Il fiore delle Mille e una Notte (1974), terzo capitolo della “Trilogia della Vita” di cui fanno parte Il Decameron e I racconti di Canterbury, è lo squarcio che separa il Sacro e il Profano, è un mezzo attraverso cui l’essere umano può catapultarsi nel mondo magico, mistico, profumato d’incenso dove tutto è lecito e plausibile, in cui si pensa di non capire niente (la conoscenza sembrerebbe un peso più che un pregio), ma solo se lo si guarda con gli occhi moderni: bisogna, invece, lasciarsi cullare dal sentimento ancestrale che questa pellicola di Pasolini solletica nel petto.
Tagi: «Eh, i sogni a volte insegnano male, Dùnya, perché la verità intera non è mai in un solo sogno, la verità intera è in molti sogni».
Sembrerebbe un film sciatto, quasi poco pensato. Il fiore delle Mille e una Notte è, invece, particolarmente fine nella scelta dei costumi, degli attori e delle voci.
La bellezza sta nelle imperfezioni dei volti della gente raccattata dalla strada — c’è ancora chi guarda nell’obiettivo, rompendo involontariamente la quarta parete —, nella semplicità con cui il mondo viene messo in luce. I personaggi sono come bambini che giocano a impersonarsi, che prima si disperano e poi si dimenticano del loro dolore, e giocano a schizzarsi nelle piscinette e a mostrarsi i genitali, senza malizia. Giocano a farsi gli indovinelli quando è in ballo la vita e giocano a parlare con Dio, e sognano tutti, a loro modo, di essere liberi.
E i bambini (quelli veri) sbeffeggiano e corrono ne Il fiore delle Mille e una Notte, corrono come spiriti di verità (maligni o benigni, non importa) — impronte di teatro, coro sub partes nelle vicende che scorrono loro davanti.
Il Diavolo (Franco Citti, immancabile), intanto, ha i capelli rossi e gioca a fare il boia senza cattiveria, in un modo un po’ naïf che fa quasi tenerezza quando lo si vede volare nel cielo, abbracciato alla sua vittima mancata, nel disegno della storia talmente profonda che sembra sbadata, quasi una parodia grottesca.
C’è, infatti, chi canta di tanto in tanto, o chi fischia addirittura, e il suono che accompagna le immagini fa sentire odore di sabbia e di caldo; le voci di chi parla, allo stesso modo, non sono estranee al contesto, con spiccato accento salentino che ricalca (secondo Pasolini) le stesse note dell’arabo — e basti pensare ai lamenti della pizzica per rendersi conto che Pasolini non aveva torto. Dacia Maraini, grande amica di Pasolini e co-sceneggiatrice del film, più tardi disse:
«All’epoca de Il fiore delle Mille e una Notte io e Pier Paolo ci frequentavamo da almeno dieci anni […]. Pier Paolo rappresentava l’incontro con un mondo arcaico, ingenuo e incontaminato, completamente diverso dall’Africa di oggi, devastata da guerre e malattie. Era una società pacifica e misteriosa, un continente straordinario e remoto, ancora intimamente legato alla natura, “lontano millenni”».
(Dacia Maraini)
E ancora:
«Era preparatissimo in tutti i settori: pittura, letteratura, musica. Da una parte attingeva, senza filtri, a una realtà quasi documentaria. […] Dall’altra si serviva di filtri colti, con citazioni da molte fonti importanti».
(Dacia Maraini)
Non è stato, però, facile per questa pellicola riuscire a raggiungere il successo sperato.
Il fiore delle Mille e una Notte è stato condannato dal buonsenso comune (portato in tribunale, caso poi chiuso con il riconoscimento della grandezza del genio), è stato odiato e dimenticato (un flop, pochi incassi, pochi riconoscimenti) e successivamente riscoperto, aprendo la strada a Salò con la violenza dei corpi mostrati in schermo e col sangue (poco, ma presente) versato — chiudersi gli occhi per la scena di un piccione ammazzato col coltello, che non fa rabbia, ma solo pena.
«Poi ho fatto questo gruppo che io chiamo “trilogia della vita”, cioè i film sulla fisicità umana e sul sesso. Questi film sono abbastanza facili, e io li ho fatti per opporre al presente consumistico un passato recentissimo dove il corpo umano e i rapporti umani erano ancora reali, benché arcaici, benché preistorici, benché rozzi, però tuttavia erano reali, e opponevano questa realtà all’irrealtà della civiltà consumistica. Ma anche questi film sono stati in un certo senso superati, resi vecchi dalla tolleranza della civiltà dei consumi.»
(Pier Paolo Pasolini)
La violenza del sogno, dell’amore, del sesso (dell’amore), delle lacrime come gemme, della purezza, dell’infanzia e di ogni istante, spogliata dalla morale cattolica.
Nei sogni l’unica cosa certa è la realtà che continua ad andare avanti, controllata da una coscienza comune che è Uno e Cento insieme, e di cui tutti fruiscono allo stesso modo (e, cioè, vivendo, vivendo e basta).
E allora non è più importante sapere se la storia appartiene a una schiava comprata per mille soldi e al suo padrone (ragazzino, vero schiavo della schiava stessa che è, difatti, padrona di uomini), o se si parla di un uomo innamorato di una pazza e della bambina che scioglie gli enigmi (e piange mentre lo fa, piange perché sa che sta perdendo il suo Amore, e sa che l’unica soluzione sarà morire), o se invece è la storia di due santoni perduti nei meandri dell’Asia Orientale; non importa sapere più niente quando si realizza che non c’è individualità nel racconto dei racconti.