PPPP – Perché Pier Paolo Pasolini
Uno spettro si aggira per l’Occidente: lo spettro di Pasolini.
Ai tempi, tutte le potenze del vecchio e decadente Occidente si erano coalizzate in una sacra caccia alle streghe contro il Poeta: il papa e il governo, la DC e il PCI, la piccola borghesia e la nuova figlia sessantottina, Eni e Montedison, le forze dell’ordine e la magistratura, i giornali e l’Impero colonialista americano.
Quell’Italietta piccolo borghese, fascista, democristiana e provinciale – «il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d’Europa» professa ne La Ricotta -, l’ha perseguitato per vent’anni, tra censure, attacchi mediatici e trentatré processi subiti, «sempre con lo stesso oggetto e finalità», disse Stefano Rodotà, «mettere in dubbio la legittimità dell’esistenza di una personalità come Pasolini nella società e nella cultura italiana».
«In Italia, quando si parla di Pasolini, io sento che è un fatto morboso, non è un fatto d’amore».
(Sergio Citti)
Tante, diverse e prospettiche sono le voci che prendono parte al comizio del Poeta.
Come quella di Renzo Paris, amico e allievo: «È incredibile come un uomo dolce e garbato, quale Pier Paolo era nei modi, sia riuscito a toccare i nervi scoperti di quell’Italia. Intanto era comunista, e allora i comunisti erano molto odiati non solo dai fascisti, ma anche dalla cosiddetta maggioranza silenziosa, e l’odio silenzioso è il peggiore di tutti. Era un intellettuale, status che in Italia ha sempre destato più sospetto che ammirazione. Poi era omosessuale, e anche questo ha contato molto. Forse più manifestarlo pubblicamente che esserlo in sé».
«Pensai a un personaggio uscito dall’Inferno di Dante: era magrissimo, il viso ossuto, gli occhi immensi, la bocca vuota quasi da morto; indossava un incongruo completo gessato da quattro soldi. Il tormento era già espresso lì, nella sua presenza.
Pasolini mi colpiva come un grande personaggio da tragedia. Non aveva paura della morte, viveva della morte».
(Livio Garzanti)
Dopo uno scambio conflittuale di botta e risposta sui giornali, Umberto Eco parlò del Poeta come un «lottatore per vocazione, per rabbia e per baldanza, Pasolini l’attacco lo cercava, lo stimolava quando la reattività pubblica si assopiva, si sentiva vivo solo quando poteva dire: “Perché mi sparate addosso?”.
Se questo è vero, egli era l’ultima personificazione di un superomismo romantico, il poeta che vive di persona il proprio ideale estetico; quindi se modello c’era, era Rimbaud e non D’Annunzio: anche nel successo egli aveva scelto di testimoniare l’emarginazione. La conoscenza primitiva della emarginazione sua e altrui lo aveva segnato per la vita, anche in questo è stato contraddittoriamente coerente, astuto come il serpente e candido come la colomba. Anche ora, dopo la sua morte».
Fabrizio De André, che nel 1980 dedica alla morte del Poeta il brano Una storia sbagliata, afferma come «Pasolini era un vero intellettuale del dissenso, libero da qualsiasi schema, da qualsiasi imprigionamento politico e direi anche economico.
Non si accontentava della cultura ufficiale, ma aveva la curiosità di scavare in altre realtà. Credo fu il primo a dire apertamente che non esiste una sola cultura, ma che ne esistono tante, e che nessuna è più in alto di un’altra. E soprattutto che abbia sperimentato di persona e abbia cercato di interpretare di persona queste nuove e diverse culture».
Dalla borgata romana ai paesini friulani, dai miti grechi arcaici alla Bibbia cristiana, dall’utopia alla distopia, dalla poesia alla politica, fino al cinema.
Il canto libero di De André, orizzontale e rizomatico, si interconnette armonicamente con il grido pasoliniano, con la necessaria presa di coscienza che l’arte è politica, che l’estetica è etica.
Infatti, prosegue Marco Tullio Giordana – autore di Pasolini, un delitto italiano (1995) -, sostenendo come «Pasolini usa il cinema come estensione della poesia», inscindibile e compagna del medesimo percorso poetico, artistico ed esistenziale. «Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Uccellacci e uccellini ci hanno mostrato un mondo tagliato fuori dai fasti del Boom, senza di lui ne sapremmo poco o niente. Altri film come Teorema, Porcile o Edipo Re spiegano bene l’avversione ai valori borghesi tipica degli anni ’60 e ’70, e Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte, anziché fuga dalla contemporaneità, cercando proprio le radici di una joie de vivre e un’energia che lo sviluppo finisce per soffocare. Negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane descrive la società distopica che sta per piombarci addosso, il mondo di incontrollati oppressori che possono disporre degli oppressi come vogliono».
«Una volta mi disse: “la verità è che tutto è caos”, ma in contrasto con questa frase che mi colpì per la sincerità beffarda che conteneva, c’era l’accettazione rassegnata e sconfitta. Aveva una sorta di dolcezza ferita che suggeriva quel fascino misterioso e segreto che ho sempre immaginato avesse Kafka (…). La sua qualità che ho sempre apprezzato era la sua disponibilità ad essere un artista che assorbe, assimila, trasforma ma, nello stesso tempo, una parte del suo cervello sembrava un laboratorio preciso, attentissimo dove quello che l’artista aveva creato veniva vagliato, giudicato, in generale con un consenso: essere insieme creatore e critico acutissimo, implacabile di quel che aveva inventato».
(Federico Fellini)
Mario Martone – regista che, sempre nel 1995, riuscì a mettere in scena insieme a Ninetto Davoli uno spettacolo teatrale: L’Histoire du Soldat, una sceneggiatura di PPP destinata al cinema, ma mai realizzata – parlò del Poeta in modo atavico, originario e primigenio, poiché «a differenza dei tanti grandi maestri del cinema italiano, che sono tutti nostri padri, quella di Pasolini è una disposizione fraterna. Con lui possiamo sempre ragionare, litigare e continuare ad emozionarci e a sorprenderci. La voce di Pasolini è viva oggi e sempre perché lui non ha mai chiuso i suoi lavori in una cornice, ha sempre tenuto il cantiere aperto: poesia, romanzo, cinema, teatro, politica, rilettura della storia, interventi a gamba tesa nei temi più scottanti della società civile, ma soprattutto vita».
«Tremendamente intelligente e dotato. Magari un po’ matto, un po’ confuso, ma di un livello superiore. Parlo del Pasolini poeta, cristiano andato a male e ideologo marxista. Non ha niente di confuso quando è su un set cinematografico. Autorità vera, e grande libertà nell’uso della tecnica».
(Orson Welles)
Tuttavia, come sostiene l’amica di una vita e attrice ne La ricotta (1963) – insieme a Orson Welles – e Teorema (1968) Laura Betti, PPP «non è mai stato un regista, ma è stato qualcosa di più. Quel di più andava conosciuto». Eppure, quel qualcosa di più non venne ascoltato, o meglio, venne silenziato, zittito e negato.
«All’obiezione: “Sei morto come uno dei tuoi personaggi, non sei contento?”, egli risponderebbe: “Sono morto, siete contenti?”. E a dirgli: “Hai cercato di mostrarci che il mondo della borgata selvaggia del dopoguerra era più puro e mite di quello della borgata consumistica”. Egli obietterebbe: “Parlavo della violenza di oggi e sono morto oggi, mi ha ucciso la vostra violenza che mi ha spinto a una ricerca impossibile”».
(Umberto Eco)
Fortunatamente, in molti e molte l’hanno conosciuto, come la scrittrice Dacia Maraini, che in questi giorni dice di vederlo in sogno, sostiene come «Pier Paolo nella scrittura appariva aggressivo, violento, di persona era invece mite, dolce, armonioso, un uomo timido e introverso. Ha pagato tutte le sue contraddizioni. La sua non era una postura o una retorica presa per interesse personale. Il suo è un corpo martirizzato, è stato attaccato, violentato, brutalizzato. Un corpo di martire per gli indifferenti. Nel Vangelo lui stesso si è identificato in una figura cristologica, mettendo sua madre a interpretare la Madonna».
Oppure il grande amico Alberto Moravia, con il quale ha realizzato Comizi d’amore (1964) e il viaggio in India insieme a Elsa Morante, rammaricato e disperato dalla scomparsa del compagno, sostenne come «abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe essere sacro».
«Lasciarti dopocena, invece, era uno strazio. Perché sapevamo dove andavi, ogni volta. E, ogni volta, era come vederti correre a un appuntamento con la morte. Ogni volta io avrei voluto agguantarti per il giubbotto, trattenerti, implorarti, ripeterti ciò che ti avevo detto a New York: «Ti farai tagliare la gola, Pier Paolo!». Avrei voluto gridarti che non ne avevi il diritto perché la tua vita non apparteneva a te e basta, alla tua sete di salvezza e basta. Apparteneva a tutti noi. E noi ne avevamo bisogno. Non esisteva nessun altro in Italia capace di svelare la verità come la svelavi tu, capace di farci pensare come ci facevi pensare tu, di educarci alla coscienza civile come ci educavi tu».
(Oriana Fallaci)
Pier Paolo Pasolini è morto, l’hanno ucciso. Noi lo sappiamo, ma non abbiamo le prove.
E cosa rimane?
Secondo il regista Franco Maresco «a distanza di anni, oggi, in un’Italia com’è quella in cui ci troviamo, rimane solo rabbia. La rabbia di un fallimento: Pasolini ha fallito e hanno fallito tutti coloro che sulla sua scia hanno provato a tenere dritta la barra del timone. Si è tentato di portare avanti un’attività in maniera coerente, ma alla fine anche noi abbiamo perso. (…) E attraverso Pasolini si arrivava a Gramsci, ad Aldo Capitini, a Nicola Chiaromonte, a Carlo Levi. Un orizzonte di senso e di valori che non ha nulla a che spartire con il mondo culturale italiano contemporaneo, un mondo miserabile perché ipocrita. Il paradosso è che oggi siamo ancora democristiani, come prima e peggio di prima».
C’è uno spettro che si aggira per l’Occidente dunque, è lo spettro di Pasolini.
Tutte le potenze del vecchio e decadente Occidente sono rimaste le stesse, sono cambiate rimanendo medesime nella loro essenza, gattopardianamente. La solita e vecchia borghesia, i soliti e vecchi giornali, così come la solita e vecchia politica nazionale e internazionale è sempre a caccia della strega, ma questa volta per glorificarla, retoricamente e ipocritamente, mercificandola e consumandola.
Pasolini è morto, il pensiero di Pasolini è morto, e la società dei consumi, della televisione e dello spettacolo, omologante e globalizzante, quella possibilità distopica e alienante che il Poeta aveva profetizzato denunciandola, invece, è profondamente viva. Eppure, questa stessa società che ha ammazzato il Poeta due volte, corporalmente e mediaticamente, ora lo rende martire, eroe e merce culturale. Poiché si sa, afferma l’attore Ascanio Celestini, «conviene a tutti no, la morte del Poeta, finché campava diceva quello che voleva lui, ora che è morto gli facciamo dire quello che vogliamo noi».
«Pasolini vedeva qualcosa che noi non vedevamo. Noi parliamo di Pier Paolo a cento anni dalla sua nascita in modo violento, o per proteggerlo. Evitiamo di contestualizzarlo, di incontrare la sua complessità. Il luogo del delitto di Pier Paolo Pasolini non è l’Idroscalo di Ostia. È il Novecento. I colpevoli siamo noi che abbiamo vissuto questo secolo pieno di tragedie e di utopie. E la pena da scontare è spalancare le porte di questo secolo, mostrarlo senza omissioni, senza reticenze, senza vergogne, senza cancellature, rispettando – se possibile – la cronologia…».
(Ascanio Celestini)
Perché Pier Paolo Pasolini?
Perché, incompreso come poeta e odiato come uomo, è stato ammazzato da un certo mondo piccolo borghese, fascista e democristiano, ma ora, deve tornare a vivere. E non nei palazzi o nella retorica istituzionale, ma nei discorsi delle pubbliche piazze, nelle proiezioni di quartiere, nelle partite di calcetto al parco, nelle fermate degli autobus, nelle sigarette nevrotiche, nella coltivazione di piante, nelle passeggiate dei paesini montanari e marittimi, nelle cene con la tv spenta e la voce accesa.
Nel tentativo di una vita vissuta e non consumata.
Nell’unica realtà inconsumabile: la poesia.