Accattone e Mamma Roma – La voce perduta della metropoli

Carmine Esposito

Marzo 9, 2022

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Accattone e Mamma Roma – La voce perduta della metropoli

Dal vagito di un neonato, fino allo spirare di un moribondo, il linguaggio pervade ogni manifestazione umana. Ogni attimo di vita è contraddistinto da un discorso continuo e costante, voluto o involontario, muto o parlato. Come un demone che passa di bocca in bocca, di corpo in corpo, tendendo un filo unico che unisce l’umanità, si districa il fil rouge della parola.

Per Pasolini, la lingua non è mai stata un elemento secondario, un ciondolo da appendere al collo di volti puliti e celebri. La sua è stata una corsa a perdifiato, disperata, alla ricerca di una voce autentica, primitiva, metapoetica. Una voce simile a un tuono, a un puro impeto di vitalità.

Bachtin – Linguaggio e conflittualità

Problema eterno della poetica cinematografica e letteraria, per Pasolini, è stato cogliere l’autenticità delle borgate: tirar fuori e imprimere su pellicola il vero spirito di quei quartieri senza memoria e senza storia, battuti dal sole e sommersi dal fango.

Ha provato a farlo sia tramite attori non professionisti, scelti proprio tra quei personaggi che lo accompagnavano nelle sue passeggiate esorcizzanti tra strade sporche e baracche polverose, sia cercando risposte a una domanda semplice, ma fondamentale: qual è la lingua degli ultimi? La voce del popolo, la lingua delle periferie, o che dir si voglia, il vello d’oro per cui numerosi scrittori, registi, filosofi hanno combattuto con altrettante chimere.

Questo nella visione pasoliniana non è puro esercizio di stile o espediente retorico, ma un significato vincolato alla forma. Secondo il poeta e cineasta, nel gergo, nel parlato, sporco e sgrammaticato, è la realtà stessa a parlare, senza filtri e senza fronzoli.

Quella stessa realtà, in forma documentaristica, rischierebbe di diventare pantomima, nella migliore delle ipotesi, o pretesto per dare libero sfogo alla visione parziale ed egoistica del regista, che usa la pellicola come discorso politico e ideologico.

Negli stessi anni, sull’altro lato del continente rispetto a Pasolini, un’altra mente solitaria si avventurava nella stessa selva oscura: quella di Michail Bachtin, filosofo e semiologo russo.

Pasolini e le borgate, storia di un amore

Secondo Bachtin infatti il linguaggio e la comunicazione, lungi dall’essere fenomeni prettamente individuali, sono espressioni sociali. Sono manifestazioni inquadrate da regole, convenzioni e vocabolari, figlie di una società a sua volta determinata dalle regole di contrapposizione delle classi.

Quindi, se da un lato ognuno fa proprio il registro linguistico tipico dell’ambiente in cui vive, dall’altro la lingua accademica e, ancor di più, le direttrici del discorso sono dettate da chi determina condizioni di vita e immaginario comune. 

In periodi di scarsa conflittualità, ecco che la lingua e la dialettica del Capitale invadono le classi meno abbienti, attraverso i canali più disparati. Non è raro, ad esempio, tra i meme e le frasi da youtuber ravvisare la spocchia del benessere a danno della povertà, o ritrovare etichettata come “satira” l’ostentazione di una ricchezza becera e vacua.

Espressioni che divertono tutti, indipendentemente dal background sociale, ma che, innegabilmente, possono innescare un cortocircuito percettivo in chi quelle condizioni di disagio le sconta tutti i giorni, sulla propria pelle, senza ridere più di tanto.

Voce
Accattone e la sua realtà

In una prospettiva simile, la scelta di Pasolini di imprimere su carta e su pellicola quelle facce e quella voce è rivoluzionaria. Diventa fondamentale per trovare le proprie radici dialettiche, linguistiche e umane, per poter rompere catene invisibili che tengono libere le mani, ma legano i cervelli.

Le parole di Accattone e Mamma Roma permettono, da un lato, di cogliere in profondità l’orizzonte dell’immaginario che domina nelle borgate; dall’altro, attraverso una lingua più libera possibile dalle convenzioni lessicali, ridotta a esplosione di pura energia, è più facile avvicinarsi a una umanità incontaminata. 

La voce delle borgate

Sia Accattone che Mamma Roma sono film pervasi da un senso di fatalità, di morte strisciante. Sin dall’incipit, in entrambe le pellicole, i protagonisti, perfettamente calati nel loro contesto sociale di appartenenza, scherzano e ridono facendo battute sulla morte, propria e degli altri.

Accattone, in piedi sul parapetto di un ponte, pronto a tuffarsi nel Tevere per scommessa coi suoi compari, urla a squarciagola: «Voglio morì co’ tutto l’oro addosso, come i faraoni!». Si è radunata una folla di curiosi, tutti pronti a guardare il salto, il gesto sconsiderato. Tuttavia non c’è animosità o preoccupazione, quanto piuttosto una divertita attesa, come se tutti guardassero un trapezista al circo.

A dispetto del normale, nessuna voce si leva per fargli cambiare idea, anzi, un ragazzo gli dice «m’è venuto il torcicollo, te vuoi buttà?», innescando la reazione inesorabile di Accattone: «damo soddisfazione ar popolo». Che sia morte o che sia miracolo, non c’è alternativa se non saltare, buttarsi.

Voce
Accattone come un trapezista al circo

Mamma Roma, invece, canta al matrimonio del suo pappone una litania benaugurante, piena di veleno e risentimento. Le risate e lo scherno che scatena, all’indirizzo della coppia di sposini, brutta e male assortita, provocano la risposta inacidita di sposo e sposa, che non perdono occasione per sbandierare quell’unione, come un vessillo vittorioso.

La donna, però, indurita dalla vita e dal dolore, non perde la sua verve e in rima baciata risponde alle allusioni con pochi versi liberatori.

Mamma Roma: «Fiore de merda / io me so liberata da na corda / adesso tocca a n’altra a ffa la serva. […] So libera, so. So libera!».

Questi sono solo due tra altri innumerevoli esempi di come la morte sia sempre nominata, paventata, ridicolizzata. Non a caso. Sia Accattone che Mamma Roma vivono in un contesto fuori dal mondo, fuori dal tempo.

Le borgate romane, che si addossano alla città piene di polvere e case diroccate, sembrano affacciarsi senza speranza verso la metropoli, sempre lì per abbracciarle nel suo seno, ma lasciandole irrimediabilmente ai margini.

La morte civile e l’oblio sono il pane quotidiano per papponi, prostitute, ladri, contrabbandieri, abbandonati in uno stato di vita comatosa. Dediti alla fame e alla povertà, vivono sempre in bilico tra un’esistenza faticosa e una morte liberatoria. La dama nera è il loro pane quotidiano, ci convivono giorno per giorno, come un vicino dispotico, e imparano a prendersene gioco per non abbandonarsi alla disperazione.

Niente posti in paradiso

Per quanto tollerabile possa essere, questo castello di illusioni crolla non appena i protagonisti provano a varcare la soglia, a intraprendere una vita rispettabile.

Accattone prova ad andare a lavorare, facendo il facchino per pochi spiccioli, piuttosto che condannare la sua nuova fiamma a prostituirsi. Ma come può il suo corpo gracile, temprato da generazioni di fame e malnutrizione, resistere sotto gli sforzi della fatica? Non può che soccombere alla fatica, con un serafico «ma che semo a Buchenwald qua». Il paragone è forte, forse eccessivo, ma rende perfettamente la misura di che vicolo cieco sia il lavoro per chi ha perso ormai ogni speranza di riscatto.

Se poco può il lavoro, nulla potrà il sogno piccolo borghese di Mamma Roma. Si sente libera, si illude di avere qualche speranza di felicità. Ma non c’è fruttarolo che tenga, la sua cattiva stella non la abbandonerà mai. La sua stella cometa la guiderà di nuovo per strada, sotto la luna e tra i fuochi a vendere l’amore per due lire; a regalare un pizzico di calore materno a chi non riesce a rimediare neanche due lenzuola accoglienti e un bacio della buonanotte.

Mamma Roma: «Tutti morti de fame. Certo che si c’avevano i mezzi erano tutte persone per bene. E allora, di chi è la colpa?».

Nessuna risposta, ma solo la certezza che se tutti ci ponessimo la stessa domanda, qualcosa potrebbe cambiare.

Mamma Roma in un raro momento di felicità

La voce della vita

Morte, fame, solitudine, abbandono. Questo il registro linguistico di Pasolini, questa la realtà di Accattone e Mamma Roma. Questa è la voce delle borgate che non si abbandona, però, alla disperazione o allo sconforto, ma combatte. Col sorriso sulle labbra e con il sangue agli occhi, aggredisce ogni spezzone di esistenza, provando a strappare ogni insignificante momento di gioia.

I personaggi si muovono tra il fango e la polvere come cani randagi; soli, in un mondo che ha scelto e deciso scientemente di abbandonarli. Perché affannarsi per partecipare a una festa come invitati sgradevoli, come parenti scomodi da nascondere in soffitta?

Allora meglio lasciar perdere i fronzoli e le buone maniere. Chissenefrega della bella presenza e della lingua pulita. L’unica arma da opporre alle brutture del mondo e allo sconforto del reale è la risata, un puro e incontrollabile spruzzo di vita, che fluisce via come un fiume incontenibile.

Ridere dei morti, ma ancor di più ridere dei vivi. Di quelli che si prendono troppo sul serio; dei ricchi che si credono padroni del mondo, ma hanno dimenticato la gioia; ma anche dei professoroni, che nascondono la loro mancanza di vissuto dietro cascate di belle parole.

Non resta che una sonora e grassa risata a tenere compagnia ai borgatari nelle notti buie passate alla luce dei lampioni, attorno alla brace di una sigaretta. Stretti l’uno all’altra, per non aver paura del buio e della notte, come spiriti in un tempo fuori dal tempo e in un luogo eterno.

Leggi anche: Accattone – L’esordio cinematografico di un intellettuale

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