L’industria culturale di Hollywood – Fabbrica di sogni e di uomini

Tommaso Paris

Giugno 15, 2021

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L’industria culturale di Hollywood – Fabbrica di sogni e di uomini

Alexis Tocqueville, ne La democrazia in America (1835), individuò in quel luogo oltreoceano l’emblema dell’uguaglianza delle condizioni, profetizzando la grande rivoluzione democratica che sarebbe approdata anche in Europa. Tuttavia, la storia americana aveva e avrebbe avuto un’avventura più unica che rara.

Se nel 1776 venne firmata la dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, proclamando la nascita della nazione, quasi un secolo più tardi questa si spaccò in due per la Guerra di secessione che, dal 1861 al 1865, vide la battaglia tra gli stati del Nord e del Sud rispetto all’abolizione della schiavitù. Inoltre, tra il 1836 e il 1914, oltre 25 milioni di europei migrarono negli Stati Uniti, costituendo così un tessuto sociale composto da fibre diversificate, plurali e multietniche. Tentando di unificare un gruppo etnicamente diverso e socialmente diviso, sin dagli albori, il cinema ha assunto il ruolo di collante sociale, in quanto realtà eminentemente ed essenzialmente pubblica.

Nel 1905 nacquero i primi nickelodeon, sintesi tra la parola “odeon” – termine che nella Grecia antica indicava le strutture pubbliche destinate agli spettacoli musicali – e la parola “nickel” – la moneta da cinque centesimi di dollaro, il nichelino appunto, che indicava il prezzo del biglietto alla portata di tutti.

Questi cinema mostravano cortometraggi dalla mattina alla sera, dalle dodici alle diciotto volte al giorno, divenendo polo d’attrazione per la classe media delle metropoli: principalmente per la massa di operai e immigrati di prima e seconda generazione che trovavano in questo non-luogo pubblico una realtà divertente, spettacolare e, al contempo, economica.

Il primo nickelodeon fu a Pittsburgh in Pennsylvania nel 1905

La doppia matrice del cinema – industria e cultura, denaro e spettacolo -, infatti, definisce il suo intero percorso d’evoluzione, in quanto non è composto solo da film, ma si rivela un evento industriale, sociale e soggettivo.

«Fenomeno sociale e fenomeno estetico, fenomeno che testimonia insieme la modernità del nostro secolo e l’arcaismo dei nostri spiriti».

(Edgar Morin, “Il cinema o l’uomo immaginario”)

Proprio per questa grande partecipazione popolare, contrassegnata da una certa uniformità sociale e una grande eterogeneità etnico-culturale, le produzioni e distribuzioni cinematografiche intendevano attrarre più persone possibili, puntando su forme di spettacolo che potessero andare bene a tutti. In questo modo, il cinema, etopoieticamente, ebbe un ruolo fondamentale nel modellare l’opinione pubblica e nella formazione dell’identità culturale statunitense, divenuta ampia, plurale e inclusiva perché tutti potessero riconoscersi nel medesimo evento cinematografico, permettendo la nascita di una vera e propria coscienza nazionale americana.

 «Per nazione si tratta di una comunità politica immaginata».

(Benedict Anderson, “Comunità immaginate”)

La cultura nazionale, dunque, si rivela essere frutto di un immaginario collettivo condiviso, dell’incessante produzione mitopoietica e dell’invenzione di tradizioni. E il cinema, in quanto mezzo di comunicazione di massa che racchiude in sé tantissime modalità simboliche, permise la costituzione di una comunità ampia e inclusiva, completando il processo di americanizzazione dell’America che, non aderendo alla divisione classista della civiltà borghese europea, si istituzionalizzò in funzione del livellamento sociale e culturale proprio della società dei costumi.

Perché questo racconto dell’America di sé stessa potesse funzionare, però, era necessario che il cinema assumesse il ruolo di mito fondativo, pronto a narrare l’origine di una nazione. Non a caso, il primo film propriamente narrativo è il controverso The Birth of a Nation (1915) di Griffith.

“The Birth of a Nation” (1915), controverso film di Griffith che raccontava la guerra di secessione americana attraverso uno stampo decisamente razzista.

Tuttavia, il cinema trovò in uno dei primi generi cinematografici la propria massima rappresentazione dell’origine fondativa, ciò che André Bazin definì il film americano per eccellenza: il western. Attraverso un’epopea che giustificava la violenza subita dalla popolazione indigena, si raccontava il mito della frontiera e la conquista delle vergini regioni occidentali americane, rappresentando in maniera manichea la contrapposizione tra bene e male, eroe e villain, permettendo così di riconoscere un nemico comune e compiendo i primi passi verso l’unità di gruppo.

Quella che Hobwsbawn definirebbe un’invenzione della tradizione, un’operazione mitopoietica capace di plasmare un orizzonte di memorie collettivo, quella che è meramente una fiaba epica diviene così la rappresentazione della nascita degli Stati Uniti.

Nell’America isolazionista del dopoguerra, propizia a forme di intrattenimento spettacolari e all’affermazione di una cultura di massa, nasce il cinema hollywoodiano classico: emerso negli anni ’20, esploso negli anni ’30 con l’avvento del sonoro, e realizzato nel suo culmine nei primi anni ’40.

In quanto espressione della modernità industriale, il cinema divenne una sorta di fordismo culturale che, attraverso la divisione del lavoro di stampo capitalista, produsse oggetti culturali in serie, che portavano a un alto tasso di standardizzazione, realizzandosi in ciò che il filosofo Walter Benjamin definì l’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte.

Per poter sussistere come sistema essenzialmente produttivo, il cinema necessitava di fabbriche cinematografiche, e così, attraverso la nascita delle prime case di produzione nate dal genio imprenditoriale di una serie di commercianti principalmente di origine europea, venne a crearsi lo studio system. Le Major del cinema hollywoodiano – Paramount, Warner, MGM, Fox e RKO -, costituendo una società integrata di matrice verticale che racchiudeva la produzione, la distribuzione e l’esercizio, e dunque controllando totalmente il sistema industriale cinematografico, furono determinanti nella costituzione del soggetto americano medio.

Risulta interessante notare, tuttavia, che questo processo di americanizzazione dell’America sia nato quasi totalmente da immigrati di prima e seconda generazione, generalmente della mitteleuropa e di origine ebraica, rivelando il carattere costitutivamente cosmopolita e transnazionale del cinema americano.

Le Major case di produzione hollywoodiane che avevano il monopolio dell’industria cinematografica.

Dipendendo dalla domanda di un gruppo eterogeneo e dalla ricerca massima di accumulazione di profitto, il cinema americano fu costretto alla standardizzazione, formando diversi generi cinematografici e dando così inizio all’era del mondo narrativo delle immagini in movimento, e omologandosi anche nel tessuto del linguaggio cinematografico, prediligendo uno stile consequenziale, trasparente e invisibile.

All’affermazione di Hollywood è da aggiungere la nascita dello star system: un fenomeno che prevedeva che grandi attori firmassero contratti a lungo termine con le più grandi case di produzione, assoggettandosi a esse, costretti a rispettare obblighi particolari, modifiche all’aspetto fisico e talvolta cambiando il proprio nome (ad esempio Cary Grant, il cui vero nome era Archibald Alexander Leach). I grandi attori, dunque, si rivelano dei simulacri, persone divenute immagini idealizzate, icone divinizzate che nella loro assenza accompagnavano la vita di uomini e donne nella loro quotidianità, iniziando così a smarrire quel labile confine che distingueva la favola dalla realtà.

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Star system hollywoodiano

Un’ulteriore salvaguardia dello studio system è l’autocensura che, per mettere a tacere una serie di voci e scandali emersi nel clima hollywoodiano, per difendersi da un potenziale allontanamento del pubblico e per evitare il rischio di interventi legislativi da parte dello Stato, nel 1934 istituì una serie di prescrizioni che stabilivano i contenuti etici delle produzioni: il codice Hays. Questo sistema di autoregolamentazione estetica e morale concepiva il cinema come mero mezzo di intrattenimento, e non come una forma d’arte che incarnava una libertà d’espressione e la coscienza di un autore.

King Vidor, regista de La folla (1928), tentando di mostrare le ombre che si nascondevano dietro la luce del sogno americano, fu costretto dalla MGM a girare sette versioni del finale perché il film non glorificava la quotidianità americana.

«A Hollywood avere un film realistico che metteva sotto i riflettori il matrimonio e la realtà americana e non poterci mettere il lieto fine non andava bene».

(King Vidor)

Il meccanismo produttivo hollywoodiano – in quanto dialettica tra cultura e società, tra arte e capitalismo – rappresenta perfettamente ciò che i francofortesi Adorno e Horkheimer, in Dialettica dell’Illuminismo (1947), denominano «industria culturale»: una realtà che condanna e riduce l’oggetto culturale a mera merce di consumo, il cittadino a consumatore e spettatore a-critico inconsapevole, e l’arte a un pericoloso mezzo di comunicazione di massa.

Utilizzando una terminologia di matrice marxiana – che il filosofo e situazionista Guy Debord riprenderà applicandola al mondo novecentesco ne La società dello spettacolo (1967) -, nell’industria culturale emerge chiaramente lo statuto del feticismo della merce, il dominio della società attraverso la percezione di cose sovrasensibili in quanto sensibili, dove la realtà è sostituita dall’immagine favolistica, il valore d’uso dell’opera d’arte è rimpiazzato dal valore di scambio.

Tanto che, dirà Debord, «il consumatore reale diviene consumatore di illusioni» e «la merce è questa illusione effettivamente reale», divenuta l’unico bene da desiderare e nel quale riconoscersi. La merce, dunque, in questo caso quella dei prodotti audiovisivi, induce bisogni e produce desideri, ammaestrando l’immaginario, con la sola insita finalità di uno sviluppo economico infinito.

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Frammento dal documentario “La società dello spettacolo” di Guy Debord

Da popolo di cittadini si passa a pubblico di spettatori e consumatori, poiché, dice Debord, questa società dello «spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini», rappresentante di un nuovo linguaggio che, tacitamente, esprime istanze valoriali e ideologiche, indi per cui, chi detiene il potere è monopolista anche delle possibilità di senso e identificazione degli individui.

La violenza dell’industria culturale, finalizzata a organizzare una massa a-criticamente dominabile, risiede secondo Adorno nell’«impoverimento dell’immaginazione e della spontaneità del consumatore culturale», vietando «letteralmente l’attività mentale o intellettuale dello spettatore», poiché «non deve lavorare di testa propria; il prodotto gli prescrive ogni reazione» e «ciò che si imprime realmente negli animi è una sequenza automizzata di operazioni prescritte».

«Si potrebbe anche dire che l’industria culturale ha perfidamente realizzato l’uomo come essere generico».

(Theodore W. Adorno, “Dialettica dell’Illuminismo”)

L’industria culturale, dunque, direbbe Adorno, conduce alla società dello spettacolo, continuerebbe Debord. Il mondo dello spettacolo, infatti, non è altro che l’immagine dell’economia dominante, «il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine», capace di trasformare il vero in falso, l’apparenza in essere, la realtà in rappresentazione, il sacro in profano.

«La coscienza spettatrice, prigioniera di un universo appiattito, limitato dallo schermo dello spettacolo, dietro il quale la sua vita è stata deportata, non conosce più se non gli interlocutori fittizi che la intrattengono unilateralmente con la loro merce e con la politica della loro merce».

(Guy Debord, “La società dello spettacolo”)

La società dello spettacolo e l’industria culturale, infatti, costituendo gli individui come i propri clienti, rende loro la vita più facile solo a prima vista, condannandoli a essere soggetti non in grado di pensare, inconsapevoli e, paradossalmente, felici della propria condizione, tanto da diventare una sorta di servitù volontaria, convinti di potersi realizzare, di concretizzare il sogno americano e il lieto fine a loro tanto raccontato, oltre che essere altrettanto fortunati quanto i personaggi interni allo schermo cinematografico.

Diviene chiaro, dunque, come il cinema, e la cultura di massa in senso lato, incarnino un potere etopoietico, pedagogico e identificante, poiché la produzione di immagini crea soggettività a propria immagine.

Lo statunitense medio, concepito come un vuoto da riempire di spettacoli ideologizzati, sarà sempre necessitante di fuggire dalla realtà per rifugiarsi nella favola hollywoodiana, e, una volta “americanizzato”, riconosciuto da altri da sé rivelatesi vicini e al contempo estranei, sarà condannato a una spersonalizzazione dell’uomo e a una tragica apoliticità spirituale e sociale.

«Sono cresciuto negli anni ‘40 e ‘50 e, come dicevo, si andava tantissimo al cinema. Lo schermo, il fumo, i popcorn e tantissime persone che guardavano con te il film e provavano le tue stesse emozioni. Si vedevano film che, per la maggior parte, erano prodotti commerciali che presentavano soluzioni molto positive ai problemi della vita: quasi tutti avevano un lieto fine. Generalmente quelli che si innamoravano rimanevano per sempre insieme, i colpevoli incontravano il giusto destino, gli eroi facevano le cose corrette, in guerra o altrove. E poi le persone vivevano in una certa maniera, si vestivano in un certo modo, l’arredamento delle case era rassicurante.

Questo era l’immaginario con cui venivamo alimentati da ragazzi, quello con cui siamo cresciuti. Tutte le donne erano bellissime, tutti gli uomini eroici, tutti erano divertenti e intelligenti, tutti coraggiosi. Tutto finiva benissimo e questo è quello che pensavamo ci sarebbe successo nella vita. Ma non è andata così. Le donne rimanevano molto deluse degli uomini con i quali finivano con l’uscire, perché quegli uomini non erano Clark Gable o Spencer Tracy, non erano James Cagney o Humphrey Bogart. E gli uomini, anche loro, erano molto delusi perché le donne non erano Katharine Hepburn o Rita Hayworth.

Il risveglio dagli happy ending è stato molto duro per la mia generazione».

(Woody Allen)

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Woody Allen

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