Nuovi Sguardi – Intervista ad Andrea Gatopoulos, produttore e regista indipendente

Silvia Ballini

Febbraio 15, 2022

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Andrea Gatopoulos è un produttore, regista e distributore cinematografico nato a Pescara nel 1994, poi trasferitosi a Roma per gli studi; fondatore della casa editrice e società di produzione Il Varco, ha prodotto sedici cortometraggi, tre lungometraggi e l’edizione di cinque libri. Direttore artistico del Festival Internazionale del Cortometraggio Il Varco, ha creato la rassegna d’essai Short Days a Roma, la proiezione cinematografica abruzzese Nuovo Cinema Abruzzese a Pescara e la
distribuzione cinematografica Gargantua Film.

Le sue produzioni sono state presentate in più di centoventi festival in tutto il mondo, da Venezia a Rotterdam. Dopo Materia Celeste nel 2019, nel 2020 e nel 2021 lavora al fianco di Werner Herzog per il suo Film Accelerator a Lanzarote, dove nasce la corrispondenza filmata Letters to Herzog. Nel 2021 presenta a Camerimage Polepole, in cui imprime in forma documentaristica le immagini di una lontana e macchiata Zanzibar.

ArteSettima è lieta di intervistare Andrea Gatopoulos a proposito del suo ultimo film.

 Gatopoulos
Dal film “Polepole”

Partendo dal tuo ultimo lavoro, cos’è per te Polepole?

Andrea Gatopoulos

Confesso che all’inizio volevo soltanto farmi una vacanza a Zanzibar. Arrivato sul posto però ho sentito subito una forte differenza sociale; un bianco tende a essere visto come un’opportunità economica, è trattato con una riverenza molto opportunistica. Facevo molta fatica a trovare rapporti che non fossero regolati da un interesse di qualche tipo. Mi sono accorto che i miei gesti avevano un’impronta molto al di là della loro intenzione immediata, che tutto quello che facevo da occidentale in quel posto aveva un profondo peso economico e quindi delle decise ricadute culturali.

Un giorno un bambino che veniva sempre a casa da noi, pensando che fossi uscito assieme a tutti gli altri, è sgattaiolato dentro e mi ha rubato i soldi dal portafoglio. Io stavo uscendo dalla doccia e l’ho beccato in flagrante. È stato un momento strano, perché ho lasciato che andasse via senza fermarlo, ho pensato che in fondo a me non cambiava nulla… Che cosa potevano essere cinquanta euro in meno? Poi mi sono accorto che per partorire un pensiero del genere bisogna avere un certo senso di superiorità, che era un modo per farmi bello agli occhi di me stesso, per guardarlo dall’alto verso il basso, che era un pensiero di disuguaglianza e di supremazia, che non ero stato in grado di vedere le cose come stavano.

In qualche modo da quell’episodio mi sono reso conto di essere velenoso per quel posto. La presenza del turismo in questi luoghi finisce per sovrascrivere non solo la cultura nativa, ma anche la geografia, la toponomastica dei villaggi. Si pensa di portare il progresso, ma si crea soltanto una fortissima disuguaglianza sociale che prima non c’era. All’improvviso, in un villaggio che sembrava una famiglia, ci si divide tra chi ne ha approfittato e chi no: ed ecco che ci sono i ricchi da una parte e i poveri dall’altra e sono uno contro l’altro… Il bambino qualche giorno dopo si è fatto rivedere, pedalava sulla bici nuova, si era comprato persino l’orologio e mi sbeffeggiava con aria di sfida. Lì ho capito che ero un cretino, un vero cretino.

Avevo cominciato a girare con l’idea di fare un film d’osservazione piuttosto naïf e romantico su una cultura lontana, incontaminata, seguendo le persone che mi stavano attorno fin dall’inizio: il custode della casa, l’interprete… Mi sentivo un po’ Colombo in una terra lontana, in una El Dorado filmica. Poi però mi sono accorto che stavo riprendendo semplicemente una visione ideale di quel posto, qualcosa che non c’era già più, e che il mio stesso sguardo era proprio il sintomo di ciò che stava accadendo a quel posto. Stavo riprendendo la pubblicità della mia fantasia. Allora ho pensato che documentare il mio stesso processo, la mia presa di coscienza sarebbe stata la cosa più onesta che potessi fare.

A quel punto è stato più un fatto di cercare la forma giusta, di far reggere il film. Alla fine ho inscritto il documentario in una cornice di fiction – la vicenda amorosa – che aveva un’impronta molto autobiografica. 

Gatopoulos
Il Mwaka-Kogwa, la festa dell’Isola, a cui partecipano quasi 300.000 persone

Parlaci del processo di scrittura.

Andrea Gatopoulos

Ho voluto mettere in parallelo l’idealizzazione che si prova in amore con l’idealizzazione di un luogo. Sebbene al livello mentale abbiano due obiettivi diversi, si assomigliano molto a livello cognitivo.

Credo che provare a far coincidere una persona con l’idea che uno ne ha sia pressoché identico a tentare di far coincidere un posto con l’immagine che abbiamo in testa: sono due processi che danno sempre principio a una violenza omologante. Il turista europeo, frustrato dalla propria vita, crede di arrivare in Africa come se fosse un Eden perduto a sua disposizione, su cui ha un diritto speciale, come un Conquistadores. È successo anche a me, era una fantasia romantica che mi faceva sentire speciale, immune alle logiche occidentali e invece c’ero dentro fino al collo. Rendermene conto è stato umiliante.

Le immagini dei turisti nel film sono state girate tutte l’ultimo giorno, dopo che li avevo evitati per un mese, escludendoli da tutte le inquadrature, per far finta che non ci fossero. Volevo portarmi a casa delle immagini che facessero pensare che in quei luoghi c’ero stato solo io. Il fatto che ci fossero altri bianchi mi dava fastidio, mi rovinava la festa. Quanto è folle tutto questo?

Fortunatamente me ne sono reso conto in tempo. Quando catturi certi pensieri nella tua testa ti sorprendi di cosa stavi cercando di censurare. È impressionante quello che ci passa per la testa, spesso è roba da matti. 

Passando di più al piano pratico: come hai girato il film, chi sono stati i tuoi collaboratori?

Andrea Gatopoulos

Ho girato il film tutto da solo, con una Sony e un monopiede. Ma ci sono state delle persone che mi hanno aiutato molto: Marco Crispano, il mio socio, mi ha ospitato sull’isola e ha prodotto il film. Andrea Trono mi ha dato una mano a finanziarlo. Antonio La Camera ha seguito tutta la scrittura e il montaggio e mi ha aiutato a fare chiarezza. Tommaso Barbaro ha fatto invece un lavoro sul suono per il quale gli sono molto grato.

Hai realizzato un interessante super-cut, quando si succedono in maniera concitata diversi frame del film.

Andrea Gatopoulos

Non so se si può chiamare super-cut, per me era una sorta di montaggio isterico: volevo mostrare una cultura che brucia e ho sovrapposto alle fiamme della candela i paesaggi zanzibarini, inframezzandoli coi cingoli di un bulldozer, in una specie di tritacarne. È un sogno fatto da Ilyas, uno dei protagonisti del film. Quando torniamo alla realtà, l’immagine di un volo di corvi stacca su dei kitesurfer all’orizzonte. Mi sembrava la metafora giusta per raccontare lo stacco tra le due parti del film.

Gatopoulos
Il sogno di Ilyas

Invece per la scelta della musica, che spesso passa in secondo piano?

Andrea Gatopoulos

La musica è stata composta da Francesco Sottile, che ha avuto modo di costruire un commento musicale piuttosto lungo. Sono più di nove minuti di musica per quartetto d’archi e soprano registrati dal vivo, una cosa piuttosto insolita per un cortometraggio.

Francesco ha voluto creare una sorta di parallelismo con la storia d’amore che comincia e finisce con un invito al viaggio di una voce femminile. Abbiamo cercato di lavorare su una musica che potesse rappresentare la fascinazione magica e poi la dissonanza di una disillusione, volevamo fare lo stesso percorso del film.

Nei tuoi corti hai lavorato al fianco di Werner Herzog, è una figura che ti influenza?

Andrea Gatopoulos

Sono stato influenzato molto da Werner, ma più dal suo carattere che dai suoi film. Lui fa un cinema di storie e personaggi che si fonda sulla straordinarietà e sulla magnitudine di ciò che accade, in cui spesso gli uomini giungono davvero al limite delle possibilità umane, in cui succedono delle cose obiettivamente pazzesche. Nel suo cinema anche gli eventi naturali hanno sempre delle proporzioni assurde. A livello estetico tende a preferire un approccio più spontaneo e pratico, mentre io dedico tanta attenzione all’immagine del film, alla fotografia e al suono, mi interessa molto la “parete” del film, il “come”.

Io faccio un tipo di cinema molto diverso, molto più “piccolo”: mi interessano le cognizioni umane, i personaggi che confessano i loro errori, un uomo che si rende conto di qualcosa di umiliante e inaccettabile all’interno di cornici tutt’altro che speciali e che alla fine arriva a capire, ad accettare o a perdonarsi. 

In ogni caso Werner è un uomo speciale: stare al suo fianco anche per poco tempo significa essere contagiati dalla sua forza d’animo. È un trattore, è inarrestabile. Vedere un uomo così ti dà il coraggio di essere più forte. Mi ha dato tantissimo.

Ci sono, quindi, novità in uscita?

Andrea Gatopoulos

Ho finito un nuovo corto, Tell me we’re not having this conversation. È la storia di due gamers che stanno giocando insieme durante la notte di Capodanno. Mentre in Polepole ho parlato quasi in prima persona, qui ho cercato di assottigliare molto la mia presenza come autore, di lasciare più spazio ai personaggi, senza rinunciare al mio piglio un po’ politico.

Credo che in Italia manchi molto lo spazio a questo tipo di cinema, a voci che possano sviluppare un’argomentazione fuori dalla spettacolarizzazione e dal porno televisivo. Spesso il dibattito nei media assume forme imbarazzanti, c’è gente che urla da tutte le parti, è ridicolo. Alla fine finisci per pensare che ognuno abbia soltanto l’idea che gli conviene. Mancano delle figure capaci di mettere dei punti interrogativi sulle cose, sui problemi del nostro mondo. Ho la sensazione che vengano fortemente represse.

I personaggi dei miei film non fanno altro che porsi delle domande per giungere ad altre domande. Mi interessa molto questa specie di matrice di scrittura: inizi con un punto interrogativo e finisci che ne hai dieci. Cominci a mettere in discussione tutto e alla fine finisci per agire più responsabilmente. A un certo punto ti sintonizzi, ti arrivano tutti i tuoi pensieri e capisci che diavolo ti passava per la testa… Spesso significa capire che ti racconti delle sciocchezze abissali pur di giustificare le tue scelte, la tua vita.

In ultimo, non per importanza, come nasce la tua casa di produzione Il Varco?

Andrea Gatopoulos

Siamo nati come quattro amici al bar, nel 2014. Era un gruppo di universitari nato per divertirci con diverse cose, dalla poesia alla letteratura. Abbiamo iniziato a girare un corto dopo l’altro e a un certo punto è nata la casa di produzione e abbiamo fondato la società. Oltre al cinema e all’editoria ci occupiamo anche di premi d’arte e di festival.  Come produttori cerchiamo autori che abbiano un linguaggio proprio, un’urgenza innanzitutto spirituale. Ci innamoriamo di certe persone senza pensare troppo al mercato, che è una cosa piuttosto ingenua, ma ha anche la sua unicità.

Stiamo per uscire con diversi nuovi titoli: c’è un corto in stop-motion, una commedia grottesca sul riscaldamento globale e altre cose che non si possono dire.

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