L’insostenibile tragicomica verità di Don’t Look Up
«L’idea dell’eterno ritorno è misteriosa e con essa Nietzsche ha messo molti filosofi nell’imbarazzo; pensare che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l’abbiamo già vissuta, e che anche questa ripetizione debba ripetersi all’infinito! Che significato ha questo folle mito?».
(Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, 1984)
Così esordisce Milan Kundera ne L‘insostenibile leggerezza dell’essere, domandandosi il significato dell’eterno ritorno: la visione nietzschiana, perentoria nel suo darsi e prospettica nel suo dirsi.
«Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte», profetizzò Nietzsche ne La gaia scienza, rivelando il suo pensiero più abissale. Tutto riaccadrà, ancora e ancora, la vita del singolo così come la storia del mondo.
«L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta», prosegue l’annunciatore del nichilismo. La storia rimane la stessa, ma mutano gli interpreti, il finale della narrazione porta ai medesimi esiti, ma mutano gli attori. Cambiano i volti, ma non le parole, le sfumature, ma non le strutture. Cambiano gli interessi, ma non la volontà di potere cieca, autoritaria e manipolatrice votata al loro raggiungimento.
«La storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa».
(Karl Marx)
Adam Mckay fa propria la lezione di Marx e, nella sua trilogia sulla contemporaneità – La grande scommessa (2015), Vice (2018) e Don’t Look Up (2021) – racconta eventi dell’accadere odierno: la crisi del 2008, la gestione presidenziale e guerrafondaia di George W. Bush e del vice Dick Cheney, e un evento naturale catastrofico, tutti in chiave tragicomica. Narrando una realtà drammatica ed essendo profondamente ancorato alla verità dei fatti, il regista Mckay non può che raccontare queste storie come fossero delle farse, delle commedie profondamente drammatiche e delle tragedie vivamente divertenti.
Perché lo scoppio di una bolla finanziaria è una tragedia, l’attentato alle Torri Gemelle è una tragedia, e anche l’arrivo di una cometa capace di estinguere il genere umano è una tragedia. Tuttavia, la gestione da parte di chi detiene il potere, qualunque tipo di potere, è una farsa.
Secondo Hegel «La filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero», e l’operazione cinematografica di McKay prova a compiere questi passi. Egli indaga la contemporaneità traducibile attraverso l’immagine filmica, ed è intenzionato a svelare l’ombra che si nasconde dietro alla luce di alcuni degli eventi più determinanti negli ultimi vent’anni sulla scena dell’Impero Americano, e dunque su tutto l’Occidente.
In Don’t Look Up, McKay toglie la maschera al sistema neoliberale, del quale tutti facciamo parte. Lo decostruisce, ne svela le contraddizioni ed esplicita, irrimediabilmente, che chi detiene nel palmo della propria mano la vita di milioni di persone, e che teoricamente dovrebbe operare per il benessere della collettività, alla fine agisce solo seguendo i propri interessi ormai divenuti i propri valori.
Non abbiate paura di spoiler voi che entrare, i finali di queste storie li conoscete benissimo. Ne facciamo tutti parte.
Perché la storia per qualcuno è una tragedia, mentre per qualcun altro è un’opportunità.
La creazione di una bolla finanziaria per qualcuno è una tragedia, mentre per qualcun altro è un’opportunità.
Milioni di famiglie americane e le grandi banche ne sanno qualcosa.
L’attentato alle Torri Gemelle per qualcuno è una tragedia, mentre per qualcun altro è un’opportunità.
Milioni di famiglie afghane e irachene, e il governo americano ne sanno qualcosa.
Ma alla fine, per i posteri, sarà tutto e solo irremediabilmente una farsa.
La storia dunque è gattopardesca: tutto cambia, ma per rimanere la medesima cosa. Una tragedia che diviene farsa, ancora e ancora.
Adam McKay utilizza il cinema per raccontare «eventi realmente accaduti» – come per La grande scommessa e Vice – ed «eventi reali non ancora accaduti» – come per Don’t Look Up.
Nella finzione cinematografica, il regista americano si immagina la società neoliberale – in tutte le sue sfaccettature politiche, economiche e di diffusione dell’informazione – che affronta l’arrivo di una catastrofe naturale: una cometa di enormi dimensioni capace di estinguere l’umanità dalla faccia della terra. Ciò si traduce nella nostra realtà assumendo il ruolo dell’emergenza del cambiamento climatico, e, perché no, della pandemia.
Don’t Look Up può, per certi versi, risultare noioso e assolutamente poco originale semplicemente perché assomiglia a una bella copia del nostro mondo. “Bella copia” se continuiamo a concepire la realtà della storia come farsa, per intenderci.
«Il dramma cinematografico ha, per così dire, una trama più serrata dei drammi della vita reale e si svolge in un mondo più esatto del mondo reale».
(M. Merleau-Ponty, Senso e non senso)
La scienza incontra la modernità
Una coppia di scienziati scopre l’esistenza di una tragedia imminente: tra sei mesi una cometa potrebbe distruggere il pianeta Terra. L’astronomo Randall Mindy (Leonardo di Caprio), precedentemente sbeffeggiato dalla politica e dall’informazione, diventa lo scienziato di punta della narrazione istituzionale. In costante contatto con la presidenza degli Stati Uniti e con le televisioni nazionali, finisce sulle copertine dei giornali, risponde ai commenti sui social, e prende parte a iniziative pubblicitarie. Il suo personaggio, mosso da autentici valori scientifici e morali, si lascia inglobare dal flusso illusorio della narrazione istituzionale, diviene parte del sistema, e lentamente si adatta al suo marciume.
Ma «questo è un mondo che ti logora di dentro», cantava Giorgio Gaber, e quando lo scienziato se ne renderà conto, girandosi e vedendo dietro di sé i lasciti dei propri principi, i colleghi scienziati radiati perché dissidenti dalla versione ufficiale e la famiglia abbandonata, capirà che per vincere questo gioco non resta che smettere di giocare.
Totalmente diversa è la parabola di Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence), la dottoranda che effettivamente scopre la cometa. Tutti parlano della cometa Dibiasky, ma nessuno ascolta la ragazza. Tutti ridono di fronte ai video e ai meme creati dopo il suo sfogo in diretta nazionale, ma nessuno presta attenzione alle parole di chi ha paura per un mondo disinteressato all’etica e alla verità. Kate rappresenta una generazione devastata dalla precarietà esistenziale, inascoltata e deprivata di un futuro che non ha nemmeno avuto la possibilità di immaginare.
La politica, l’economia e l’informazione: manie di controllo
Ma i richiami alla contemporaneità non finiscono perché se, come diceva Nietzsche, «Il mondo vero finì per diventare favola», allora alla favola non rimaneva che diventare mondo vero.
E così la prima Presidente donna degli Stati Uniti, Presidente Orlean (Meryl Streep), si rivela una sintesi tra l’estetica di Hillary Clinton e gli atteggiamenti di Donald Trump. Incarna l’essenza dello spirito americano, combinando i lati peggiori del partito Democratico e Repubblicano, divenendo così simbolo dell’America. Prima non curante del problema, poi interessata all’imminente risoluzione per motivi politici, e successivamente volenterosa di cambiare strategia per finalità meramente economiche, la Presidente Orlean (così la definiscono nella versione italiana) rappresenta il modello politico contemporaneo, strizzando l’occhio al Berlusconi nostrano per qualche scandalo sessuale e per una sincera simpatia, totalmente dedito a interessi personali e assolutamente estraneo all’agire finalizzato al benessere pubblico.
Presidente Orlean: «Ciò che credevamo, ciò che il mondo credeva fosse un’incombente e terrificante minaccia, si è rivelata una straordinaria opportunità».
Essa, infatti, è ben orchestrata da Peter Isherwell (Mark Rylance), il CEO per antonomasia, un disadattato genio dell’informatica straripante di manie di grandezza che, nel suo costante sguardo apatico perso nel nulla, incarna perfettamente le sfumature di Steve Jobs, Jeff Bezos, Elon Musk e Mark Zuckerberg. Terzo essere umano più ricco della storia, finanziatore della campagna elettorale della Presidente Orlean, e colui che ha comprato la Bibbia di Gutemberg per poi perderla, con un semplice schiocco di dita blocca la missione di distruzione della cometa e salvataggio della Terra quando scopre la risorsa economica che quella tragedia potrebbe rappresentare, pronto a rischiare la vita di miliardi di persone (ma non la propria) per del denaro e dunque del potere. Perché tanto, alla fine, sempre di numeri si tratta.
Peter Isherwell: «Potete immaginare quanto siamo stati felici quando i nostri astrogeologi hanno scoperto che questa cometa che sfreccia verso di noi dallo spazio profondo contiene addirittura quasi 140 trilioni di dollari di materiali fondamentali per la tecnologia».
Randall Mindy: «Mi scusi, è per questo che avete annullato l’intera missione? Per estrarre minerali? Cosa contano queste centinaia di trillioni di dollari se moriremo tutti con l’impatto?»
Jason Orlean: «Oh! Oh! Oh! E se invece diventassimo ricchi oltre che sani e salvi?»
Avevano un piano, certo, ma a quale prezzo?
Si sa, quando il fine è il profitto economico, qualunque mezzo è lecito.
Peter Isherwell: «Andrà tutto bene».
Per condire l’intero pacchetto e mandare giù la pillola senza alcun tipo di ribellione e dissenso, la televisione, i giornali e i media fanno il loro solito sporco lavoro. Adam McKay si immagina una sintesi tra tutti gli opinionisti e le opinioniste del mattino, capaci di sorridere e scherzare di fronte alla più grave delle disgrazie, consapevoli del loro essere mera farsa e voce di un’unica narrazione.
Si fanno portavoce ufficiale a stampo propagandistico della versione governativa, con ingegneri, scienziati e autorevoli esperti di riferimento pronti a legittimare e a promuovere il grande castello di carte. Attraverso mere illusioni fraduolente, le istituzioni raccontano di poter risanare la povertà, aumentare i posti di lavoro, fornire case per tutti e risolvere qualunque problema possibile e inimmaginabile della popolazione.
E chi ha il coraggio di dissentire verrà messo da parte, divenendo una voce tra le tante le cui parole, pur essendo precedentemente alcune delle più autorevoli, smarriscono di significato. Proprio come accade al nostro amico astronomo Randall Mindy.
«Ma la televisione che ti culla dolcemente
Presa a piccole dosi direi che è come un tranquillante
La si dovrebbe trattare in tutte le famiglie
Con lo stesso rispetto che è giusto avere per una lavastoviglie».
(Giorgio Gaber, C’è un’aria, 1994)
Totalmente amplificato dalle infinite possibilità dell’internet, dai social network e dalle più umane paure, si crea un violento conflitto sociale, tra chi crede cosa e chi crede chi, dai negazionisti della cometa ai fedeli sudditi governativi, formando un’ulteriore narrazione di soli bianchi e neri, negando un sano dibattito pubblico e persino la possibilità di una sfumatura di grigi, trasformando, ancora, la tragedia in uno spettacolo.
«Lo spettacolo è il capitale a un tal grado d’accumulazione da divenire immagine».
(Guy Debord, La società dello spettacolo, 1968)
Così, si costituisce una spaccatura esistenziale e sociale insanabile, tanto che persino i genitori possano non accettare più i propri figli per un certo pensiero politico, come accade all’ormai emarginata scopritrice della cometa Dibiasky.
I protagonisti siamo noi
Ecco dunque il quadretto che compone Adam McKay, non inventandosi nulla di sana pianta, ma rubando tragicamente dal reale e riportandolo in un cinema nemmeno così tanto finzionale.
«Don’t look up», ci dice il regista, richiamando per un occhio superficiale al movimento negazionista della cometa capeggiato dalla Presidente Orlean. Tuttavia, andando leggermente più a fondo, è palese come McKay si stia riferendo a noi, noi spettatori e noi personaggi interni alla narrazione, pregandoci di smettere di avere fiducia cieca e assoluta nelle istituzioni. Nelle istituzioni pubbliche e private, visibili e invisibili, nazionali e multinazionali, perché umane – troppo umane -, e di conseguenza dirette dai più biechi, disonesti e spietati interessi egoistici.
E sta a noi, popolo che dovrebbe ricercare una consapevolezza politica e un’autoderminazione critica, prendere una posizione, indagare la complessità e iniziare veramente a guardare, perché, cantava De André, «per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti».
«Certo bisogna farne di strada
Da una ginnastica d’obbedienza
Fino ad un gesto molto più umano
Che ti dia il senso della violenza
Però bisogna farne altrettanta
Per diventare così coglioni
Da non riuscire più a capire
Che non ci sono poteri buoni
Da non riuscire più a capire
Che non ci sono poteri buoni»
(Fabrizio De Andrè, Nella mia ora di libertà, 1973)
Questo è ciò che ci hanno insegnato le crisi degli ultimi vent’anni.
Ma va tutto bene e andrà tutto bene.
Del resto, il nostro sistema neoliberale capitalista sta facendo anche cose buone.