L’Eterno Ritorno nel Cinema – Inside Llewyn Davis, Eternal Sunshine e Memento

Tommaso Paris

Marzo 12, 2020

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L’Eterno Ritorno nel Cinema – Inside Llewyn Davis, Eternal Sunshine e Memento.

«Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione».

(Friedrich Nietzsche- “La gaia scienza”)

Così inizia l’aforisma 341 de La gaia scienza, ciò che venne definito il peso più grande, il pensiero più abissale di Friedrich Nietzsche. Nell’estate del 1881 a Sils Maria, l’epifania dell’eterno ritorno dell’uguale incontrò il cammino del filosofo tedesco, che ne divenne massimo portavoce. Nietzsche, inizialmente riprendendo la concezione del tempo ciclico propria dell’attitudine stoica, narra questa dottrina filosofica in forma metaforica in Così parlo Zarathustra, senza compierne un’autentica rielaborazione teoretica e rigorosa, ma rivelandola come una tetra profezia, un inconfessabile segreto, un pensiero abissale.

Friedrich Nietzsche

Nietzsche annuncia un mondo condannato, o forse semplicemente destinato, alla ripetizione del proprio accadere, rivelando come ogni frammento di vita, ogni attimo dell’esistenza debba necessariamente ripresentarsi nella sua stessa forma. Così come Sisifo che, condannato dagli dei a trasportare un macigno – la rappresentazione metaforica del “così fu” – in cima a una montagna, lo vede cadere ogni volta, ricominciando da capo la medesima azione, eternamente.

L’eterno ritorno dell’uguale, rappresentato da Uroboro, – il serpente che si morde la coda simbolo della ciclicità temporale che, apparentemente fermo, è però in perpetuo movimento – coincide con la clessidra dell’esistenza che viene costantemente capovolta, è l’eternità che si impossessa di ogni momento della storia. L’accadere eterno di noi stessi, il continuo ripetersi delle nostre scelte, delle gioie e sofferenze, assumendo le sfumature di un racconto di sé stessi, ci rivela una strada nel nostro cammino, ci permette di divenire ciò che si è. Più che un assoluto teoretico e ontologico, questo pensiero abissale vuole assumere il ruolo di atteggiamento esistenziale, di prospettiva nuova con cui vivere l’accadere del mondo.

Non c’è una fine, non c’è un inizio, ma tutto scorre nel flusso di un fiume infinito, accade così come accade, e diviene, eternamente.

Uroboro

Esistono diversi modi per affrontare questo peso, o forse questa fortuna, e il cinema, il più grande narratore di storie che meglio rappresentano l’immaginario, ci ha mostrato alcune possibilità.

Esistono film la cui ciclicità narrativa mostra un inizio e una fine che smarriscono le proprie sfumature assolute, necessarie e definitorie, confondendosi tra loro e rivelandosi due dei tanti granelli propri della clessidra dell’esistenza.

Esistono personaggi il cui percorso evolutivo non conduce da nessun’altra parte se non al punto di partenza, la cui storia si rivela essere un eterno ritorno all’origine, dove il “vissero felici e contenti” non è altro che il “c’era una volta”. Questi personaggi, consapevolmente o meno, sono condannati a un perpetuo auto-fallimento in cui tutto ritorna eternamente, come un inferno esistenziale. I personaggi e il loro atteggiamento nei confronti del pensiero abissale dell’eterno ritorno che prendiamo in esame sono Llewyn Davis di Inside Llewyn Davis, Leonard Shelby di Memento e Joel e Clementine di Eternal Sunshine of the Spotless Mind.

Inside Llewyn Davis – Umano, troppo umano

Chi è Llewyn Davis?

Llewyn Davis è un cantante folk a New York negli anni Sessanta; tuttavia, Llewyn Davis è un eterno perdente, uno degli infiniti Bob Dylan che non ce l’ha fatta, è chi è caduto e non ha avuto il coraggio di rialzarsi, chi ha perso l’occasione.

Il protagonista del film dei fratelli Coen possiede un talento che fatica a esprimersi, un talento forse non abbastanza grande, ma pur sempre di un’unicità tale che lo condanna a crederci. Con l’eterno scorrere del racconto, Llewyn Davis acquisisce la consapevolezza di essere l’autore dei propri fallimenti, il proprio ostacolo, la propria sventura. L’autentica conoscenza di sé stesso si disvela quindi profondamente tragica.

Vagando, cercando, inseguendo qualcosa senza sapere davvero cosa, Llewin si perde nei meandri di una vera e propria Odissea. Il suo è un viaggio che non porta da nessuna parte, ma si intreccia invece con il tentato ritorno di un altro personaggio, un’altra Odissea, quella del gatto, chiamato tra l’altro Ulisse. Quest’ultimo, al contrario di Davis, riesce a raggiungere la sua meta, ritorna sulla strada verso casa, ottiene una conclusione alla sua storia. L’Odissea di Llewyn, invece, non avrà compimento, ma tornerà eternamente al suo punto di origine, così come il suo (non) arco narrativo.

I Coen, attraverso una ciclicità narrativa evocata dalla stessa scena all’inizio e alla fine dell’opera, ci mostrano il protagonista affondare in una vita di eterni ritorni e fallimenti, negando ogni possibilità che l’accadere del mondo gli presentava, senza compiere alcun cambiamento durante l’intera storia e ritornando perennemente da sé stesso. Tutto costantemente si ripete, e noi veniamo immersi nella tragica superficie profonda propria dell’esistenza, divenendo consapevoli che il film, la vita di Llewyn, come la nostra, non avrà una conclusione con un irreale lieto fine. Llewyn Davis è un eterno perdente, lo è per sfortuna, lo è per scelta… lo è perché umano, troppo umano direbbe il filosofo tedesco.

«Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato?»

(F. Nietzsche – “La gaia scienza”)

L’eterno ritorno dell’uguale nietzschiano è reso manifesto dai fratelli Coen nel finale del film, e subito da Llewyn quando, dopo aver suonato al solito bar la solita canzone, vede salire sul palco un giovane con una chitarra e un’armonica a bocca, il vero eroe e vincitore di quel tempo e quel luogo, colui che sarà Bob Dylan.

E mentre quest’ultimo attua il percorso per divenire ciò che è, Davis, esattamente come la prima scena dell’opera, viene pestato in un vicolo. «Au revoir» sono le ultime parole del protagonista, consapevole che quei fallimenti, quei viaggi senza meta e quelle sconfitte non faranno altro che ritornare, eternamente.

Memento – Leonard al di là del bene e del male

Dopo l’aggressione subita da due uomini che avevano violentato e ucciso la moglie, Leonard Shelby è affetto da un disturbo mentale che lo condanna a perdere la memoria a breve termine, ritrovandosi così completamente abbandonato a sé stesso, senza alcun punto di riferimento. Il suo mondo esiste 15 minuti alla volta, poi ricomincia da capo, eternamente. Incapace di dimenticare il suo ultimo e autentico ricordo, la morte della moglie, il protagonista trova la sua unica ragione di vita nella affannosa ricerca dell’assassino.

Il regista Christopher Nolan, con un montaggio rivoluzionario e con la scelta del bianco e nero nei flashback, riesce a raccontare una storia ingabbiata dalla decadenza del tempo, una storia che è come se ogni quarto d’ora ripartisse da zero. La narrazione, il cui inizio si intreccia e capovolge il ruolo con la fine, mostra l’arco narrativo di un personaggio che, esclusivamente finalizzato alla ricerca del suo John G., non può fisiologicamente attuare un’evoluzione, rimanendo eternamente ancorato al proprio inattuale presente.

Nel corso del racconto, scopriamo come, in realtà, l’aggressione non causò la morte della moglie, ma solo il disturbo di Leonard. Lei sopravvisse, ma tentando di risvegliare la memoria ingabbiata del marito, si fece iniettare plurime dosi di insulina, convinta che, essendo in gioco la sua vita, Leonard riuscisse a capire cosa stesse accadendo, ricordando. Tuttavia, così non fu, l’orologio mentale del protagonista rimase fermo al primo quarto d’ora e l’amata moglie morì. Da questo momento in poi, Leonard avrebbe collegato la morte della moglie all’ultimo ricordo lucido che ancora controllava: l’aggressione. Nel corso del tempo, il protagonista riuscì a trovare e uccidere John G., ma, dimenticando di averlo già fatto, la ricerca dell’assassino di sua moglie non terminò, divenendo la sua ossessione, la sua unica ragione di vita.

Tuttavia, nel finale del film, che in realtà scopriamo essere l’inizio, si nota come Leonard scelga di autoimporsi l’eterno ritorno, decide consapevolmente che la ricerca dell’assassino della moglie non dovrà mai terminare, decide di non scrivere da nessuna parte la realizzazione dell’obiettivo, decide di dimenticare.

Il passato, essendo solo una storia da raccontare a sé stessi, diviene manipolabile, permettendo di ingannare anche chi non ci si aspetterebbe mai: sé stessi. Pur di avere uno scopo, Leonard si autoinganna, consapevole che senza memoria e senza nessuno, la volontà sia l’unico appiglio a cui aggrapparsi.

Leonard Shelby: «Mento a me stesso per sentirmi meglio».

In questo circolo destinato a ripetersi all’infinito, l’esistenza di Leonard si rivela essere ingabbiata da un eterno ritorno che, per quanto non gli permetta di vivere autenticamente, gli consente di continuare a vivere, conferendo un senso alla sua condizione, a una vita che altrimenti svanirebbe come lacrime nella pioggia.

Eternal Sunshine of the Spotless Mind – Joel, Clem e l’amor fati

I protagonisti di Eternal Sunshine of the Spotless Mind, come due anime sperdute che nuotano in una bolla di pesci direbbero i Pink Floyd, si incontrano, si scontrano, e poi si rincontrano ancora, eternamente.

Il film sceneggiato dal genio di Charlie Kaufman, partendo dalla fine, narra simultaneamente la relazione tra Joel e Clem e la fine della loro relazione. Inizialmente i due innamorati sono veramente felici, ma quella felicità, fragile, ma non per questo illusoria, svanisce nell’ombra della reale conoscenza dell’Altro: Joel scoprirà un’insopportabile volgarità e un’insostenibile ignoranza da parte di Clementine, mentre lei troverà in lui il classico personaggio dall’aria timida e indifesa che si ritrae dalla realtà.

Dopo essersi amati, i due, inevitabilmente, si smarriranno. Tuttavia, Clem decide di rimuovere dalla memoria, attraverso marchingegni scientifici, qualsiasi ricordo riguardante l’ormai ex amato. Così Joel decide di fare lo stesso, di smettere di soffrire per ciò che fu una parte di sé, e di sacrificare ogni singolo e minimo dettaglio della loro storia: ogni sguardo, ogni bacio, ogni emozione.

Alla fine del film, però, una volta cancellato qualsiasi residuo fisico dalla memoria, ma non per ciò la dimensione sentimentale e metafisica, i due protagonisti si rincontreranno come apparenti sconosciuti. Scopriranno di essersi cancellati la memoria per dimenticare l’altro, i motivi e i problemi della loro relazione, consapevoli quindi che la loro storia, prima o poi, inevitabilmente raggiungerà il proprio orizzonte. Eppure, qualcosa li lega, qualcosa non permette loro di abbandonarsi, come fossero due anime che, consapevoli dell’irrazionalità delle loro azioni, tendono una mano verso l’altro per non abbandonarlo.

Joel: «Non riesco a vedere niente che non mi piaccia in te, ora non ci riesco».
Clem: «Ma lo vedrai, ma lo vedrai! certo col tempo lo vedrai, e io invece mi annoierò con te, mi sentirò in trappola perché è così che mi succede!».
Joel: «Okay».
Clem: «Okay? …Okay».
Joel: «Okay».

I due protagonisti, fin troppo consapevoli dell’inevitabile fine del loro amore, decidono lo stesso di dare voce alle emozioni, di amarsi e di amare anche ciò che sarà la fine. Joel e Clem con quel “Okay” assumono e accettano il proprio destino, un destino che si presenterà uguale, eternamente.

«Beati gli smemorati, perché avranno la meglio anche sui loro errori».

(F. Nietzsche – “Al di là del bene e del male”)

In questo flusso di eterni ritorni, Joel e Clem si perdono, si ritrovano, si perdono ritrovandosi e si ritrovano perdendosi.

L’atteggiamento esistenziale assunto dai due personaggi nei confronti del pensiero abissale nietzschiano è ciò che predilige il filosofo tedesco, per cui al “così fu” bisogna rispondere il “così volle che fosse”, al fato bisogna rispondere con un solco lungo il viso, come una specie di sorriso.

«(…) la mia formula per la grandezza dell’uomo è amor fati: non volere nulla di diverso, né dietro né davanti a sé, per tutta l’eternità»

(F. Nietzsche – “Ecce Homo”)

«E Nietzsche, con la sua teoria dell’eterno ritorno. Diceva che la vita che noi viviamo la vivremo ancora, ancora e ancora, e esattamente nello stesso modo per l’eternità. Splendido! Questo significa che io dovrò vedere ancora Holiday on Ice. Non vale la pena».

(Woody Allen – “Hannah e le sue sorelle”)

Leggi anche: La poetica rivelatrice dell’inizio – (Non) c’era una volta

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