La proliferazione esponenziale della tecnologia e dell’informatica che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento ha avuto impatti rivoluzionari per la società e, di conseguenza, per l’arte. I registi che hanno visto gli albori della rivoluzione informatica ne hanno percepito il clamore e il timore, tanto da scegliere di far parlare la propria arte di quel momento storico: l’introduzione della tecnologia nelle nostre vite avrebbe potuto sconvolgerci secondo loro e, di fatti, così è stato.
Parallelamente a questi progressi tecnologici nasce il genere Cyberpunk negli Stati Uniti, prima come movimento letterario iniziato da William Gibson negli anni ’70 con i suoi thriller ambientati in un futuro distopico (come ad, esempio, Neuromante); il movimento si espande fino a toccare il cinema, sia occidentale che orientale, rispettivamente con Blade Runner e Akira, che agli inizi degli anni ’80 fanno da spartiacque per un cinema rinnovato nella forma e nel contenuto.
Peculiare del cyberpunk è l’indagine sul rapporto tra l’uomo e la tecnologia. Infatti, il genere non è solo un sottogruppo della narrativa fantascientifica e neanche una mera messa in scena di narrazioni ambientate nelle “città del futuro”, bensì, ciò che emerge dal genere è la convivenza problematica che ci sarebbe stata dagli anni ’80 in poi con la tecnologia, nonostante, in quel tempo, si possa parlare solo di una fase embrionale dell’informatica che conosciamo oggi.
Questa situazione storico-culturale è paragonabile a quella tra fine Ottocento e inizio Novecento, quando il progresso scientifico portò all’invenzione di auto, treni, macchine industriali e altre tecnologie che, se da una parte infervoravano gli intellettuali come Auguste Comte, che definì addirittura la scienza positiva (il progresso) come soluzione a tutti i problemi umani, dall’altra molti artisti e intellettuali espressero il loro dissenso verso la cieca magnificazione del progresso, intravedendo già le future cause dell’alienazione dell’uomo, della sua dipendenza dalla tecnologia e dal suo ingannevole fascino. Questa dinamica, contestualizzata nella rivoluzione tecnologica e informatica di fine Novecento, suscita le stesse inquietudini da cause differenti da quelle precedenti, ma gli artisti non hanno smesso di manifestare in modo creativo ciò che c’è dietro il rapporto tra l’uomo e la macchina e, soprattutto, qual è la nostra etica di fronte a mezzi sempre più avanzati ma pericolosi.
Dal cyberpunk ai suoi proseliti, da occidente a oriente
L’origine dell’estetica e narrativa del cinema cyberpunk è attribuibile al Blade Runner (1982) di Ridley Scott, che, con la sua ambientazione futuristica, è caratterizzata da alti palazzi e neon che illuminano le cupe e strette strade di una megalopoli ampia e dispersiva, ispirata al modello urbanistico delle città orientali come Hong Kong o Seul degli anni ‘80. Oltre all’ambientazione, anche i nuclei tematici sono innovativi: la principale questione che tratta Blade Runner e, da lì in poi, i successori del genere è il rapporto conflittuale tra uomo e tecnologia in un mondo ormai pervaso in modo oppressivo e radicale dall’informatica e la sua evoluzione.
I motivi che si trovano alla base della nascita di un genere così unico hanno radici nell’inquietudine dell’uomo del tardo Novecento che, sempre più vicino agli anni Duemila, inizia a temere le conseguenze future della rivoluzione informatica, a causa della quale, come si vedrà anche con i film successivi a Blade Runner, l’uomo non riuscirà più a distinguere facilmente uomo da macchina, realtà organica da una simulazione o la macchina da un’arma di distruzione.
La maestosità delle città ritratte nelle opere cyberpunk si contrappongono al vuoto e al sentimento di smarrimento dei personaggi che la abitano, che si sentono solo parte di una massa, maturando un tipico nichilismo riscontrabile nei protagonisti di opere di tale genere e un conflitto esistenziale che sarà la vera antitesi da superare per l’ (anti)eroe di turno.
«La città [di Blade Runner] era più un inferno che un paradiso, il clima era impazzito».
(Ridley Scott, Intervista per Los Angeles Times, 1982)
Una volta gettate le basi per il genere e l’estetica, il mondo del cinema aveva un nuovo genere con cui sbizzarrirsi e autori visionari come Katsuhiro Otomo, creatore del fumetto “Akira”, già precedentemente ispiratosi all’estetica di Ridley Scott e a Fritz Lang per l’architettura delle sue città (con Metropolis), decide di trasporre sul grande schermo il suo manga: anche il Giappone ebbe il suo film-caposaldo del genere cyberpunk grazie al film Akira (1988).
Come si è potuto notare, l’influenza dell’occidente sulla produzione orientale è stata impattante, ma il flusso della contaminatio non era finito lì. A metà degli anni ‘90, Mamoru Oshii rilascia il suo capolavoro Ghost in the Shell, un film anime criptico e stratificato, ispirato da Akira e Blade Runner ma rivestito di ulteriore originalità sia nel comparto estetico-tecnico che tematico.
Se in Akira la tecnologia e il progresso si presentano al pari di un’arma di distruzione di massa, manifestando un’accezione palesemente negativa, memori del disastro della bomba atomica, con Ghost in the shell le definizioni e distinzioni di cosa sarebbe potuta diventare la tecnologia per l’uomo si confondono e assottigliano sempre di più.
Nell’opera di Oshii, dove l’intera realtà è gestita da una fitta rete informatica che prende il posto della linfa vitale in corpi cibernetici, come quello di Kusanagi, i personaggi cercano di capire e di esperire i vantaggi e gli svantaggi della convivenza organica con una tecnologia che era, ormai, parte del proprio corpo e oggetto di conflitto di interesse tra stati.
Arti e tessuti in titanio ricoprono una psiche senziente e pensante, che si interroga sul valore di una vita fatta di sentimenti artificiali e che desidera unirsi ad un ente dalle emozioni umane, per poi sentire il bisogno di raggiungere un connubio perfetto dell’evoluzione umana: un’entità precisa come una macchina e sensibile come un umano. Tutto ciò spaventa l’essere umano di fine Novecento che, mettendo queste dinamiche su pellicola, si rende conto dei probabili destini a cui l’umanità sarebbe andata incontro col proliferare dell’informatica e della tecnologia, facendo diventare il cyberpunk non la narrazione di un’utopia, bensì di un’inquietante e futura realtà.
«Il confine tra uomo e macchina è sempre più labile. Questa fusione crea un nuovo tipo di esistenza, che sfida la nostra comprensione tradizionale dell’umanità.»
(Mamoru Oshii, Intervista con The Japan Times, 1995)
L’eredità di Ghost in the Shell viene raccolta pochi anni dopo, quando, nel 1999, le sorelle Wachowski girano Matrix, film che segna definitivamente un’epoca, sia a livello cinematografico che culturale. Il centenario dilemma del rapporto mente-corpo come entità univoche o meno, disquisito da Cartesio, trova un’ennesimo medium per essere rappresentato. Matrix trova la sua ispirazione estetica e narrativa in Ghost in the Shell, nonostante la tematica affrontata sia diversa, per creare un immaginario unico che, in alcune sequenze, strizza l’occhio ai film di arti marziali e a Blade Runner, creando un mix di generi ben più stratificati di quel che appare.
Nel film delle sorelle Wachowski si tratta il tema del sospetto che la realtà sia una simulazione malleabile grazie alla padronanza dell’informatica che prende il posto della psiche. Dunque, il paradosso dei piani della realtà in Matrix fa pensare ad un individuo che, potenzialmente, potrebbe vivere in una simulazione fornita da una tecnologia così avanzata da farci distrarre continuamente dalla dura verità del mondo, come un velo di Maya schopenhaueriano squarciabile solo con il coraggio di scoprire una nuova realtà dolorosa senza menzogne.
Come si può notare, fornendosi di una stessa base narrativa o stilistica, oriente e occidente si sono influenzati e distinti allo stesso modo ognuno dall’altro nel genere cyberpunk. Ghost in the Shell e Matrix, per esempio, trattano temi diversi partendo dalla stessa domanda: “Che cosa può fare l’uomo con la tecnologia?”.
Nel primo citato, l’uomo capisce che con una fusione con la tecnologia si può dare origine ad una nuova specie umana, che di umano ha ben poco in realtà. Ed è proprio questo ciò che preoccupa. Invece, nel secondo, si vede un uomo che sfrutta la tecnologia per squarciare il velo di Maya. Ad oriente la paranoia dell’evoluzione umana, a occidente un fervore verso la tecnologia che fornisce una nuova e inquietante realtà.
In base a quello che quotidianamente vediamo oggi, possiamo capire come le preoccupazioni di film risalenti a trenta o a venti anni fa, sia da Oriente che da Occidente, che sembravano fantasticherie o assurdità, ora riemergono sotto una nuova domanda: “Come farà l’uomo a convivere con l’intelligenza artificiale e le nuove tecnologie?”. Questa questione nel futuro sarà sempre più urgente e saranno proprio questi film provenienti dal passato a fornirci le riflessioni (e forse le risposte) di cui avremo bisogno. Ciò che prima era solo immaginabile ora è una realtà che, proprio come in un film cyberpunk, a primo acchito può affascinare ma anche inesorabilmente incutere inquietudine e spaesamento.