Cleo dalle 5 alle 7 – La paura della paura della morte

Eleonora Artesi

Novembre 3, 2021

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Cleo dalle 5 alle 7, classe 1962, è un film che affronta l’aspetto meno lezioso della vita di una donna: il difficile e il complicato relazionarsi all’idea di avere un cancro.

Guardando la pellicola è impossibile rimanere indifferenti verso la sua essenza melodrammatica, enfatizzata da una serie di aspetti, in modo particolare da quello scaramantico che in tutte le scene è una costante: basti semplicemente pensare che la primissima scena riguarda la lettura dei tarocchi.

Avendo origini greche, è naturale che Agnès Varda avvertisse nell’animo, quasi come una scossa sismica, il forte bisogno di dare al proprio lungometraggio delle sfumature tragiche.

Non a caso la matrice di tutti i pensieri di Cleo (interpretata da Corinne Marchand) è la paura della morte: una di quelle paure che sin dagli albori ha ossessionato l’immaginario collettivo, avvelenando o facendo bruciare le menti degli uomini, perché vista come un immenso e orrido abisso dove, una volta precipitati, bisogna fronteggiare con il crudele oblio dei piaceri mondani e terrestri.

L’angoscia nei confronti della morte nasce dal concepire la vita in modo prettamente naturalistico e non affatto universale; dal momento che la morte viene esperita come la fine dei piaceri terrestri, l’individuo passa la sua intera esistenza in una continua fuga dal “tristo mietitore”.

E questa continua fuga, questa paura della paura che si attua attraverso delle semplici distrazioni dalla mietitrice, non fa altro che favorire l’avvicinamento da parte dell’individuo alla morte. Tale condizione paradossale è dovuta al fatto che l’individuo non viva davvero la vita, assaporandola, contemplandola, divorandola, sbranandola, ma concependola come un semplice e frettoloso escamotage in grado di allontanarlo, però in maniera illusoria, dalla morte.

La situazione di incertezza e disorientamento, che tende a svilupparsi all’interno dell’individuo, deve essere ricondotta all’assenza dell’elaborazione di una cultura della morte da parte della società occidentale postindustriale, protesa verso un progresso infinito, portando a considerare la morte come un qualcosa di indecente che deve essere assolutamente rimosso.

«Attraverso la situazione emotiva tipica della quotidianità e mediante quell’atteggiamento di superiorità “ansiosamente” preoccupato, anche se apparentemente privo di angoscia di fronte al “fatto” certo della morte, la quotidianità tradisce una certezza
“superiore” a quella puramente empirica. Si sa della certezza della morte, ma non si “è” autenticamente certi della propria. La quotidianità deiettiva dell’Esserci conosce la certezza della morte, eppure elude l’esserne certa. Questa elusione testimonia
fenomenicamente, proprio in virtù di ciò che essa elude, che la morte deve esser concepita come la possibilità più propria, incondizionata, insuperabile e certa».

(Martin Heidegger, Essere e tempo)

“Trionfo della morte” di Giacomo Borlone de Buschis

Il timore di Cleo per la morte si tramuta in una concezione esasperante della bellezza, secondo cui solo l’essere brutto è la vera morte, contrariamente alla bellezza che è l’unico fattore in grado di rendere un individuo vivo e sano dieci volte più degli altri. Da questa constatazione si evince una sorta di ripresa del concetto greco della “καλοκαγαθία” (kalokagathia), secondo cui la perfezione esteriore coincide a pieno con quella morale.

Infatti, la bruttezza viene percepita come una colpa che marchia in modo negativo l’individuo impedendogli così di riscattarsi e costringendolo a vivere nella vergogna e nella colpa più assolute. Mentre la bellezza coincide con una vera e propria sublimazione del corpo e dello spirito, rendendo l’individuo impassibile verso qualsiasi imprevisto postogli dinanzi dalla sorte.

Successivamente si assiste al tentativo di dare una giustificazione quasi metafisica a tale avvenimento funesto. Secondo Cloe, infatti, la causa del suo cancro, e quindi della sua ipotetica morte precoce, è da attribuire al fatto che lei, essendo una cantante, è un’artista e in quanto tale destinata a una assai caduca esistenza.

Il ragionamento di Cloe in merito alla breve vita degli artisti non è immotivato: gli artisti sono infatti degli individui speciali, disumani, e in quanto tali il loro unico o principale obiettivo, da raggiungere nell’effimera permanenza sulla terra, è quello di trasmettere attraverso la propria forma d’arte il messaggio suggerito loro dall’anima.

L’estro creativo, il sommo demonio di cui l’artista è “vittima” per tutta la sua vita, assilla e tormenta questi sempre più terribilmente, inducendolo a esprimere e a sprigionare la propria forma d’arte in una maniera sempre più potente, in un arco di tempo oggettivamente breve. In questo modo l’artista divora completamente la sua linfa vitale, cosicché non vi sia nemmeno una minima quantità necessaria a vivere a stento.

Pertanto l’artista, fin quando sarà tale (e si sa che non può essere altro al di fuori di questa determinata categoria di individui), sarà sempre condannato a un inesorabile destino.

Cleo (Corinne Marchand) in “Cleo dalle 5 alle 7” di Agnès Varda

Proseguendo con la visione del film, si assiste a uno schema climatico il cui senso di soffocamento e di intrappolamento è sempre maggiore, e che inizia con il sentimento di angoscia provato da Cleo in taxi sentendo una sua vecchia canzone. Smarrimento che giunge al culmine con il drammatico grido d’amore Sans Toi, scritto dal pianista Bob (Michel Legrand), ma intonato dalla stessa Cleo.

Si denota il continuo e forzato rifiuto da parte di Cleo nell’accettare la scissione avvenuta tra la lei del passato e la lei del presente, che causerà indubbiamente un disorientamento esistenziale nel personaggio, portandolo a infrangere le regole scaramantiche da lei tanto rispettate.

Si mischia così tra il via vai di gente della città di Parigi con l’intento di scovare la sua vera identità o qualcosa a cui appigliarsi. È proprio in questo contesto cittadino e caotico che la regista inserisce magistralmente, mettendola in bocca a un uomo qualunque, una terribile constatazione che contribuisce alla tragicità del film: «la decadenza della poesia è una cosa atroce».

Una volta raggiunto il culmine della drammaticità e del disorientamento esistenziale, Cleo riesce a riprendere le redini della propria vita precedentemente smarrite, a essere felice, o quantomeno a immaginarsi felice. Accetta la sua malattia in seguito a una purificazione dell’anima, avvenuta, inizialmente, attraverso l’incontro con la natura e subito dopo grazie alla conoscenza di un uomo misterioso, bizzarro, ma al contempo innamorato della vita.

Anche in queste scene ritorna il tema della morte, ma in una prospettiva differente: Antoine, infatti, ha una visione classica della morte poiché, concependo la vita in senso universale, ritiene che la morte non sia affatto un qualcosa di desolante, ma un qualcosa di atrocemente sublime, di umano e troppo umano, la nostra possibilità più prossima, mediante la quale è possibile riscattare la propria identità, il proprio essere, soprattutto se “dedicata” all’amore verso qualcuno.

Agnès Varda, consapevolmente o meno, si rifarà alle considerazioni del filosofo tedesco Martin Heidegger in Essere e tempo (1927), rispetto all’autenticità scaturita dall’essere-per-la-morte.

«Se prendo la morte nella mia vita, la riconosco, e l’affronto a viso aperto, mi libererò dall’angoscia della morte e dalla meschinità della vita – e solo allora sarò libero di diventare me stesso».

(M. Heidegger, Essere e tempo)

cleo dalle 5 alle 7
Cleo (Corinne Marchand) in “Cleo dalle 5 alle 7” di Agnès Varda

Un aspetto presente in questo lungometraggio è certamente quello musicale. Nelle varie scene la musica viene presentata come un vero e proprio φάρμακον (pharmakon): inizialmente, infatti, assume l’accezione negativa del termine greco, ovvero veleno, poiché per Cleo la musica, precisamente la sua, non fa altro che enfatizzare il suo malessere interiore; successivamente l’accezione è esclusivamente positiva poiché il termine “cura” viene assiduamente accostato a “musica”.

Da ciò si evince che la musica non è altro che uno strumento oltremodo potente in grado di generare nell’animo dell’individuo un atroce e meraviglioso turbamento. Tale teoria viene esplicata in modo impeccabile dal jazzista italiano Paolo Conte all’interno del suo brano La vera musica:

«La vera musica sa far ridere e all’improvviso ti aiuta a piangere,
la grande musica frequenta l’anima, […] la musica tutto domina
e non si sa perché e non si sa perché».


(Paolo Conte, La vera musica)

Un’altra denuncia che si denota, però in modo meno esplicito, è quella fatta da Antoine verso la tendenza dell’individuo nel coprirsi, nel nascondersi dietro l’opportunismo delle maschere della società, nell’omologarsi alla massa in preda alla vergogna, piuttosto che esaltare la propria nudità e la propria semplicità, quindi la propria essenza più pura, rimanendo eccitato e commosso da quella altrui.

cleo dalle 5 alle 7
Cleo (Corinne Marchand) e Antonine (Antoine Bourseiller) in “Cleo dalle 5 alle 7” di Agnès Varda

Una particolarità, in merito alla struttura del lungometraggio, è quanto il tempo filmico scorra contemporaneamente al tempo reale. Pertanto la scelta del titolo Cleo dalle 5 alle 7 non risulta essere affatto banale se si considera l’ipotesi che la regista avesse intenzione, attraverso la simultaneità dei due tempi, di far assistere e di far conoscere allo spettatore in modo più dettagliato e preciso le diverse vicende della protagonista che accadono in questo delimitato arco temporale, favorendo così l’immersione da parte di questi. Quindi è come se, durante la visione del film, lo spettatore si estraniasse e vivesse quelle due ore non come propriamente sue, ma come parte della vita di Cleo.

Soffermandoci sulla regista, Agnès Varda, una donna pienamente meravigliosa e anticonformista, è passata alla storia come una delle seguaci della Nouvelle Vague, un movimento cinematografico, sviluppatosi nella Francia degli anni ’50 e ’60 del Novecento, i cui massimi esponenti furono François Truffaut, Jean-Luc Godard, Claude Chabrol ed Éric Rohmer.

In un preciso passo del film si trova, infatti, un esplicito riferimento a Godard: Cleo si reca insieme alla sua amica Dorothée da Raoul, il fidanzato di lei che è anche proiezionista. Questi permette loro di guardare il film che sta proiettando in quel momento dalla sua postazione. Da questa forma di metacinema si comprende con sorpresa non solo che il cortometraggio in questione si riaggancia al concetto su cui ruota tutto il film, ovvero che l’essenza della propria vita è molto condizionata dalla prospettiva con cui l’individuo si pone a osservarla e a viverla, ma che ha come protagonisti proprio Jean-Luc Godard e Anna Karina.

Leggi anche: Agnès Varda – La prima regista della Nouvelle Vague

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