È molto difficile offrire una recensione di Copperman senza considerare, in prospettiva, tutto il recente processo di contaminazione fra il panorama italiano e il cinema di genere che si vuole solo americano. Processo, si noti, ormai solo a senso unico, esecrabile o meno, figlio di un cinema che dopo avere a lungo mostrato la via, sente di aver perso la bussola. E non trova altra soluzione se non di comprarne una made in USA.
È molto difficile perché valutare il film del 2019 di Eros Puglielli senza un minimo di contestualizzazione, non serve a nessuno: letteralmente, ce lo saremmo anche risparmiato. Perché se è vero che il cinema de noantri sta facendo passi sempre meno timidi verso il cinema di voialtri – di voi, elvis-maniaci – è anche vero che i primi passi, per definizione, sono (quasi) sempre fallimentari. A parte quelli dei geni, ma non è questo il caso.
Dove si colloca Copperman
Quando parliamo di primi passi geniali intendiamo, ovviamente, che questo processo in svolgimento non è affatto cosa recente. A mostrare la via, nel 2015, Gabriele Mainetti con Lo chiamavano Jeeg Robot, perfetto connubio di cinema di periferia e cinema dei supereroi – quindi de noantri e di voialtri. Banalità detta e ridetta, che non servirebbe ripetere se non per dirne un’altra. E cioè che dopo aver riconosciuto l’operazione di Mainetti, il pubblico ci ha messo qualche anno per prendere coscienza di una generale tendenza che la critica già tentava di indorargli. Per passare dal singolare al plurale e riempirsi la bocca di questa categoria scomoda, gustosamente indefinibile quanto quella di cinema d’autore.
Quindi, da film di genere a cinema di genere: ecco, c’è la tendenza. Siamo all’incirca nel periodo di Copperman, di pellicole così ne sono uscite e bisogna cominciare a smistarle. Perché ciò che una certa fetta di pubblico non capisce è che questo processo è tutt’altro che unitario. Piuttosto, sono due processi distinti, paralleli, ma distinti. L’uno crea ex novo: supera l’oceano, guarda agli americani, prende appunti, torna indietro e si butta nel cinecomic, genere che in Italia ha avuto un passato scarno o inesistente, almeno nell’impostazione classica del genere. Questo è il filone in cui si inserisce – o pretende di inserirsi – Copperman.
«Gli artisti non copiano, rubano».
(Pablo Picasso)
L’altro non crea, semmai ricrea: recupera un filone di pellicole di genere italiane che, mentre Fellini ed eredi insegnavano al mondo il cinema alto, hanno fatto la storia del cinema basso o considerato tale, non avendo nulla a che invidiare ai compari d’oltreoceano. Quindi no, il cinema di genere non è solo quello degli americani.
C’è un motivo per cui oggi lo spaghetti western è più famoso di quello senza spaghetti. E per cui, infatti, mentre Copperman copia dallo scibile di cinema di genere e non, credendo gli americani più svegli, forse gli americani gli danno prova di essere svegli davvero. Perché quando devono copiare, lo fanno con neowestern del calibro di The Harder They Fall e con il mantra di Tarantino nelle orecchie: «Give me a Leone».
Se gli artisti rubano, anche rubare è un’arte
Contestualizzazione fatta, ora la nota dolente. Se volessimo concedere a Eros Puglielli e al suo Copperman il beneficio del dubbio, citeremmo Tarantino che cita Picasso: «i grandi artisti non copiano, rubano». Per riconoscere un grande artista allora, si deve prima definire un bravo ladro. Non scomodate i grandi ladri d’arte, equivalenti di Tarantino e compagni. Pensate invece ai ladri di case, mestiere non meno complesso. Il buon ladro è innanzitutto colui che sa riconoscere il valore degli oggetti che ruba. E in questo Copperman non ha problemi, conosce il forziere da cui sta attingendo e sa che è difficile trovarvi patacche.
Quando però, come in questi casi, il forziere è troppo pieno, il buon ladro è colui che non si fa prendere dall’ingordigia. Primo, ruba solo ciò che può trasportare e, soprattutto, maneggiare senza appesantirsi troppo: si limita a una citazione, non ricalca l’intera sceneggiatura di un film. Secondo, quando si trova di fronte oggetti troppo preziosi – un quadro, una reliquia, un cult del cinema – li ruba solo se li ha già piazzati presso un ricettatore, altrimenti svenderà un pezzo unico per pochi spiccioli. Terzo, anche quando ha già piazzato il suo bottino, non lo rivende mai in blocco: a ogni compratore la sua reliquia, a ogni autore il suo homage. Di nuovo, mescolare il tutto significa svendere per pochi spiccioli.
«Bisogna distinguere fra riferimenti consci e inconsci».
(Sydney Sibilia)
Ecco, Copperman è un film che disattende molte di queste linee guida, riproponendo la sua refurtiva come un miscuglio confuso di cinema alto e cinema basso, di cinema di genere e cinema d’autore, che alle volte sono la stessa cosa, ma non qui.
E finendo solo per svalutare il materiale di partenza sporcandolo con un mercato, quello italiano, i cui limiti non sono affatto quelli produttivi visto che, in partenza, il film di genere è a low budget, o dovrebbe esserlo. Una volta presa visione di questa refurtiva e fatta requisire dalle autorità competenti, non resta che dissezionarla come si vede fare al telegiornale: con le forze dell’ordine che imbandiscono un tavolo a mo’ di lista della spesa, catalogando tutto quanto è stato rubato e restituendolo ai legittimi proprietari.
Tutte le citazioni di Copperman
Sullo sfondo di una conca, pianeggiante, circondata dalle montagne e attraversata da un treno alla Santa Fe Railway – ricorda tanto Castelluccio di Norcia, forse è proprio Castelluccio di Norcia, vale a dire il più midwestiano dei paesaggi nostrani – si volgono le vicende di Anselmo. Un giovane uomo poi eterno bambino che dopo aver preso due botte in testa si è trasformato nel ricalco di Forrest Gump.
Alla berlina di tutti meno di una piccola Jenny che, come la Robin Writght di Robert Zemeckis, vive col padre orco in una catapecchia in mezzo ai campi e con la madre single che gli rammenta ogni giorno quanto lui sia speciale, ingozzandolo a massime sulla vita come una scatola di cioccolatini. Peccato che a sostenere – o non sostenere – l’impresa dell’omaggio a Tom Hanks ci sia un Luca Argentero prestato dalla Fiction Rai.
Come da copione, il bambino diventa adulto e si trasforma in un supereroe, un vigilante mascherato coperto da una corazza di latta e rame che, stavolta, sembra ispirata alle livree post-nucleari delle armature atomiche di Fallout, il noto videogioco di Bethesda. Così conciato combatte il crimine e soprattutto il grande villain di questo film, il papà orco e (quasi) uxoricida della Jenny di questa storia.
Come nella pellicola del ’94, Jenny e Forrest si allontanano quando il padre di lei viene arrestato. Per poi fare ritorno in tutt’altre vesti, quelle del Tony Montana di Brian De Palma, tenendo banco con un monologo da taverna che ci venga un colpo se non è proprio quello di Scarface: «ecco l’uomo cattivo».
Certo, in un’intervista di qualche tempo fa, un gigante delle produzioni di genere come Sydney Sibilia faceva notare che: «bisogna distinguere fra riferimenti consci e inconsci».
Tony Montana: «Fate largo all’uomo cattivo».
Ovviamente assieme all’orco fa ritorno anche Jenny che, però, non sembra invecchiata di un giorno, mentre Anselmo è diventato un uomo. Un twist destabilizzante che avrebbe potuto regalare risvolti interessanti, se non venisse mantenuto per la durata di mezzo secondo, quando si scopre semplicemente che lei è la Jenny 2.0, copia della madre.
A condire il tutto una fotografia goliardica, ipersaturata e multicolore, che nel migliore dei casi, stavolta, punta a Il favoloso mondo di Amélie, e che nel peggiore si trasforma in una serie di pataccate al neon che dovrebbero fare il verso alla moderna scuola di pensiero dei Dop, ovvero “Smarmella di viola e verde”.
Quindi cinecomic, ma anche gangster movie, western e post-apocalisse, Bethesda, ma Jeunet, Zemeckis e, quindi, De Palma. Abbiamo dimenticato qualcuno? Probabilmente sì.