La commedia all’italiana
Per comprendere la natura di Io sono un autarchico ed Ecce Bombo è necessario, a parere di chi scrive, individuare prima le caratteristiche fondamentali del cinema italiano degli anni ’50 e ’60, ed in seguito la posizione assunta da Nanni Moretti nei confronti delle tendenze estetico/concettuali di quello stesso cinema.
“La commedia all’italiana è questo: trattare con termini comici, divertenti, ironici, umoristici degli argomenti che sono invece drammatici. È questo che distingue la commedia all’italiana da tutte le altre commedie.”
-Mario Monicelli
Si esprimeva così Mario Monicelli a riguardo di quella tradizione cinematografica di cui fu uno dei principali esponenti. La commedia all’italiana, infatti, non fu tanto una tendenza di film leggeri e un po’ volgari come erroneamente venne definita da certa critica del tempo, quanto più un filone narrativo nato alla fine degli anni ’50 che rappresentava uno dei tanti canali in cui il neorealismo si è poi disperso nel corso degli anni.
Era proprio in esso, infatti, che la commedia all’italiana si radicava, partendo sì dalla dimensione del reale, ma presentando modalità ed ottiche diverse con cui raffigurare la realtà Italiana in quel periodo. Una realtà che, dal dopoguerra in poi, era notevolmente cambiata, innestando dei mutamenti fondamentali nel costume, nella società, nei valori e nel comportamento stesso del popolo.
L’inizio della grande stagione della commedia all’italiana viene a posteriori individuata ne I soliti ignoti (Monicelli, 1958) per poi consolidarsi, all’inizio degli anni ’60, con opere quali La grande guerra (Monicelli, 1959), Divorzio all’italiana (Germi, 1961), I mostri (Risi, 1963), Ieri, oggi, domani (De Sica, 1963).
In essa le due figure cardine del passaggio dell’individuo alla società, ovvero il matrimonio e il lavoro, si configurano come limitative e intollerabili, ripudiate da soggetti fortemente individualisti che aspirano ad un’etica esibizionistica del successo. Nel racconto sembra così prevalere, a livello spaziale, il regime di disgiunzione, tradotto in un rifiuto totale dell’integrazione a favore di una condizione disgregante.
Se si analizza la prima scena di ballo in Poveri ma belli (Dino Risi, 1957) si può notare come ad un certo punto il personaggio di Salvatore (interpretato da Renato Salvatori) si allontani da Giovanna (Marisa Allasio) lasciando che balli con un altro personaggio e sostituendola con una scopa. Il rapporto di disgiunzione si configura qui non tanto a partire dal rapporto spaziale che si instaura nel passaggio da un’immagine all’altra, quanto nel contrappunto interno alla singola immagine, nel segno che la caratterizza (in questo caso lo scambio dei partner, tratteggiato dall’uscita dal campo dei personaggi).
In Guendalina (Alberto Lattuada, 1957) invece, l’utilizzo frequente di piani ravvicinati costringe i personaggi in spazi molto stretti, evidenziando paradossalmente la loro riluttanza alle opportunità di interazione offerte dal ballo. L’impressione è che siano molto più concentrati su sé stessi rispetto al resto.
Questi due esempi sono esplicativi di come la commedia all’italiana riuscì ad intercettare ed inscenare le conseguenze provocate dal boom economico, tra le quali la modifica dei ruoli personali e di nuovi stili di vita, dovuti all’imposizione progressiva ad un uso passivo e familiare del tempo libero a scapito delle relazioni di carattere collettivo e socializzante.
La commedia all’italiana si configura quindi come una satira dell’Io, che ricorre massicciamente a strategie di stereotipizzazione per sostituire il personaggio con la maschera, mettendo in scena il tic anziché il comportamento e ricambiando l’espressività con il ghigno.
È così che grandi attori già affermati sul panorama internazionale grazie al successo ottenuto in ruoli neorealisti finiscono con l’irrigidirsi nel cliché o nell’iterazione ossessiva di gesti e comportamenti.
Figure come Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Nino Manfredi, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, finiscono con il costruire nuovi personaggi piccolo borghesi che non gli sono propri, pregni di spavalderia, vittimismo, furbizia, scetticismo, ironia e disincanto: diventa evidente il tentativo di ancorarsi ad un modello figurativo per evitare la disgregazione dell’identità.
A livello narrativo, l’unità tradizionale si frammenta, riducendosi ad un insieme di aneddoti, sketch, episodi e gag. I personaggi si muovono alla cieca in un presente senza storia, fatto di istanti senza spessore alla ricerca frenetica del successo, raggiunto attraverso qualunque mezzo. La commedia diventa così un carosello, una sfilata, un contenitore di barzellette.
In molti film della commedia all’italiana le gag si costruiscono su due inquadrature che dialogano tra loro, da cui la collisione semantica fa scaturire l’effetto esilarante. Nel capolavoro di Mario Monicelli I soliti ignoti lo sbruffone boxeur Peppe “Er pantera” rifiuta l’offerta di 150.000 dollari per sostituire, in galera, l’amico Cosimo, dal momento che “puntando al titolo non sarebbe mai potuto finire dietro le sbarre“. La forza della gag risiede, oltre che nei dialoghi “al vetriolo”, nella contrapposizione tra l’inquadratura che da inizio all’episodio e a quella che lo chiude : nella prima ci viene presentato il personaggio di Peppe, tra le travi e i chiaroscuri di uno spazio improvvisato, nella seconda vediamo Peppe andare goffamente al tappeto per mano dell’avversario.
La commedia all’italiana vive di guizzi, di istanti, di esagerazioni, per questo non è più una commedia del visibile ma si denota come una pratica scopico-voyeuristica che consente di spiare gli altri. Lo spettatore, inadempiente ai suoi doveri sociali, può coltivare l’illusione di non essere a sua volta guardato: le maschere infatti sono talmente grottesche ed eccessive che gli consentono di disconoscerle, proiettandole come qualcosa di diverso dal sé. È dunque un pharmacos, un capro espiatorio che consente alla società effetti terapeutici che li liberano delle proprie colpe. Non si ride di sé, si ride sempre degli altri. Il disagio viene esorcizzato con pratiche basate sull’esclusione.
“L’umorismo o il grottesco hanno una funzione catartica“.
-Mario Monicelli
Nanni Moretti e la nascita di Michele Apicella
Dopo aver cantato le gesta del boom e in parte anticipato i sotto-movimenti del Sessantotto, la cinematografia nazionale sembra aver smarrito quella sintonia con lo spirito del tempo, che dal
dopoguerra in poi aveva costituito uno dei suoi tratti peculiari. Il prestigio maturato nei decenni e I’accumularsi dei riconoscimenti internazionali non bastano a mascherare una patologia incipiente. Sembra quasi che l’immaginario cinematografico, sicuramente ancora vivo e vegeto, inizi a muoversi per inerzia, fuori asse e fuori tempo, specie per l’avvento delle televisioni private.
Nel Dicembre del 1976, tuttavia, un giovane regista trentino decide di sfruttare questa importante fase di cambiamento sociale per erigere un vero e proprio discorso di “svecchiamento” delle dinamiche narrative del cinema popolare italiano.
L’esordio cinematografico di Nanni Moretti avviene proprio in quell’anno, con il film Io sono un autarchico, che vede come protagonisti il regista underground Fabio (Fabio Traversa), e due amici da lui ingaggiati come attori, Michele (lo stesso Moretti) e Giorgio (Giorgio Viterbo) rispettivamente padre di famiglia appena lasciato dalla moglie e professore supplente invaghito della ragazza della finestra di fronte. Con questo suo primo film, Moretti sente la necessità di inserire tutte le caratteristiche del suo modo di essere e di vedere la realtà circostante, di filtrarla attraverso il proprio sguardo: nasce l’icona di Michele Apicella, personaggio plastico che varia in ogni sua opera crescendo insieme al suo autore.
Egli è una maschera, un alter ego che giudica gli esseri umani e le loro meschinità fagocitando i film di cui è protagonista, diventando esso stesso il film. Le modalità di presenza e di apparizione della figura-corpo di Moretti nei suoi primi film, infatti, non possono che prescindere dal suo ruolo interpretativo: la storia, le luci, la macchina da presa, il montaggio lavorano al suo servizio. Più in generale, invece, tutto il cinema di Moretti può considerarsi alla stregua di una lunga seduta psicoanalitica, dove l’autore interroga costantemente sé stesso circa il proprio ruolo rispetto al mondo che lo circonda, i propri desideri e le proprie necessità.
A livello concettuale, con Io sono un autarchico Moretti si muove prevalentemente su due fronti: utilizzare la parodia e la plaquette per mettere in discussione schemi e vizi del cinema italiano ed effettuare un rinnovamento estetico attraverso il quale guardare oltre.
La forma narrativa del film è quella del dietro le quinte, cioè il racconto dell’allestimento di uno spettacolo teatrale. Ciascun protagonista è inserito in una linea narrativa che sviluppa una propria modalità parodistica. Le scene coniugali fra Michele e la moglie Silvia ricalcano ironicamente un cinema di “crisi della coppia” oscillante fra nevrosi, incomunicabilità e astuzia. La parodia qui non si limita alla retorica dei dialoghi ma si estende anche alle forme di rappresentazione: l’ultimo incontro tra Michele e Silvia si erige su una mimesi comica affidata al commento musicale o all’enfasi del gesto, mentre la voce interiore ora ironizza sulla scelta “turistica” della location (“Eh che caspita, sempre a Castel Sant’Angelo ci dobbiamo vedere! Vabbè, almeno mi vedo un pò di Roma“) ora deride la cattiva letteratura di cui si nutre certo cinema borghese (“Non avrei più rivisto quella donna, solo dopo 15 anni seppi da un amico che l’aveva rivista nei pressi di Modena“).
Mentre le traiettorie narrative di Giorgio e Michele ironizzano sullo psicologismo intimista di una certa tendenza del cinema italiano, il racconto delle peripezie di Fabio si accanisce su un altra figura mitizzata dell’immaginario nazionale : l’artista. Attraverso la sineddoche del teatro, infatti, viene preso di mira l’intero mondo dell’arte, nelle sue molteplici componenti. In primo luogo si mettono in evidenza le illusioni degli artisti e la loro indifferenza alla realtà sociale (“tu Fabio niente politica? niente?”), in secondo luogo si smaschera la sostanziale stupidità di un pubblico disposto a farsi piacere qualsiasi cosa pur di sentirsi intelligente.
È evidente, quindi, che il rapporto instaurato da Nanni Moretti con la tradizione cinematografica italiana si presenta al contempo come un incrocio e un’attualizzazione di tre strade diverse, tutte e tre di carattere popolare: la commedia grottesca (soprattutto politica), il neorealismo (con la sua eredità etica ed estetica) e la tradizione melodrammatica (l’amore, la famiglia e l’amore).
Estetica e Rinnovamento
Una delle soluzioni più originali ed innovative utilizzate da Nanni Moretti in Io sono un autarchico è quella di utilizzare il cinema come strumento di critica del sistema culturale. Forma e contenuto, nei film di Moretti, si sono sempre perfettamente integrati, creando una sempre profonda dialettica tra critica e regia. Gli intermezzi critici non si riducono mai a semplici parentesi, ma risultano fortemente correlati sia al carattere del personaggio sia alla strategia estetica del film.
Per contrapporsi ad un cinema italiano che copre di seducenti superfici lo sterile o peggio il turpe, Io sono un autarchico sceglie una scrittura audiovisiva semplice, elementare ma per nulla banale. Qui, dunque, si possono già notare alcuni dei principali tratti stilistici che andranno a caratterizzare la sua produzione successiva: i piani fissi, costanti di tutti i film di Moretti che vanno in parallelo ad un limitatissimo uso dei movimenti di macchina e ad una grande insistenza sui primi piani, sia frontali che di spalle; il ricorso al grottesco per distanziarsi dal presente attuale e poterlo rappresentare in maniera deformante senza rimanerne invischiati; la scelta di una scrittura fortemente autobiografica, fino ai limiti degli esperimenti del cine-diario; l’utilizzo abbondante della colonna sonora e della musica (di ogni tipo) per contribuire ai processi di significazione delle immagini.
La bassa definizione del Superotto diventa un modo per risalire agli elementi originari del linguaggio cinematografico (le scene reali dei fratelli Lumière, il montaggio alternato di Griffith, il sonoro stridulo delle prime screwball comedy) senza l’aggiunta di raffinatezze scenografiche o fotografiche che avrebbero potuto far lievitare i costi; a tal proposito basti pensare anche che Nanni Moretti scritturò solo attori non professionisti o interpreti di piccoli spettacoli teatrali.
“Tu pensi che il pubblico, per andare al cinema, abbia per forza bisogno di grossissimi nomi?“
-Nanni Moretti durante il famigerato scontro dialettico con Mario Monicelli
In questo senso si può davvero parlare di un progetto di rinnovamento stilistico, che non si limita a distruggere la retorica cinematografica nazionale ma propone un’altra strada. L’autarchico non è un anarchico: dietro la sua apparente semplicità disvela una costruzione estremamente precisa e regolata, leggibile nella sua struttura episodica (che crea una rima circolare tra la prima e l’ultima sequenza), nelle scelte di messa in scena, nella palette cromatica, nel découpage essenziale, nella scorrevolezza con cui il montaggio alternato coordina le diverse vicende, nella ricercatezza di certe soluzioni fuori dagli schemi (scavalcamenti di campo, plongèe, raccordi a percezione differita, fuori campo teorici che non vengono quasi mai mostrati).
Un’analoga cura della forma si riscontra anche nella configurazione sonora, altro tratto stilistico di fondamentale importanza nel cinema di Nanni Moretti: esempi chiari possono essere rappresentati dalla scena della lettura di Marx, dove avviene un passaggio da voce interiore a voce effettiva; oppure l’azzardato uso extra-diegetico di un brano di James Taylor nell’inquadratura di Michele a letto con il figlio (azzardato poiché non segue alcuna logica narrativa, è li solo in qualità di accompagnamento).
Con Io sono un autarchico, quindi, Nanni Moretti rende evidente come il suo obiettivo sia quello di allontanarsi dai sistemi di rappresentazione dominanti per perseguire un’altra forma, per tornare alle origini del linguaggio e togliere quella patina che, secondo lui, ha rivestito il cinema italiano degli anni ’50 e ’60. In tal senso, con questa sua prima opera, si oppone tanto ai grandi successi di pubblico e di critica (in una scena del film ripete ossessivamente il titolo di Pasqualino Settebellezze) quanto agli sperimentalismi avanguardistici dei circuiti indipendenti esemplificati dalla figura di Fabio, artificiosi, asfissianti e prevedibili.
Per l’Autarchico la realtà è fondamentale, necessaria a rendere verosimile il fuori campo narrativo.
Ecce Bombo
Ecce Bombo, il secondo lungometraggio di Moretti, è la prosecuzione ideale di Io sono un autarchico. Il titolo del film fa riferimento alla frase pronunciata da uno straccivendolo in una delle scene. Sul significato del termine si è disquisito molto, ma riflettendo sulle questioni imbastite dal film è molto probabile che un senso non ce l’abbia. Le difficoltà di comunicazione, il senso di estraniamento rispetto al mondo, la solitudine, nell’opera si traducono in un clima di disillusione ben esemplificato, a parere di chi scrive, da questa cantilena incomprensibile.
La crisi post-sessantottina, infatti, sembra essere ancora più centrale rispetto alla sua opera precedente; se in Io sono un autarchico Nanni Moretti tentava di comprendere il ruolo della sua generazione nel tessuto politico e sociale del paese, in Ecce Bombo sembra smarrirsi, non trovare più risposta alle sue domande. Gli hobby di Michele e dei suoi amici sembrano essere quelli ormai logori dell’andare in pizzeria, bere birra, o stare seduti al bar senza fare nulla, tra complicati rapporti sentimentali, scarso dialogo familiare e incontri di autocoscienza. Ecco che emerge nuovamente una differenza radicale rispetto alla commedia all’italiana, ovvero l’atto contemplativo come studio e riflessione sulle dinamiche sociali, politiche, economiche e psicologiche della società circostante.
Se la commedia all’italiana, osservando il passato, era stata in grado di intercettare le conseguenze del boom economico riconfigurando la dimensione valoriale, il primo cinema di Moretti riflette sul futuro in cerca di un equilibrio tra la dimensione contemplativa e quella attiva.
Pur segnando il debutto con una casa di produzione isituzionalizzata, quindi, Ecce Bombo mantiene lo stile “avaro e sincero” del suo predecessore, segnando una evidente continuità estetico/tematica (ancora la fissità del piano e l’antivirtuosismo della macchina da presa). Non vi è suspence, non vi sono momenti avvincenti, solo l’utilizzo di inquadrature fortemente sconnesse tra di loro, di un montaggio spezzetato che evidenzia nuovamente la forma episodica della struttura. Vige il vuoto, che non è dato però dall’utilizzo di un campo con elementi profilmici totalmente decentrati o assenti, ma dalle elissi che tolgono significanza alla vita dei personaggi, creando senso sul piano narrativo.
La famosa frase che Olga rivolge a Michele, “giro, vedo gente, mi muovo, faccio delle cose” testimonia di come anche il processo di verbalizzazione sia fondamentale nel cinema di Moretti. Questa vaga affermazione contiene infatti quella colpevole leggerezza che non consente ai personaggi del film di affrontare la realtà.
Infine, nelle opere di Moretti un ruolo estremamente significativo è ricoperto dal commento musicale, collocato di volta in volta secondo intenzionalità differenti.
La scena di ballo che si colloca a metà del film è accompagnata da Amare inutilmente del cantautore italiano Gino Paoli, e permette già di individuare alcuni dei tratti stilistici che caratterizzeranno molti brani del contenitore musicale morettiano .
Nella diegesi (il mondo in cui è ambientata la storia del film) il brano è scelto da Mirko (Fabio Traversa), nel momento in cui incontra i propri genitori alla presenza del proprio gruppo di amici, tra cui Michele Apicella. Il testo verbale ha un tono basso, fortemente realistico ed essenziale, e racconta di quanto sia inutile amare; la musica iniziale è realizzata soltanto da una chitarra arpeggiata sulla quale si staglia la voce flebile e rinunciataria di Gino Paoli.
Tutte le testualità (quella verbale e quella musicale) concordano dunque con il tono di fondo del film nel quale l’inutilità (delle azioni, dei dialoghi, del tempo) la fa da padrone: è sollecitata dunque la funzione di caratterizzazione dei personaggi, che coinvolge sia Mirko che tutta la compagnia di amici, nonchè la funzione ambientale, poichè l’ambiente inutile della casa è connotato da un brano che parla proprio dell’inutilità del sentimento.
Le modalità della messa in scena, pur nella loro semplicità, sottolineano anch’esse il tono del brano e l’accordo che ha con le immagini: mentre vanno in sottofondo le prime due strofe del brano la macchina da presa è ferma immobile ad inquadrare Mirko, Michele, gli amici e i genitori di Mirko seduti sul divano, che sembrano quasi compiacersi a vicenda della loro inutilità o dell’inutilità di quel momento; con la terza strofa la musica cambia, e di conseguenza cambia anche l’inquadratura: mentre aumentano gli strumenti e si aggiungono i fiati (e la melodia si muove su note sempre più alte), i personaggi della stanza si mettono a coppie ed iniziano a ballare un lento, inaugurando così una modalità di inserimento della canzone nel tessuto filmico a cui Moretti farà ricorso spesso, e che
riguarderà canzoni non soltanto italiane, ma soprattutto straniere; in questo caso viene sollecitata dunque anche la funzione di istanza narrativa primaria, perché è la testualità performativa della canzone nell’arrangiamento che condiziona i movimenti dei personaggi sia dal punto di vista diegetico (si mettono a ballare quando la musica diventa “più ballabile”) che da quello filmico (tutta la sequenza è costruita proprio a partire da questa bipartizione già insita nella canzone, e successivamente traslata nel montaggio e nella costruzione della sequenza).
L’effetto che ne scaturisce, quindi, è straniante, in netta controtendenza con le modalità espressive e concettuali del ballo nella commedia all’italiana, dove i corpi dei personaggi invadono prepotentemente il quadro asfissiando lo spazio e reclamando ciascuno la propria centralità.
Ecce Bombo, con la sua semplicità e con il suo rigore stilistico, mette in scena l’inconcludente fluttuare di argomenti e problematiche esistenziali, senza avere la retorica pretesa di trovare a tutti i costi delle risposte. Nelle riunioni di Michele e dei suoi amici la teoria della cultura di gruppo viene messa in crisi a favore di un processo di individualizzazione con cui Moretti dialogherà sempre più intensamente nei suoi film sucessivi, e che può essere riassunto nella scena finale in cui a casa di Olga, tra tutti, si presenterà solo Michele.
È questa la nuova generazione decadente di Nanni Moretti.