Il sogno americano. La cultura del successo. La filosofia del “chiunque può farcela”. L’ideologia della ricchezza e la fede incrollabile nel riuscire sempre e comunque. Questi sono alcuni dei dogmi su cui si erge tutta la cultura occidentale. Una cultura veicolata anche dal cinema, in particolare quello americano, che si fa narrazione auto-compiaciuta di tutti quei concetti da sempre presenti nelle mentalità statunitensi. Il cinema americano è infatti un cinema di vincenti. Di persone, spesso comuni, che realizzano quel sogno di rivalsa e di successo che sta alla base di ogni azione compiuta. Eppure, come molte persone hanno imparato a proprie spese, la realtà è diametralmente diversa dal cinema. Spesso non si riesce a conquistare la rivalsa. Soprattutto se si è una persona comune. E il mondo, si sa, è pieno di persone comuni. Persone che si incontrano nella vita di tutti i giorni. Persone come Llewyn Davis.
La grandezza di un film come A proposito di Davis (2013) dei fratelli Coen è qui. Nel fatto che alla base di tutto c’è una persona comune, come appunto Llewyn Davis, che perde. Fin dall’inizio. Perde in ogni ambito della vita.
A partire dalla sfera affettiva fino ad arrivare all’aspetto economico del successo. E non c’è nessun indizio, nel corso del film, che possa suggerire il contrario. Che possa accennare anche a una pur minima possibilità di successo, in un mondo che è abituato a celebrare solamente chi vince. Un mondo che valorizza solamente le persone che, in un modo o nell’altro, diventano icone e compiono rivoluzioni. Ad esempio, persone come il signor Robert Allen Zimmerman. Conosciuto anche con il nome d’arte di Bob Dylan.
Eppure, nonostante queste differenze, un personaggio come Llewyn Davis è strettamente collegato a Bob Dylan. Esattamente come il caldo e il freddo sono tra loro interconnessi alla dottrina dei contrari di Eraclito. Senza l’uno non esisterebbe l’altro. Bob Dylan non avrebbe mai avuto successo se non ci fossero state persone come Llewyn Davis. E lo stesso Llewyn Davis non sarebbe stato creato dalla penna dei Coen, se non ci fosse stato Bob Dylan.
Llewyn Davis, like a complete unknown, like a rolling stone
Il legame che unisce questi due personaggi agli estremi dello spettro è fondamentalmente rintracciabile all’interno di quell’unico elemento che li accomuna: la musica. Nel film, i due cantano lo stesso tipo di musica perché vivono nello stesso periodo storico, e subiscono quindi lo stesso tipo di influenze culturali dalla realtà circostante. Una realtà che muta velocemente, e in cui ci si è resi conto che la narrazione americana del successo si è irrimediabilmente sfaldata. Le crisi economiche, accompagnate da quelle politiche, le guerre in Corea e Vietnam, le tensioni con l’URSS e ancora molto altro hanno risvegliato la coscienza dormiente e serena del popolo americano da un sogno bellissimo e sfuggente, come bellissimi e sfuggenti sono la maggior parte dei sogni.
Da tutto ciò nasce quel malinconico stato di riflessione che farà parte del popolo statunitense d’ora in poi. Ed è proprio da ciò che nasce la poesia della sconfitta, il cui correlativo oggettivo altri non è che Llewyn Davis.
Lui non solo non riesce a esercitare la sua passione, quella musicale, come vorrebbe, con il successo che tutti desiderano, ma addirittura, essendo uno sconfitto in tutto e per tutto, nessuno si sognerebbe mai di metterlo al centro di quella narrazione americana così attenta a valorizzare solamente chi vince. Sarebbe una macchia all’interno di un quadro perfetto. Eppure, più di uno ha spezzato questo dogma. I fratelli Coen, che hanno realizzato il film, e, ancora prima di loro, Bob Dylan stesso.
Dylan ha attraversato tante fasi, esplorando molti universi tematici. Ma c’è un comune denominatore che è ravvisabile in ogni sua fase: lo sconfitto. A partire dalle sue canzoni di protesta contro la guerra del Vietnam, dove lo sconfitto altro non era che l’essere umano stesso, che uccide in nome del potere. Fino ad arrivare perfino alla sua fase “cristiana”, avvenuta dagli anni ’80 in poi, in cui la sua conversione ha messo al centro di tutto la figura di Gesù, che risulterebbe essere anch’egli uno sconfitto all’interno della società.
Che cosa fa lo sconfitto cantato da Bob Dylan? Fugge. Compie un viaggio. Un viaggio senza meta. Un vagabondare eterno in una coltre meravigliosa di malinconica poesia. E questa è forse la descrizione perfetta di Llewyn Davis. Lui si sposta, in cerca di una redenzione che non sa dove trovare, senza casa, senza soldi e con una struggente sensazione di aver sbagliato tutto. Like a rolling stone, appunto.
«How does it feel? how does it feel?
To be on your own, with no direction home
Like a complete unknown, like a rolling stone».(Bob Dylan, “Like a Rolling Stone”)
Ma il suo cammino infinito non riguarda solamente lo spostamento fisico del suo corpo. No, lui è più di ogni altra cosa alla ricerca di se stesso, perso in un’odissea infinita. Esattamente come Leopold Bloom, il protagonista dell’Ulisse di James Joyce. E nonostante la sua aria calma e rassegnata, Llewyn farebbe di tutto per raggiungere questo suo obiettivo. Come ad esempio cedere alla mortale tentazione della speranza. Permettere la compagnia di persone diverse da lui, e che potrebbero avere altri interessi e deluderlo.
Questo accade, naturalmente. E Llewyn, scosso e disilluso è perfettamente sovrapponibile al narratore della canzone Mr. Tambourine Man, che chiede di dimenticare il suo stato di perenne sconfitto almeno fino al giorno dopo («Let me forget about today until tomorrow»), per poi consolarsi con un’altra melodia di quel Mr. Tambourine Man che dà il titolo alla canzone.
«Hey, Mr. Tambourine Man, play a song for me
I’m not sleepy and there is no place I’m going to.
Hey, Mr. Tambourine Man, play a song for me
In the jingle jangle morning I’ll come following you».(B. Dylan, “Mr. Tambourine Man”)
Ed ecco che, come accade a tutti gli sconfitti di questo mondo, anche Llewyn realizza consciamente questa sua condizione. Una condizione dettata non si sa bene da chi. Dal destino, da una divinità, dalla società, dal caso. Da tutte queste cose insieme, oppure da nessuna di esse. Non è importante capirlo. Llewyn compie la sua scoperta verso la fine del film, quando guarda salire sul palco un giovane riccioluto con chitarra e armonica al seguito. Un giovane dalla voce squillante e dalla voglia di compiere rivoluzioni che di lì a pochi anni tutti avrebbero conosciuto.
Nei piani di Llewyn Davis forse non c’è mai stato il successo mondiale, i milioni di dischi venduti, i concerti sold-out e i cachet a sei zeri che avrebbero reso il suo patrimonio sconfinato. Probabilmente lui stesso ambiva a qualcosa di meno estremo. Qualcosa come il semplice campare con la sua arte e la sua chitarra. E il mondo gli ha detto che neanche questa opzione era fattibile.
Cosa fare in queste situazioni? Cosa avrà mai fatto Llewyn Davis, dopo che i titoli di coda del film hanno terminato il loro scorrere? Lo si può immaginare. Avrà ripreso il suo viaggio. Come ha sempre fatto. Come i nobili sconfitti cantati da Dylan hanno sempre fatto. Magari alla ricerca di un qualcosa di ancora più semplice. Di un qualcosa che fermi una volta per tutte il suo vagabondare. Qualcosa come un rifugio, per esempio. Un rifugio dalla tempesta.
«‘Twas in another lifetime, one of toil and blood
When blackness was a virtue the road was full of mud
I came in from the wilderness, a creature void of form
Come in, she said, I’ll give ya shelter from the storm».(B. Dylan, “Shelter from the Storm”)
“Inside Bob Dylan”
Il titolo originale del film dei fratelli Coen è Inside Llewyn Davis, che all’interno dell’opera svolge una doppia funzione. È il titolo dell’album pubblicato dal protagonista, ma è anche l’assunto che dichiara il carattere prettamente introspettivo del film. Grazie a questa introspezione, lo spettatore finirà per conoscere più la persona Llewyn che il cantante Davis. E, paradossalmente, in questo modo anche la sua arte potrà essere svelata. La sua dolce e triste poesia è la figlia diretta della sua esistenza e le dolci e romantiche ballate che canta sembrano essere il sottofondo perfetto per la danza della vita.
È possibile compiere questo tipo di introspezione anche per Bob Dylan? Probabilmente no. Perché attorno al menestrello di Duluth si è oramai creata la fitta nebbia della leggenda. Si è detto e scritto di tutto su di lui, e nessuno riesce più a scindere la mitologia del personaggio Bob Dylan dall’uomo Robert Zimmerman. Nessuno, a parte lui, forse.
Tuttavia, è ancora possibile fare qualche considerazione. Più che sulla sua persona, sulla sua arte. Quell’arte figlia del periodo delle grandi rivoluzioni. In cui si cantava l’illusione di un nuovo mondo. Un mondo diverso, e soprattutto migliore. La musica di Bob Dylan è stata, ed è, tante cose. Narrazione di cambiamenti inevitabili. Inno allo spirito indomito dell’essere umano che lotta per la libertà. Elegia degli ultimi. Consolazione per gli sconfitti. Ed è proprio analizzando questi aspetti della sua arte, che l’essenza di Dylan viene rivelata.
L’essenza di chi, per via del caso o del destino, ha dedicato la sua musica a tutte quelle milioni di persone che del personaggio Bob Dylan sono l’esatta controparte. Come Llewyn Davis. Come tutti gli sconfitti della storia dell’umanità, che certamente sono stati molti di più dei vincitori. E per un puro e meraviglioso paradosso, Bob Dylan ha conquistato il suo straordinario successo cantando le gesta di chi il successo non l’ha mai avuto. Di chi ha rotto inconsapevolmente l’immacolata narrazione americana. Di chi, come Llewyn Davis, ha sempre vissuto nella poetica nobiltà della sconfitta.