Giacomo Cimini, regista de Il talento del calabrone, rincorre Mann e Cassavetes tra thriller modernista e dramma familiare.
Steph: «Mi dispiace Carlo, ma abbiamo un’altra telefonata. Regia per favore passiamo alla prossima!».
Carlo: «No, no, eh no regia, per favore. Io mi sto per suicidare».
Il talento del calabrone – Locandina ufficiale del film esclusiva Prime
Sospensione dell’azione – Giacomo Cimini e Lorenzo Collalti sul dialogo emotivo e l’importanza delle voci
Il secondo film di Giacomo Cimini – dopo Red Riding Hood del 2003 – comincia con delle rilassate e silenziose panoramiche dall’alto della Milano notturna che tutti noi conosciamo.
Le luci, i silenzi e poi quei colori tipici delle città di notte, su cui interviene poco dopo una voce maschile, calda e affabile, forse un po’ troppo impostata (uno dei difetti del film). La voce di un giovane deejay, Steph, interpretato da un sempre credibile Lorenzo Richelmy, che di recente abbiamo visto in ottimi film come Ride e La ragazza nella nebbia, diretti rispettivamente da Jacopo Rondinelli e Donato Carrisi.
Steph come già detto è giovane, ha fama, è seguitissimo sui social ed è dichiaratamente antipatico. Di quelle personalità ormai influenti nel mondo del web, della radio e della tv che riescono a ingraziarsi milioni e milioni di fan più per la loro l’estetica che per altre caratteristiche, verrebbe da dire sia morali che etiche.
Il deejay notturno Steph (Lorenzo Richelmy). Antipatia e megalomania di un piccolo uomo.
Una personalità che sembrerebbe essere forte e dirompente, una guida all’interno della narrazione “one man show” del film, che però crolla intelligentemente man mano che Cimini e Collalti aggiungono dettagli a un puzzle subito ordinato e senza sbavature e poi sempre più caotico e scomposto.
Poiché Il talento del calabrone si rivela ben presto molto più che un one man show su un giovane deejay in linea con la morte.
Una seconda voce (e presenza) si aggiunge infatti a quella di Steph. Voce che appartiene a Carlo/Il Calabrone, interpretato da un divertito ed efficacissimo Sergio Castellitto, che gioca su più toni e livelli, partendo da una sovrascrittura (dunque sopra le righe) e giungendo a una sottrazione.
Lavoro impostato direttamente sulle voci e poi su volti e movimenti dei due interpreti principali. Cimini e Collalti si concentrano sul dialogo emotivo e non emozionale, sulle voci più che sui movimenti e i volti, e poi sul ruolo della musica, mai casuale e sempre dirompente e funzionale.
Psicopatico senza pietà o uomo complesso e fragile? Il calabrone di Sergio Castellitto
Dialogo che prevede l’elaborazione di una morte annunciata (il suicidio), di un atto omicida riguardante terzi (l’ordigno nell’auto di Carlo pronto a esplodere) e poi di un gioco al massacro di sottomissione psicologica, questa volta a due, che impegna su più piani Steph, Il Calabrone e per certi versi il tenente colonnello Rosa Amedei, interpretato da una Anna Foglietta che si muove dalle parti di Frank Kitchen e Nikita.
Anna Foglietta tra Michelle Rodriguez e Anne Parillaud
Una prima parte in cui tutto ciò che conta è l’alternarsi di due voci maschili estremamente differenti, che si tendono agguati, spostandosi continuamente dall’ironia al dramma più teso e sospeso.
Una grande qualità del film di Cimini risiede infatti nella sospensione di ciò che si teme possa accadere, di ciò che realmente accade davanti ai nostri occhi e di ciò che invece non potrebbe accadere mai, nonostante le parole e i dialoghi sembrino affermare l’esatto opposto.
Il tenente colonnello Rosa Amedei (Anna Foglietta) e il resto dello staff di Radio 105
Steph, dapprima leader al timone, sicuro, logorroico e impostato, diviene silenzioso, fragile e impreparato, preda del Calabrone.
Due voci che si scambiano di ruolo e di peso drammaturgico, alternandosi di tanto in tanto, nello svolgimento degli sviluppi narrativi del film.
Sempre nella prima parte compare una riflessione su ciò che sia lecito e illecito compiere, trasmettere e condividere a livello morale, dunque psicologico ed emotivo, sui social, le piattaforme e più in generale i new media.
Cimini e Collalti dimostrano però di non saper sviluppare a dovere il tema, lasciandolo cadere e privandolo dunque di un interesse iniziale davvero forte, udibile e visibile.
Terrorismo sventato, indovinelli e musica classica – Il leone anziano e il leone giovane
Tutto cambia nel corso della seconda parte del film, quella in cui Cimini registicamente comincia a rincorrere il cinema di Michael Mann e Nick Cassateves, prendendo ad esempio due titoli, uno per regista: Collateral per quanto riguarda Mann e John Q per quanto riguarda invece Cassavetes.
L’adrenalina e il pathos questa volta sostituiscono quella sospensione tipica e forte della prima parte del film, tra caccia agli ordigni per le strade di Milano e minacce temibili di Carlo/Il Calabrone che sembra voler mettere in ginocchio l’intera città e subito dopo sacrificare sé stesso, in nome di una causa più onorevole e drammatica che chiaramente Cimini e Collalti ancora non svelano.
Per poter continuare a seminare qua e là indizi per una soluzione prima graduale e poi improvvisa e totale di un thriller che si fa ben presto tragedia, dramma sui sensi di colpa e sul peso del passato e del ricordo nella coscienza degli uomini.
La seconda parte è quella che si concentra in tutto e per tutto sulle regole canoniche del thriller telefonico, che si sviluppa tra gli studi radiofonici di Radio 105, l’abitacolo della Panda del professore e le strade deserte di un’affascinante Milano notturna.
Grande attenzione viene riservata all’impianto tecnico del film, oggettivamente ineccepibile.
Io ti salverò. Andrà tutto bene. Chi è la preda? Chi è il predatore? Lorenzo Richelmy e Cristina Marino
Cimini qui crea il contesto non tanto italiano, quanto invece internazionale di cinema di genere molto semplice e classico, che si serve di attentati sventati, di grande pathos, minacce continue di azioni violente sempre più pericolose e rincorse adrenaliniche di spettri che sembrano muoversi indisturbati per le strade della città notturna.
Ottima la costruzione della tensione, che alterna il lirismo e la magnificenza della musica classica a un sound design molto più action e di grande spettacolarizzazione tra proiettili esplosi, ordigni che stanno per fare la stessa fine, botte e motori di auto che sembrano decollare pur di sventare gli attentati minacciati dal Calabrone.
Ciò che viene messo invece da parte giunti a questo punto è la sceneggiatura, che comincia a subire i colpi di un intrattenimento centrato esclusivamente sui cliché del genere che il pubblico conosce già fin troppo bene, senza aspirare a nulla di più.
Manca quella forma di coraggio, quella ricerca necessaria da parte di un autore e poi di un film per trovare la propria strada, il proprio stile.
Nota interessante riguarda l’apparente indecisione sulla collocazione tra generi di questo film rispetto ai suoi due autori, Giacomo Cimini e Lorenzo Collalti.
Poiché è evidente il salto che il film compie da una prima parte claustrofobica e ambigua a una seconda questa volta più action e adrenalinica, che però cede lentamente, mollando la sua presa sul cinema di genere e spostandosi su quelle tracce narrative che il cinema italiano è solito percorrere, ossia il dramma.
Insomma un miscuglio tra generi mai ben chiaro e definito, sempre vago, ma non per questo meno interessante.
La caccia tra gatto e topo. Le tre personalità forti del film di Cimini.
Sarà infatti un primo indovinello posto dal Calabrone a spostare il film su un genere decisamente distante dal thriller che abbiamo seguito fino a questo momento, un’immagine, una scheggia. Di che cosa si tratta? Ha a che fare con il passato? La caccia tra gatto e topo diviene ben presto un inseguimento tra leone giovane e leone anziano.
Chi dei due teme l’altro? Forse si temono reciprocamente? Forse già conoscono la fine di quella loro conversazione notturna?
Una cosa è certa, Richelmy e Castellitto si divertono, giocando con l’espressività dei loro volti e con il suono delle loro voci in continua trasformazione, un elemento questo di grande importanza ed efficacia all’interno del film.
Anna Foglietta e il regista Giacomo Cimini sul set del film. Dirigere l’action
Padri e figli – I sensi di colpa e il peso del rimorso, un noir che si fa dramma
Figura e interprete chiave della chiusa di questo film è proprio Sergio Castellitto, l’unico vero interprete internazionale di un film italiano che fa di tutto per rincorre modelli cinematografici molto distanti, che per forza di cose non possono aderirgli totalmente.
Castellitto invece dà vita a un villain profondamente umano, per quanto credibile, temibile e sensibile, come solo i migliori villain del cinema internazionale sanno essere. Il suo non è il cattivone di turno che si diverte a fare del male per puro gusto e fame di violenza.
È piuttosto un uomo a pezzi, con un passato che ha lacerato ogni sua speranza di ricostruirsi una vita. Un’anima profondamente tormentata che si è disintegrata lentamente, trasformandola in qualcosa di completamente diverso.
Qui nasce il dramma. Nel momento in cui il film indaga l’anima di chi ha dato il via al pathos e all’adrenalina, scavando a fondo nelle volontà di chi vorrebbe provocare il male, poiché forse potrebbe averlo subito per primo e più di qualsiasi altro personaggio in scena, secondario o primario che sia.
Carlo/Il calabrone. Il peso del passato. Che cosa si nasconde nel male?
Una scrittura, quella di Carlo, perfettamente centrata sul corretto bilanciamento tra carica emotiva/sentimentale e carica action/crime, tanto da raggiungere una credibilità altrimenti molto complessa da soddisfare e trovare, tanto per gli interpreti quanto per gli spettatori.
Il film di Cimini è cinema di genere convenzionale per un pubblico americano, probabilmente anche piuttosto semplice e scontato. E lo è proprio per questa sua volontà di non voler strafare mai, di adagiarsi sui cliché, ripercorrendo un intero immaginario di battute di dialogo, svolte e personaggi già sentiti e visti molte volte.
Terrorismo e musica classica. Il pericolo è ovunque e forse è tra noi.
Un cinema di genere che però risulta a noi nuovo e per certi versi originale e fresco, poiché è un modello che non abbiamo più avuto modo di vedere, non così spesso almeno.
Ben venga dunque questo interessante tentativo di leggere in chiave noir modernista un dramma familiare sui sensi di colpa, spostato su un intrattenimento più dalle parti del cinema di serie B, che spettacolarizza (e bene) il pathos del suo genere di riferimento, cioè il thriller telefonico esplicitamente citazionista di Mann, Hill e Cassavetes.