Neorealismo in Italia; Nouvelle Vague in Francia; New Hollywood negli States; Nuovo cinema tedesco in Germania. Nella seconda metà del Novecento il cinema mondiale si trasforma. Cambia i suoi connotati. Ogni stato comincia a recidere il cordone ombelicale con il cinema delle origini. Il cinema pre-Seconda guerra mondiale. Ogni nazione con le proprie specifiche, ogni nazione partendo dal proprio contesto. La modernità cinematografica, in tutto il mondo, la si può interpretare come una rottura epistemologica. Quel cambio di paradigma nella rappresentazione cinematografica dettato da una mutazione del contesto politico-sociale. Questa modernità, che fin dagli anni ’50, in Francia, ha portato con sé il vento della politica dell’autore, in Iran arriva verso la fine degli anni ’60.
È la New Wave iraniana quella rottura. Da quel capostipite che è The Cow (1969) di Dariush Mehrjui, film che rompe con la tradizione di “Filmfarsi”, che oltretutto è anche divenuto esempio di “pure cinema” all’interno del programma politico islamista dell’Ayatollah Khomeini). Il cinema iraniano, il pubblico iraniano, e poi mondiale non saranno più lo stesso. Tra influenze occidentali, distanze, ispirazioni e nuovi modi di rappresentazione.
La rottura epistemologica del cinema iraniano
La New Wave iraniana si fonda sulle interazioni, ma anche sulle distanze tra le nuove modernità cinematografiche occidentali e la tradizione iraniana. Ma è soprattutto segnata dai rapporti conflittuali e di opposizione tra gli autori e l’autorità politica. Una storia cinematografica a fasi che vede in un determinato passaggio una rottura epistemologica, trovando la propria identità distanziandosi sia dalla tradizione cinematografica iraniana quanto dalle influenze occidentali (come per la rielaborazione dell’estetica neorealista): ovvero il passaggio dalla monarchia dell’ultimo scià, Mohammad Reza Pahlavi (1941-1979), all’insediamento della repubblica islamica attraverso la Rivoluzione iraniana del 1978-1979.
Il regno di Mohammad Reza si era fatto continuatore delle ambiziose politiche di modernizzazione avviate dal padre Reza Shah, volte a rendere l’Iran una potenza regionale e darle prestigio a livello internazionale. Quei processi di industrializzazione ed urbanizzazione erano accompagnati da un’imposizione forzata di costumi occidentali, alternando istanze di apertura a misure repressive draconiane, come l’esclusione delle donne velate dagli incarichi pubblici (un’eredità del decreto Kashf-e hijab del 1936 emesso dal padre, che vietava alle donne di indossare l’hijab in pubblico).
Negli anni che hanno preceduto la rivoluzione, i film e le sale cinematografiche erano state identificate come uno degli agenti di corruzione morale del Paese, all’interno del crescente movimento contro il regime dello scià. Il 19 agosto 1978, nel pieno della rivoluzione, il cinema Rex ad Abadan, una delle poche sale rimaste operative, fu messa a fuoco da terroristi islamisti durante la proiezione di The Deer (1974) di Masoud Kimai. Il cinema, con al suo interno centinaia di spettatori, fu teatro di uno degli attacchi terroristici più sanguinosi della storia.
La rottura epistemologica nel cinema della New Wave iraniana si manifesta con una differenza fondamentale nel rapporto conflittuale tra potere e popolo prima e dopo la rivoluzione che determina anche il rapporto tra cinema e potere. Prima della rivoluzione il contrasto era tra la volontà della monarchia di imporre i canoni della moderna cultura occidentale e la resistenza popolare nel tutelare la varietà culturale ed etnica persiana e nel non accettare l’appiattimento del proprio patrimonio artistico; invece dopo la Rivoluzione il contrasto si gioca tra l’imposizione della Repubblica Islamica di nuove forme di controllo e limitazioni alle libertà individuali (come l’obbligo per le donne di indossare il velo e l’abbassamento dell’età minima per il matrimonio a 9 anni) e una rinnovata resistenza dal basso.
Con la Repubblica Islamica dell’ayatollah Khomeini, il cinema viene sottoposto a misure censorie ancora più stringenti costrigendo molti cineasti della New Wave all’esilio (che contribuirono alla popolarizzazione del cinema iraniano all’estero) e quelli rimasti alla limitazione della propria libertà creativa, sia nella forma che nel contenuto, ritrovandosi spesso con film “mutilati”. Si stava attuando una riconfigurazione della produzione cinematografica attraverso un processo di “purificazione” in linea con le sensibilità della nuova classe religiosa al governo.
Questa frattura socio-politica è al centro non solo delle differenze tematiche e stilistiche tra la prima New Wave ed il cinema post-rivoluzione, ma anche determinante per il rapporto tra autori ed autorità, libertà creativa e censura.
«Ma io amo un cinema particolare, il cinema della scuola neorealista italiana»
(Abbas Kiarostami)
Sulle tracce del neorealismo
Ci sono due film che rappresentano non solo il passaggio tra queste due wave, ma anche i differenti rapporti d’influenza con quello che può essere individuato un po’ come il faro estetico per la new-wave iraniana, il neorealismo: The Runner (1984) di Amir Naderi e Dov’è la casa del mio amico? (1987) di Abbas Kiarostami.
«After the revolution my country entered into a war with Iraq. I thought maybe, maybe I could make a film like Rossellini’s, a cinematic document of this period in my countries history for future generations to look back on»
(Amir Naderi)
Il suo celeberrimo film The Runner trova nell’ estetica neorealista la chiave narrativa per raccontare la sua contemporaneità, la guerra che stava combattendo l’Iran contro l’Iraq. The Runner è come un figlio illegittimo dell’estetica neorealista italiana. Come la riproposizione iraniana del paesaggio distrutto postbellico all’ interno del quale i personaggi “vanno a zonzo”. Ma è con Dov’è la casa del mio amico? e con la successiva produzione di Kiarostami (ed autori come Makhmalbaf) che il cinema iraniano trova la sua profonda identità. La sua indipendenza dai metaforici padri italiani.
«Se dietro ogni regista europeo vedete un pittore, dietro un regista persiano trovate un poeta oppure un cantastorie. La poesia rappresenta per noi l’essenza dell’arte tradizionale»
(Mohsen Makhmalbaf)
La differenza tra il neorealismo ed il realismo di Kiarostami sta nel differente risultato percettivo della costruzione delle sequenze. Il neorealismo voleva mostrare la realtà che il cinema dei telefoni bianchi nascondeva: il paesaggio devastato dalla guerra, esistenze disperse e frantumate da un contesto di guerra. C’è una bellezza che però i “viandanti” neorealisti, quei personaggi che “vanno a zonzo” nel mondo del dopoguerra, non trovavano. In Kiarostami i piani-sequenze, i campi larghi del paesaggio, i dettagli sulla natura e gli oggetti, sono tutte scelte stilistiche che vanno in cerca della bellezza nascosta. In cerca di una ricostituzione dell’unità persa tra uomo e natura. Come nel cinema di Olmi e Piavoli o nel più recente cinema di Alice Rohrwacher.
La “metafisica terrena” di Kiarostami
Dov’è la casa del mio amico? possiede quell’ ”estetica-etica”, quell’ attaccamento al reale e quella sincera umanità racchiusa nel neorealismo. Quell’ esperienza profondamente italiana si trasforma in contatto con la tradizione iraniana. Il piccolo Ahmed non va semplicemente a zonzo spaesato e sovrastato da un paesaggio che non riconosce o che non lo riconosce (come il pensionato Umberto D.), ma Amhed si muove con il paesaggio. Il signor Badi (ne Il sapore della ciliegia) non è con il paesaggio che si scontra, ma con una tradizione, una cultura, con la gente.
È una tensione sociale sotterranea quella che attraversa il cinema iraniano di quegli anni e quello di Kiarostami. Una conflittualità non dal basso verso il basso, ma dal basso verso l’alto. Non è una guerra tra poveri. Forse è una guerra tra i bambini, portatori morali della libertà, e gli opprimenti e sordi adulti. Ed è attraverso l’identità artistica della poesia che il cinema iraniano stravolge l’estetica cinematografica, i tempi narrativi, il rapporto con la natura ed il conflitto tra gli uomini.
«We need to rinse our eyes
and view things differently»
Versi poesia di Sohrab Sepehri
È un cinema di lirismo che eguaglia quella misteriosa incompletezza del verso poetico facendosi arte cinematografica. Il cinema di Kiarostami non anela alla poesia ma si sovrappone ad essa, ne riproduce il mistero, attraverso i suoi tempi lenti, la narrazione di ampio respiro, l’ascolto della natura che compartecipa alle storie. Che sonda i confini tra reale e finzione, tanto con metacinematografia (come in Close-up (1990), Sotto gli ulivi (1994), Dieci (2002). Stile poi fondativo del cinema di Jafar Panahi) quanto con slancio poetico, dando vita a un sapore di metafisica terrena.
Michele Apicella: «Che bello sarebbe un film fatto solo di case»
(Caro Diario, 1993)
Moretti: una vespa per l’Iran
Nanni vaga per Roma sulla sua vespa. Osserva, commenta mentre Didi di Khaled suona in sottofondo. Il paesaggio è urbano. Le rovine di Roma città aperta adesso sono palazzi di cemento. Quartieri di una Roma senza più terrazze scoliane. Solo case e ragazzi che vivono queste case. Rintanati, nevrotici, stanchi, annoiati. La generazione di Moretti, che aveva trasportato il cinema di nuovo dall’esterno all’interno, figlia di autori sconfitti dalla storia, che hanno visto sgretolarsi l’identità del cinema italiano (tra la fine del neorealismo ed il tramonto della commedia all’italiana), lasciando alla generazione di Moretti una terra senza padri né ideali. Così si apre un cinema a basso costo, sperimentale, più moderno. Rivolto al documentario tanto quanto a cinematografie nuove.
Moretti allora, pur tenendo a mente la lezione pasoliniana, guarda all’Iran. Ad un cinema privo delle spettacolarizzazioni e dei sensazionalismi americani. Più poetico ed attaccato ad un paesaggio in cui la natura ancora resiste. Quello di Moretti è fatto di case e cemento. Lui allora vaga, gira per la sua Roma traducendo la poesia di Kiarostami in sarcasmo e nevrosi, ma mantenendo lo sguardo umano; la leggerezza della complessità emotiva che vive nel cinema di Kiarostami. Quella stessa complessità tragica che ne La stanza del figlio (2001) disinnesca completamente la pornografia del dolore, la drammatizzazione spicciola. Moretti, negli anni ’90, è l’anello di congiunzione tra un cinema iraniano che guardava con affetto, riverenza e passione l’identità neorealista italiana, ed un nuovo cinema italiano che, con quell’ eredità, pare non volerne più avere a che fare.