Nouvelle Vague: Manifesto cinefilo-esistenziale di una generazione
«La fotografia è la verità. E il cinema è la verità ventiquattro volte al secondo».
(Jean-Luc Godard)
Parigi. Fine anni ’50. Da una decina d’anni è stata fondata la Quarta Repubblica, e la crisi post-bellica combinata all’inizio della guerra fredda cadeva prepotentemente sulla testa dei francesi, come un lungo temporale che confonde le lacrime con la pioggia.
Nel bel mezzo della guerra d’Algeria, lo straniero Albert Camus muore in un incidente d’auto con in tasca un libro di Nietzsche e il suo primo testo autobiografico. Un anno più tardi del compagno esistenzialista, muore Merleau-Ponty per un arresto cardiaco e viene pubblicato Il secondo sesso di Simone de Beauvoir.
La profonda crisi politica, culturale e identitaria che caratterizza il suolo e sottosuolo francese è dunque innegabile.
Tuttavia, durante la resistenza parigina, Jean-Paul Sartre tenta di instaurare una morale, fallendo, e i Quaderni per una morale non vennero mai pubblicati, cosicché quella morale, «necessaria e impossibile al medesimo tempo», smarrendosi, aleggiava come uno spettro in tutto il contesto sociale europeo.
Per compensare questa situazione di perdizione culturale dilagante, con delle pretese mitopoietiche che ricordavano le origini del cinema americano, il cinema tradizionale francese, quello di Aurenche, Sigurd o Autant‐Lara, quello che Truffaut considerava «un cinema anti-borghese fatto da borghesi per borghesi», tentava, attraverso un realismo mascherato ancorato a un giudizio ideologicizzato, di testimoniare la crisi interna rifondando una sorta di morale nazionale.
«Questa scuola che mira a fare del realismo, lo distrugge sempre nel momento stesso in cui finalmente lo afferra, preoccupata com’è di imprigionare gli individui in un mondo chiuso, barricato da formule, giochi di parole e luoghi comuni, e non di lasciare che questi individui si mostrino quali sono, sotto ai nostri occhi».
(François Truffaut, “Una certa tendenza del cinema francese”, 1954)
Se nei salotti del centro di Parigi si comunicava con parole vuote e occhi chiusi, fuori da quelle finestre, in strada, nelle piazze e nelle periferie qualcosa stava cambiando, l’eco delle voci di un’intera generazione risuonava sempre più forte, una maggioranza frammentata incominciava a riunirsi.
Se, come diceva Wittgenstein «i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo», allora questa nuova gioventù necessitava di un cinema che fosse vero, sperimentale e libero da categorie sistematiche, un cinema che fosse all’altezza della realtà che stavano vivendo, un cinema nel quale potessero, rispecchiandosi, ri-conoscersi.
Stava nascendo la Nouvelle Vague.
O almeno così è come venne designata dai giornali. La prima volta che comparve questo termine fu il 3 ottobre 1957, su L’Express, in un’inchiesta sociologica sui fenomeni generazionali. Tuttavia, la nascita di questa corrente artistica e stilistica, che si avvicina più a una battaglia generazionale, è da targare nell’aprile 1951, quando André Bazin fonda i Cahiers du cinéma: una rivista tutt’ora presente che rivoluzionò i canoni della critica cinematografica.
Bazin, insegnante di vocazione, che concepiva la cultura come mezzo per l’emancipazione popolare, divenne maestro di un’intera generazione di futuri cineasti, portandoli in direzione ostinata e contraria verso la critica, incoraggiando Godard a scrivere nel 1953 e divenendo protettore e padre spirituale di Truffaut. Bazin, in Che cos’è il cinema?, fu uno dei primi a definire il «cinema un linguaggio», ma un «un linguaggio senza lingua» aggiungerebbe Metz, poiché libero, prospettico e a-sistematico.
«Tutto il cinema che vedo, tutta l’arte che mi passa sotto gli occhi costituisce la mia ispiazione».
(Eric Rohmer)
Concependo come manifesto artistico l’articolo di Truffaut Una certa tendenza del cinema francese, i Cahiers du cinéma divennero voce della «politica degli autori», ridimensionando il ruolo della sceneggiatura, della scenografia o della produzione, ed elevando la figura del regista cinematografico che, attraverso scelte stilistiche e personali, riconduce la manifestazione di sé e del suo pensiero nell’opera filmica.
Ciò permise un’operazione ermeneutica della storia del cinema, volta a riconoscere per la prima volta il valore di autori quali Alfred Hitchcock, Howard Hawks, Nicholas Ray e Fritz Lang, ma soprattutto Roberto Rossellini e il neorealismo italiano che fino ad allora non avevano ottenuto il riconoscimento che meritavano.
«Il cinema non è un mestiere. È un’arte. Non significa lavoro di gruppo. Si è sempre soli; sul set così come prima la pagina bianca. E per Bergman, essere solo significa porsi delle domande. E fare film significa risponder loro. Niente potrebbe essere più classicamente romantico».
(J.L. Godard, “Cahiers du cinéma“, 1958)
Frequentando associazioni, sale cinematografiche, parlando per strada e dunque vivendo di cinema, gli scrittori dei Cahiers du cinéma rivoluzionarono il modo di intendere la settima arte, liberandolo dalle catene sistematiche alla quale era stato assoggettato. Ciò permise l’espressione totale dell’autore, immaginando il film come l’entità più intima di un regista, e dando il via al processo di personalizzazione dell’opera filmica. La critica divenne luogo d’indagine delle potenzialità del linguaggio cinematografico e dell’espressività autoriale, ogni articolo incarnava una possibilità del cinema futuro e, trovando una sintesi tra la dimensione teorica e pratica, i Cahiers du cinéma furono autentico manifesto del movimento generazionale francese.
«Noi ci consideravamo tutti, ai Cahiers du Cinéma, come futuri registi. Frequentare i cineclub e la Cinémathèque era già pensare cinema e pensare al cinema. Scrivere era già fare del cinema, perché tra scrivere e girare c’è una differenza quantitativa e non qualitativa».
(J.L. Godard, 1988)
Ed è così che i giovani scrittori dei Cahiers du cinéma divennero i grandi registi della Nouvelle Vague.
Allontanandosi dal cinema tradizionale dei “figli di papà”, i nuovi autori si buttarono nelle strade concependo gli interni costruiti come pura retorica, prediligendo ambienti reali e negando la grande scenografia, ricercando attori esordienti e scartando i famosi professionisti, rigettando il découpage classico americano e lasciando vera libertà sperimentale nel montaggio, favorendo un’improvvisazione costante illuminata dalla sola luce naturale e rubando il suono dalla città, utilizzando solo quello in presa diretta. Niente costose attrezzature, niente grandi attori, niente luci artificiali o scenografie particolari, ma solo la pura e autentica realtà.
«Ora ho delle idee sulla realtà, mentre quando ho cominciato avevo delle idee sul cinema. Prima vedevo la realtà attraverso il cinema, e oggi vedo il cinema nella realtà».
(J.L. Godard)
Per i registi della Nouvelle Vague, consapevoli della natura illusoria di quest’arte rappresentazionale, il cinema era un contatto e uno scambio costante con il mondo, intenzionati a mostrarlo e non raccontarlo, ricercando la bellezza nello «splendore del vero» direbbe Godard. L’atteggiamento attuato dai giovani cineasti è, secondo l’intellettuale Metz, riportando le parole d Merleau-Ponty, fenomenologico poiché tenta di essere «una descrizione della realtà così com’è», nella quale il significante equivale al significato, e una sequenza cinematografica appare percepibile come uno spettacolo della vita.
Profondamente legati al neorealismo italiano – Truffaut nel 1956 fu assistente alla regia di Rossellini per tre film che non vennero mai portati a termine -, i nuovi cineasti fecero propria la lezione di Cesare Zavattini, secondo la quale «il tentativo vero non è quello di inventare una storia che somigli alla realtà, ma di raccontare la realtà come fosse una storia».
«Il problema vero è non fermarsi alla rappresentazione della vita, bensì andare a cercarla dove nasce veramente, nelle chiacchiere dei ragazzi, nei brividi del cuore, nel formarsi di un’idea».
(E. Rohmer)
Ed è così che, attraverso l’esperienza dei Cahiers du cinéma e l’angosciante necessità di narrare il vero, emersero le figure più determinanti della Nouvelle Vague: François Truffaut, Jean-Luc Godard, Claude Chabrol, Jacques Rivette e Eric Rohmer, che iniziarono a girare i primi cortometraggi; ai quali si aggiunsero dal 1958 al 1962 oltre centosessanta nuovi registi e registe che si riconoscevano in questa nuova corrente cinefilo-esistenziale.
Il cinema che produssero era completamente indipendente, iniziando con cortometraggi “fatti in casa”, come il primo lavoro di Truffaut, Une visite (1955), girato in 16mm, in un appartamento insieme a una troupe di amici: Rivette era operatore e direttore alla fotografia, mentre Alain Resnais si occupava di montaggio.
Il primo spunto fu proprio di Rivette con Le coup de berger (1956), che esplose poi nel primo vero film della Nouvelle Vague di Claude Chabrol intitolato La beau Serge (1958).
«Chiedo che un film esprima la gioia di fare cinema o l’angoscia di fare cinema, e mi disinteresso di tutto ciò che sta nel mezzo».
(F. Truffaut)
La collettività intrinseca al movimento, la coscienza collettiva che individualmente ognuno incarnava, permetteva uno scambio di idee e una condivisione di pensieri che generava poieticamente una nuova forma di realtà. Per esempio, l’esordio alla regia di Jean-Luc Godard Fino all’ultimo respiro (1960) che portò 260.000 spettatori al cinema solo a Parigi e che vinse l’Orso d’argento al Festival di Berlino, nasce da un soggetto di Truffaut, rubato da un fatto di cronaca.
«Qualsiasi cosa faccia la gente, tutto poteva essere inserito nel film. È proprio questa l’idea da cui ero partito. Pensavo: c’è già stato Bresson, è appena uscito Hiroshima, un certo tipo di cinema si è appena concluso, forse è finito, allora mettiamo il punto finale, facciamo vedere che tutto è permesso. Quello che volevo era partire da una storia convenzionale e rifare, ma diversamente, tutto il cinema che era già stato fatto».
(J.L. Godard)
Rubare dalla realtà era divenuto un carattere determinante della Nouvelle Vague, si rubavano tecnicamente le immagini e i suoni del mondo, ma anche le sue storie a livello narrativo, ricercando lo splendore del vero e l’anima delle cose di tutti i giorni. Attraverso il cinema si tentava di imprimere al divenire il carattere dell’essere, e quei film divenuti diari intimi di un autore e al contempo di una generazione, erano spazio di riflessione su di sé e sulla propria vita. La realtà dava loro materiale d’ispirazione e loro davano alla realtà materiale di potenziale trasformazione e presa di consapevolezza di essa.
«Per continuare a fare cinema ho bisogno di vivere la mia vita, entrare nei musei, passeggiare in campagna».
(E. Rohmer)
Il primo lungometraggio di Truffaut, infatti, che nel 1959 vinse il premio di Cannes, si rifaceva prepotentemente al passato del bambino François alle prese con la famiglia e la scuola in un percorso mito-autobiografico.
«Anch’io ho avuto una carriera scolastica molto movimentata, ma ne I 400 colpi non tutto è autobiografico, anche se tutto è vero. Che quelle avventure siano state vissute da me o da un altro non ha importanza, l’essenziale è che siano state vissute».
(F. Truffaut)
Purtroppo però, il maestro della Nouvelle Vague André Bazin non riuscì a vedere la realizzazione pratica di tutte quelle teorie che circolavano nei Cahiers du cinéma, morì di leucemia appena quarantenne, paradossalmente la notte successiva all’inizio delle riprese de I 400 colpi del suo allievo Truffaut, il quale dedicò il film alla sua memoria.
«Fare un film significa migliorare la vita, sistemarla a modo proprio, significa prolungare i giochi dell’infanzia».
(F. Truffaut)
Senza il maestro spirituale al quale fare riferimento e l’affermazione internazionale attraverso le opere prime di Truffaut e Godard, il movimento della Nouvelle Vague esplose enormemente, permettendo a tantissime giovani persone di riconoscersi in ciò che guardavano, di esprimersi in ciò che facevano, di essere presenti in ciò che vivevano.
E così emersero tra gli altri Angnes Vardà, Alain Resnais, oppure attori come Jean-Pierre Léaud, Jean-Paul Belmondo e Anna Karina. E così La donna è donna, Hiroshima mon amour, Céline e Julie vanno in barca, Il disprezzo, Jules e Jim, La mia notte con Maud ecc. Infine emersero temi quali il metacinema, il cinema fenomenologico, i triangoli amorosi, il cinema sociale e politico. Ma così emerse anche una generazione successiva di autori e autrici profondamenti influenzati dalla Nouvelle Vague, come il cinema americano che mutò profondamente facendo nascere la New Hollywood.
«Il film di domani sarà diretto da artisti per i quali girare un film costituisce un’avventura meravigliosa ed emozionante».
(F. Truffaut)
E se Truffaut disse che appartiene «a una generazione di cineasti che hanno deciso di fare film avendo visto Quarto Potere», per la rivoluzione del cinema moderno, allora noi apparteniamo a una generazione di giovani che hanno deciso di fare film dopo aver conosciuto la storia cinefilo-esistenziale della Nouvelle Vague.