi parlarne con la polizia. Andiamo in questura, ci andiamo insieme. Mattia è lì, ha bisogno di te. Da solo morirai…».

Leonida: «Almeno nostra figlia sarà salva».

Un dialogo tra due persone che si sono amate, che hanno avuto figli e che il destino e la morte hanno allontanato. Si tratta di Angela (Monica Piseddu) e Leonida/la Belva (Fabrizio Gifuni). Sono stati coniugi finché Leonida ha deciso di lasciare la tranquillità della sua casa e della sua famiglia partendo per la guerra, senza più farvi ritorno, non nell’accezione più totale almeno.

Leonida è stato fatto prigioniero, torturato e salvato grazie a un’operazione comunque fallimentare che è costata la vita a quasi l’intero squadrone di salvataggio. Un’operazione che ha distrutto l’animo già turbato e tormentato di Leonida Riva.

Ludovico Di Martino e Matteo Rovere con La Belva danno vita ad una narrazione di chiara ispirazione americana per un nuovo cinema italiano.

Leonida Riva (Fabrizio Gifuni). Padre, veterano e morte incarnata.

Un uomo che forse non voleva essere salvato, in quanto già nelle mani della morte e sopravvissuto alle tragedie della guerra, alla caduta dei suoi compagni, agli incubi che non hanno mai smesso di perseguitarlo e alle ombre di violenza che sono ormai parte di Leonida, seppur celate.

Un reduce che resta ancora in vita grazie al legame, chiaramente fragile e complesso, con i due figli, Mattia (Emanuele Linfatti) e Teresa (Giada Gagliardi), due ragazzi che sono cresciuti all’ombra di una figura paterna schiva, pericolosa, assente e temibile.

Perfino Angela, l’ex moglie di Leonida, teme l’uomo, la bestia che ora è tornata ad aggirarsi nella piccola cittadina di provincia in cui la famiglia ha vissuto in precedenza.

Questo perché Leonida non è più l’uomo che lei ha conosciuto, bensì una rigida (e pur sempre assente) maschera di morte e dolore, rassegnata a una sofferenza incurabile, che cesserà soltanto nel giorno della sua fine.

Ludovico Di Martino e Matteo Rovere con La Belva danno vita ad una narrazione di chiara ispirazione americana per un nuovo cinema italiano.

Fabrizio Gifuni e il regista Ludovico Di Martino sul set del film “La Belva”

Leonida in qualche modo è già la morte, la rincorre senza temerla, poiché l’ha guardata negli occhi, l’ha già incontrata, sopravvivendole.

Una vita che tra farmaci e silenzi va e non va. Leonida vorrebbe condividere del tempo con i figli, ma i due sono sempre più restii.

Finché tutto cambia e questo padre secondario, quasi soltanto evocato e alle spalle di una famiglia convenzionale, diviene di primo piano, centrale, all’interno di una narrazione che lo vede motore trainante di una serie di sviluppi e vicende sempre più adrenaliniche, violente e drammatiche: la scomparsa della figlia Teresa.

Ludovico Di Martino e Matteo Rovere con La Belva danno vita ad una narrazione di chiara ispirazione americana per un nuovo cinema italiano.

Antonio Simonetti (Lino Musella). Cinico e schivo vicequestore.

Dare vita alla Belva

L’evento che scatena il vero evolversi del film è il rapimento di una minore, una bambina, figlia del temuto e temibile protagonista Leonida. Ne scaturisce una ricerca e un desiderio di vendetta crudele e violenta da parte di Leonida, da soddisfare il più presto possibile.

Una trama classica, alla action movie americano spesso di serie B, a partire dal fortunato franchise Io vi troverò e seguito da film dal taglio più o meno simile come Giustizia privata, il recente reboot de Il giustiziere della notte, Three days to Kill e molti altri.

Ludovico Di Martino e Matteo Rovere con La Belva danno vita ad una narrazione di chiara ispirazione americana per un nuovo cinema italiano.

La rabbia di Leonida Riva. Nebbia e oscurità del male.

La Belva, film del giovane regista Ludovico Di Martino, si pone a metà strada tra cinema action commerciale di serie B (ispirato come già detto al modello americano), cinema d’autore e poliziettesco all’italiana tipico degli anni ’60 e ’80.

L’impronta del film non viene soltanto dettata dal suo giovane e ispiratissimo regista, ma anche e soprattutto dal produttore Matteo Rovere, il Jason Blum italiano.

Colui che da qualche anno a questa parte ha contribuito a rilanciare il cinema di genere in Italia, riportando l’action, l’horror, il fantasy e via dicendo, all’interno di un cinema sempre più impigrito e adagiato sulla commedia e il dramma.

Di Martino e Rovere questa volta consegnano un prodotto molto poco italiano e dall’effetto assolutamente straniante, a partire dalla location così particolare, moderna e gelida, una sorta di non luogo.

Ludovico Di Martino e Matteo Rovere con La Belva danno vita ad una narrazione di chiara ispirazione americana per un nuovo cinema italiano.

Il sacrificio di Leonida Riva: far uscire la belva.

Tutto è tecnica e il lavoro sugli interpreti, o meglio, sull’interprete e la sua fisicità, è ciò che conta. Anche a discapito della credibilità, rispetto alla sceneggiatura e alle battute di dialogo, spesso irrealistiche e fin troppo d’effetto. Quasi a emulare uno stile che non gli è (e non ci è) proprio.

La Belva sembra voler percorrere il tracciato di Sin City, Taxi Driver e il suo non dichiarato remake d’autore You were never really here di Lynne Ramsay.

Travis Bickle (Robert De Niro). Il veterano e taxista solitario di “Taxi Driver”

Tre film da cui prende più o meno dichiaratamente diversi elementi. A partire dal Marv di Sin City, fino al discorso attorno al reduce di guerra che si scontra con la violenza urbana notturna legata allo sfruttamento dei corpi, propria del capolavoro di Martin Scorsese, Taxi Driver.

Marv (Mickey Rourke). Il gladiatore disperato e violento di “Sin City”.

Fino alla sequenza di salvataggio e violenza all’interno del bordello, che già si è vista all’interno di You were never really here della Ramsay e che rivediamo nel film di Di Martino.

Il citazionismo è evidente e La Belva ce la mette tutta per trovare uno stile proprio tra tutte queste strizzate d’occhio, rischiando però di non riuscire a trovare una collocazione precisa.

Joe (Joaquin Phoenix). Il giustiziere e vendicatore solitario di “You were never really here”.

Il lavoro sul corpo di Valerio Gifuni e la regia fumettistica di Ludovico Di Martino

Così come la Ramsay ha lavorato sul corpo di Joaquin Phoenix, anche Di Martino sceglie un attore non più giovane, Fabrizio Gifuni (come avviene, d’altronde, anche per il cinema americano, per interpreti quali Keanu Reeves, Liam Neeson e Denzel Washington). Collocandolo in un contesto del tutto nuovo e lavorando sulla sua fisicità, privandolo dunque di tutti quegli elementi tipici e comodi della sua filmografia precedente.

Un contesto che prevede botte, sangue, violenza, silenzi, battute di dialogo ridotte all’osso e serrate, sguardi temibili e fortemente cruenti, e infine situazioni sempre e comunque a tinte forti.

Ogni presenza scenica di Fabrizio Gifuni non comunica nient’altro che violenza efferata, dolore e morte. Anche nelle situazioni più apparentemente pacifiche e quotidiane. Gifuni prende peso, si rasa i capelli a zero e trova un modello interpretativo molto poco conosciuto e visto nel cinema italiano, quello in sottrazione.

Leonida e Angela: temi l’uomo che hai amato

L’interprete che dunque si annulla di fronte a ciò che subisce, facendo parlare il volto, l’emozione comunicata nei silenzi e nei dialoghi ridotti all’osso e talvolta nei muscoli.

Di Martino compie sul piano registico un’operazione particolarmente interessante, tra cinema noir modernista, universo narrativo fumettistico milleriano e cinema action di serie B.

Leonida è un rigurgito delle violenze della guerra, per questo motivo non può che vivere efficacemente in quel mondo lì, di criminalità e sangue, soccombendo invece se collocato in contesti differenti, come quello familiare e quotidiano. Proprio come il Marv di Mickey Rourke dell’universo prima fumettistico milleriano e poi del cinema di Rodriguez.

Torna l’ambientazione notturna di ombre, oscurità, luci al neon e sporcizia. Così come inseguimenti molto poco eleganti e molto più cacofonici, violenti e sregolati.

La belva. Il pericolo ovunque. Non metterti sulla sua strada.

Quello de La Belva è chiaramente cinema di genere, che si pone esattamente a metà strada tra cinema d’autore e cinema commerciale di puro intrattenimento.

Un intrattenimento che riesce solo in parte e che si serve quanto più possibile di piani sequenza, inseguimenti e lotte non ancora coreografate come dovrebbero. Resta quella lentezza tipica di un cinema che non è abituato a consegnare al pubblico un certo tipo di spettacolarità e narrazione, ma che ce la mette tutta nel provarci. A partire da un dignitosissimo scontro su scalinata.

Matteo Rovere e Ludovico Di Martino con La Belva, scritto da Claudia De Angelis, Nicola Ravera Rafele e lo stesso Di Martino, compiono un passo ulteriore all’interno di una rivoluzione cinematografica di genere tutta italiana.

Una rivoluzione, o meglio, una nuova corrente che ha già consegnato al pubblico piccoli grandi film e che si spera continui, nella speranza di dare vita ancora una volta a una resurrezione di quel cinema che si è fatto anni fa e che si è perso prima gradualmente e poi improvvisamente.

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